Ora c’è un vincitore, netto, un programma da attuare e una squadra di governo da limare. Il risultato delle elezioni politiche sembrerebbe aver delineato un quadro idilliaco, per un Paese che solo nell’ultima legislatura ha cambiato tre governi e altrettante maggioranze; e che in quella precedente aveva fatto esattamente lo stesso percorso. Ma ci sono ancora tanti nodi da sciogliere, prima di accendere i riflettori sui prossimi 5 anni, partendo proprio da chi avrà la responsabilità di guidare il governo. Le urne – e la regola interna che si è dato il centrodestra – dicono che dovrebbe essere Giorgia Meloni a occupare il piano nobile di Palazzo Chigi. Il problema, se proprio si vuol vedere il pelo nell’uovo, è che i suoi alleati non le hanno concesso anche la guida della coalizione.
Starà alla vincitrice di questa tornata elettorale prendersi anche quella leadership. Con i fatti. Perché ora le risposte le dovrà fornire lei, mentre a Matteo Salvini e Silvio Berlusconi spetterà il compito di condividerle o provare a fargliele cambiare. Partiamo dal tema che ha caratterizzato la campagna elettorale: le bollette. O meglio, l’aumento ipersonico dei costi per famiglie e imprese. Ormai le motivazioni sono note a tutti: c’è la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, che ha portato l’Europa a una reazione che ha prodotto sanzioni pesanti per Mosca, che a sua volta sta usando le forniture di gas come ‘merce di scambio’ per alleggerire la pressione sui suoi conti pubblici. Ma c’è anche un altro fattore, la speculazione, che approfitta di questa incertezza geopolitica e geostrategica per aggiungere granelli al pallottoliere dei guadagni. Quindi, la nuova maggioranza cosa sceglierà: lo scostamento di bilancio da almeno 30 miliardi che chiede la Lega o si batterà per price cap europeo e disaccoppiamento del prezzo dell’energia elettrica da quello del metano?
Prima ancora di arrivare al punto, c’è addirittura un altro scoglio da superare, quello della composizione del governo. Non solo, e non tanto, per i nomi da mettere in squadra. Quanto per la distribuzione delle deleghe. Per essere più chiari: cosa ne farà il centrodestra del ministero della Transizione ecologica? La domanda non è peregrina. Perché attualmente Roberto Cingolani ha nel suo portafoglio anche l’energia, che negli anni della Prima Repubblica era un ministero a sé stante. In una crisi energetica dai contorni ancora indefinibili, cosa farà Meloni, riporterà la delega in capo allo Sviluppo economico o lo lascerà a via Cristoforo Colombo? Dai rumors dell’estate si era ipotizzato anche un secondo mandato per Cingolani, ma il diretto interessato ha smentito seccamente anche pochi giorni fa. Andrebbe bene a Salvini e Berlusconi lasciare lo status quo?
Altro dossier caldissimo riguarda la crisi agroalimentare. La siccità ha lasciato segni pesanti sulla pelle di imprese e lavoratori del comparto. Come se non bastassero i guai, dopo il blocco prolungato del grano ucraino e i ritardi che hanno portato nelle varie produzioni. Senza dimenticare la battaglia con l’Europa contro il nutriscore o l’irrisolto problema degli invasi mancanti in Italia e del dissesto idrogeologico. La Lega non ha mai fatto mistero di voler rivendicare il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Ma con i risultati delle urne, al di là delle parole al miele del day after, andrà bene a Meloni e Berlusconi lasciare un dicastero così importante all’alleato che più di tutti ha bisogno ora di riprendere quota e consensi? L’elettorato è ampio e ha dato più volte dimostrazione di guardare poco all’ideologia e molto al pragmatismo: poche parole, molti fatti e su di loro si può contare quando c’è un’elezione.
I nodi da sciogliere, però, non riguardano solo la maggioranza. C’è anche un’opposizione da costruire e ricostruire. Non una cosa da poco, perché spesso le minoranze sono state decisive per cambiare i destini di un provvedimento. Qualche volta salvando anche la faccia delle maggioranze. Il Pd, dopo un periodo di floridità post amministrative, è ripiombato nel solito dramma di un conflitto interno irrisolto. Ci sarà un nuovo Congresso, una nuova leadership ma da più parti arriva invece la richiesta di organizzare una vera e propria costituente per sciogliere quei nodi che dati alla mano – non l’hanno mai resa una forza politica compiuta. Anche il Movimento 5 Stelle, nonostante il risultato lusinghiero, può tirarsi fuori dall’analisi di una situazione complicata. Certo, non c’è stata la Caporetto che tutti i sondaggi avevano previsto, ma il 15% e una pattuglia di una sessantina-settantina di parlamentari (in molti casi volti nuovi) non può dare certezze a Conte e i suoi uomini.
La curiosità sarà il Terzo polo. Non ha raggiunto il 10% che si era prefissato, forse la realtà è un po’ più amara delle aspettative, ma potenzialmente Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno in mano le chiavi di una macchina da assemblare. Se tutti i pezzi saranno messi nel posto giusto, con pazienza e abnegazione, non è assurdo pensare che un domani il progetto possa crescere e ritagliarsi uno spazio più ampio nel panorama politico. Soprattutto se il Partito democratico non riuscirà nell’intento di rimettere insieme i cocci della sconfitta e risorgere dalle proprie ceneri. Gli interrogativi, dunque, non mancano mentre Mario Draghi si prepara a liberare la scrivania di Palazzo Chigi. Non prima di aver affrontato, ancora una volta almeno, l’arena europea per ottenere il tetto al prezzo del gas. Dopodiché dovrà cedere campanella e testimone a Meloni, con molta probabilità. Da quel momento i punti interrogativi dovranno trasformarsi in esclamativi. Gli italiani aspettano soluzioni.