Impatto sull’ambiente dell’ammoniaca green sotto la lente di un team di ricerca

Quale impatto può avere l’ammoniaca ‘green’ sull’ambiente e sui cambiamenti climatici? Se lo sono chiesto la U.S. National Science Foundation, la UK Research and Innovation e il Natural Sciences and Engineering Research Council of Canada che hanno finanziato congiuntamente un nuovo centro globale per affrontare l’opportunità e la sfida emergente di questa sostanza per fornire energia pulita e sostenere la produzione alimentare, mitigando al contempo il cambiamento climatico. Il Centro globale per l’innovazione sull’azoto per l’energia pulita e l’ambiente (NICCEE), fornirà approfondimenti tempestivi e cruciali perché, spiega il direttore Xin Zhang “speriamo di poter sfruttare l’innovazione tecnologica della produzione di ammoniaca verde per sostenere le iniziative di energia pulita, combattere il cambiamento climatico e garantire le forniture alimentari per il futuro, riducendo al minimo i rischi di conseguenze indesiderate”.

L’attuale produzione industriale di ammoniaca è ad alta intensità energetica e dipende principalmente dai combustibili fossili, contribuendo all’1-2% delle emissioni globali di gas serra. Nel settore agricolo, la tecnologia dell’ammoniaca verde potrebbe portare al decentramento della produzione di fertilizzanti, migliorandone l’uso e rafforzando la produzione alimentare nei Paesi in cui l’accessibilità a quelli azotati (N) è stata limitata, migliorando così la produzione di colture, la prosperità economica, la nutrizione e la sicurezza alimentare. Tuttavia, una maggiore disponibilità di questi prodotti potrebbe anche esacerbare gli attuali gravi problemi ambientali legati alle perdite di azoto nell’aria e nell’acqua dovute a un uso eccessivo e inefficiente dei fertilizzanti.

Nel settore dei trasporti, in particolare in quello navale, l’ammoniaca verde è un’opzione valida e promettente per sostituire i tradizionali combustibili fossili, ma in questo modo è probabile che si triplichi la quantità di azoto reattivo che l’uomo introduce nella biosfera, si aggravi l’inquinamento costiero e si aumentino le emissioni di N2O, che è il terzo più importante gas a effetto serra.

Insomma, ora la scienza si interroga sul rapporto tra i benefici e i danni che potrebbe causare questo sviluppo. “Il cambiamento climatico e l’inquinamento da azoto sono due delle minacce più significative per l’umanità e sono inestricabilmente collegate”, spiega David Kanter, professore della New York University e presidente dell’Iniziativa internazionale sull’azoto.

Il NICCEE fungerà da centro di informazione con una cyberinfrastruttura all’avanguardia per monitorare il ciclo di vita e gli effetti dell’azoto nei sistemi agricolo-alimentare-energetico. “L’avvento dell’ammoniaca verde, a seconda di come si svilupperà, potrebbe contribuire alla soluzione o aggravare il problema dell’uso inefficiente dei fertilizzanti N e della perdita di azoto nell’ambiente. Dobbiamo anticipare questa imminente trasformazione tecnologica in modo che gli impatti dell’ammoniaca verde siano guidati da un’eccellente ricerca agronomica e socio-economica”, dice il professore dell’UMCES Eric Davidson.

L’impegno internazionale coinvolge collaboratori di otto Paesi, provenienti da università, Ong, organizzazioni internazionali, governo e aziende private, e riunisce competenze in biogeochimica e scienze agronomiche, ingegneria chimica, modellazione di sistemi complessi, sociologia ambientale, economia, statistica e scienza dei dati, ecologia costiera ed equità nelle geoscienze, impegno e valutazione scientifica, telerilevamento, diritto e politica ambientale, modellazione atmosferica, scienza della sostenibilità, valutazione del ciclo di vita e scienza traslazionale.

“Il processo di ammoniaca verde consiste nello sfruttare l’energia solare o altre fonti di energia rinnovabili per produrre ammoniaca senza emissioni di anidride carbonica. Ad esempio, la luce solare può guidare la conversione dell’azoto e dell’acqua in ammoniaca”, precisa Nianqiang (Nick) Wu, Co-PI e Armstrong-Siadat Endowed Chair Professor presso l’Università del Massachusetts Amherst.

Greenpeace mappa allevamenti: soldi anche a chi inquina troppo

Quasi novecento allevamenti intensivi in Italia inquinano emettendo molta più ammoniaca degli altri, pur ricevendo fondi pubblici. La mappa la traccia Greenpeace, che rivela dove si trovino gli allevamenti segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR) che emettono maggiori quantitativi di ammoniaca (NH3), un inquinante dannoso per l’ambiente e la salute umana, e quanti soldi pubblici ricevono.

Nel complesso, l’associazione ambientalista ha geolocalizzato 894 allevamenti inquinanti appartenenti a 722 aziende, alcune delle quali fanno capo a gruppi finanziari come il colosso assicurativo Generali, a nomi noti del food come Veronesi SpA, holding che comprende i marchi Aia e Negroni, o a grandi aziende della zootecnia come il gruppo Cascone.

Le regioni della Pianura Padana sono quelle maggiormente a rischio. Qui, infatti, ha sede il 90% degli allevamenti italiani che nel 2020 hanno emesso più ammoniaca. Capofila è la Lombardia, dove si trova oltre la metà degli stabilimenti che emettono grandi quantità di ammoniaca, una sostanza che concorre in maniera importante a formare lo smog che respiriamo: combinandosi con altre componenti atmosferiche (ossidi di azoto e di zolfo), l’ammoniaca genera infatti le pericolose polveri fini.

Dati alla mano, in Italia gli allevamenti sono la seconda causa di formazione del particolato fine (responsabili di quasi il 17% del PM2,5), più dei trasporti (14%) e preceduti solo dagli impianti di riscaldamento (37%). Mappare dove si trovano i maggiori emettitori di ammoniaca è quindi cruciale per sapere quanto è compromesso l’ambiente in cui viviamo, visto che l’elevata presenza di polveri fini comporta pesanti ricadute per la salute, come Greenpeace ha segnalato in un precedente studio condotto con ISPRA.

Aggiornando i dati pubblicati nel 2018, l’inchiesta di Greenpeace mostra come quasi 9 aziende su 10, tra quelle che possiedono allevamenti segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR), abbiano ricevuto finanziamenti nell’ambito della Politica Agricola Comune (PAC): un totale di 32 milioni di euro nel 2020, per una media di 50.000 euro ad azienda.

Le polveri fini (PM2,5) sono responsabili di decine di migliaia di morti premature ogni anno: l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha stimato quasi 50.000 vittime in Italia nel solo 2019. Com’è possibile ridurre drasticamente la diffusione di queste sostanze, se, parallelamente, si continuano a finanziare i modelli zootecnici intensivi e inquinanti che le producono?”, tuona Simona Savini, campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.

L’inquinamento segnalato però è solo la punta dell’iceberg. Infatti, il Registro europeo E-PRTR riporta solo una parte delle emissioni della zootecnia, tanto che nel 2020 il 92% delle emissioni di ammoniaca prodotte dagli allevamenti non ha trovato “responsabili” nell’E-PRTR, perché non monitorato. Questa dannosa lacuna segnala l’urgenza di monitorare e regolamentare un maggior numero di allevamenti, come previsto dalla proposta della Commissione UE di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali. Una proposta, però, che ha già scatenato violente reazioni da parte di esponenti politici e di alcune organizzazioni di categoria. “Sembra che si faccia finta di ignorare che gli allevamenti intensivi sono già da anni considerati attività insalubri di prima classe, e che pertanto servono misure per proteggere la salute delle persone e l’ambiente dalle loro pericolose emissioni. Per farlo in modo efficace, occorre pianificare una riduzione del numero degli animali allevati, come sta già accadendo in altri Paesi europei – sostiene Savini –. Rimandare questi provvedimenti, significa ignorare gli impatti su salute e ambiente legati all’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi“.

 

(Photo credits: DENIS CHARLET / AFP)