Da Ozzano ai social per una cosmesi green che fa sorridere

In un mondo di influencer, di esasperazione della comunicazione social e di utilizzo quasi barocco di superlativi assoluti, esiste un posto – online e offline – in cui si fanno cose belle, che abbracciano il pianeta, che aiutano a prendersi cura di sé e aiutano anche a ridere. Con semplicità. Che male non fa. A Ozzano Monferrato, nell’alessandrino, 20 anni fa è nata Antos, azienda a conduzione familiare che produceva miele e prodotti derivati di elevata qualità e che – con l’entusiasmo e l’incoscienza di tutte le start up – ha deciso di buttarsi nel mondo della cosmesi. Senza fronzoli, senza badare troppo all’immagine patinata scelta da molti concorrenti e con un pizzico di irriverenza che ha reso il brand riconoscibile e amato (o no) anche per questo. A guidarla ci sono Gian Luca Mortara e la sorella Silvia, ma se bazzicate Instagram avrete sicuramente visto lui in qualità di testimonial d’eccezione, con i suoi reel divertenti ma sicuramente d’impatto (il video dei Maneskin ‘Le parole lontane’ fu girato proprio a Ozzano, vicino al laboratorio. Ecco allora che Gian Luca non si è lasciato sfuggire l’occasione di un omaggio in stile Antos. Qui il link del video).

Dopo i mercatini di ordinanza, nel 2010 Antos ha aperto lo store online e, contestualmente, i profili social. “Abbiamo scelto di fare cose diverse dagli altri – racconta Gian Luca a Gea – mettendola sul ridere e abbiamo visto che funzionava, perché aiutava a ricordare il brand e ci permetteva di distinguerci”. Anche se, ammette, questa comunicazione non piace a tutti, “soprattutto a chi decide di farsi abbindolare da alcuni claim. Noi, invece, diamo informazioni reali”. Che significa consapevolezza di quello che è un cosmetico: non ci piallerà la faccia, non ci trasformerà in Belen Rodriguez, ma sicuramente farà bene a corpo e spirito. Una comunicazione gestita internamente dallo staff di Antos e che “all’inizio era un po’ più irriverente”, poi con il tempo si è ammorbidita.

L’azienda produce l’intera linea cosmetica (destinata anche ai gruppi di acquisto solidale) con materie prime sostenibili e, quando possibile, di origine vegetale. Si va dagli emulsionanti derivati da olio di cocco e olio di oliva, a sostanze super performanti derivate da un sistema di economia circolare, come “i galattomiceti ottenuti dagli scarti della lavorazione del saké”, o altre materie prime che derivano dagli scarti del vino, spiega Gian Luca. O, ancora, lo squalano vegetale “proveniente dalla lavorazione sostenibile della canna da zucchero in un’azienda che si impegna a recuperare l’acqua necessaria alla produzione”. Tutta la filiera viene tracciata, affinché il contenuto dei prodotti Antos rispetti totalmente gli standard di qualità e quelli etici.

Ma uno dei punti di forza dell’azienda di Ozzano è legato alla politica dei prezzi. Per intenderci: un siero all’acido ialuronico (indispensabile per gli skin care addicted) costa 8 euro, risultando così accessibile praticamente a tutti. Ma l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime ha costretto Gian Luca e Silvia a rivedere il listino “all’inizio del 2023. Certo, un piccolo aumento c’è stato, ma crediamo comunque in un prezzo equo” e popolare.

L’onestà del brand si traduce anche nella schiettezza di chi l’ha creato. L’anno scorso Antos ha lanciato Pow, un detergente in polvere 100% che cambia l’approccio alla cosmesi, “ma la risposta è stata fredda. Ci siamo accorti che spesso la sostenibilità è vista come uno specchietto per le allodole”. Il prodotto, infatti, va miscelato con l’acqua e, se lo si desidera, può essere personalizzato con oli essenziali. Insomma, ci va una partecipazione diretta alla ‘creazione’ del cosmetico. “Le persone sono felici quando utilizzano flaconi in plastica riciclata, ma questo prodotto cambia proprio l’impatto ambientale”, e non tutti lo comprendono. “Con i detergenti in polvere – spiega Gian Luca – in laboratorio arrivano centinaia di chili e non tonnellate di materie prime, si risparmia sull’acqua di produzione e i sacchetti sono in carta e non in polvere”. Ma il progetto non sarà abbandonato, anzi. Perché la consapevolezza passa anche dalla conoscenza. E, perché no, da una risata.

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Dai vecchi forum ai nuovi social: la cosmesi green passa anche dal web

Community, influencer, piattaforme, engagement, DM, #gifted, #ad. Se c’è una regola a cui nessuno può sfuggire nel mondo della comunicazione è che i social network non sono (solo) una cosa da Millennial. E che il successo – di un prodotto, di una campagna, di un’iniziativa – passa quasi sempre da lì. Così come le opinioni, per essere considerate degne di nota, non possono dimenticare di fare una capatina nelle stories o di essere accompagnate dalla musica per un reel. Nel caso della cosmesi green, la dimensione social(e) del tema affonda le sue radici almeno 20 anni fa. Se prima erano le riviste a raccontare questo mondo, dall’inizio del millennio è il web la madre patria della comunicazione dedicata ai cosmetici, in modo particolare a quelli naturali. Grazie a Fabrizio Zago, chimico e uno dei massimi esperti in materia, chi in quegli anni cercava informazioni sul rapporto tra prodotti cosmetici, ambiente e salute, si sarà imbattuto nel forum di Promiseland, che già dal nome evocava una certa idea di futuro. Qui, racconta a GEA Barbara Righini, una delle prime a condividere sul web informazioni sull’ecobio “ho scoperto news sconvolgenti sulla cosmesi e ho capito che andavano raccontate, dovevano uscire da quella nicchia. Da qui l’idea di aprire un blog – poi trasformato in portale – e, soprattutto, il forum ‘Sai cosa ti spalmi?’ che dal 2005 è diventato un punto di riferimento fondamentale per gli appassionati del settore.

Blog e forum. Ecco cosa offriva il web 20 anni fa. “C’era un grande spazio vuoto che andava occupato”, spiega Cristopher Cepernich, docente di Sociologia della comunicazione all’Università di Torino, e in quello spazio vuoto “ha preso vita un internet molto diverso da quello di oggi, basato sull’idea tecnicamente possibile di orizzontalità”. Nei forum dedicati alla cosmesi green – Sai cosa ti spalmi? e Promiseland, ma anche L’Angolo di Lola, dedicato in modo particolare all’autoproduzione – “c’era il desiderio di parlare, di confrontarsi – dice Righini – di trovare informazioni serie e affidabili. Il concetto di ‘community’ era reale: molti che parlavano a molti. Una potenza che arrivava dal basso”. Ma non solo.

Lo spazio della condivisione – racconta Cepernich a GEA – era pensato orizzontalmente. C’erano regole di gestione delle interazioni di gruppo, ma era la stessa struttura tecnica del forum” a garantire una sorta di partecipazione democratica. Certo, anche allora c’erano i leader (che oggi chiameremmo influencer), ma, dice il docente, “eravamo tutti parte del gruppo”. Così, ad esempio, se qualcuno chiedeva informazioni su un particolare attivo cosmetico, la community si attivava e forniva informazioni citando fonti e studi autorevoli.

E oggi? “Con la nascita delle cosiddette piattaforme, cioè i social network, si sono create delle sovrastrutture”, spiega Cepernich, “guidate da una logica di profitto e non di condivisione”. Chi sta su Facebook, Instagram, TikTok, lo fa “con le regole che decide la piattaforma e che puntano all’acquisizione di dati personali”.

Lo scopo, perciò, è ben diverso da quello dei forum. Non solo entra più spintamente in gioco il denaro, ma la comunicazione passa da molti-a-molti a uno-a-molti. E, cosa assolutamente fondamentale per comprendere questo passaggio, nasce il concetto di “performance: chiunque sui social può misurare in tempo reale le interazioni, i messaggi ricevuti, l’engagement”. Una logica esattamente opposta a quella dei forum, che non chiedevano di misurare proprio nulla, ma invitavano a partecipare alle discussioni come e quando si desiderava.

Per Barbara Righini, nel caso della comunicazione della cosmesi c’è dell’altro. “Oggi – dice – anche quando viene fatto in buona fede, il racconto è sempre pubblicitario. Gli influencer e i divulgatori si mettono su un piedistallo e parlano ai followers che, però, non sono una community intesa come persone che hanno uno scambio per acquisire autonomia di pensiero, ma sono ‘seguaci’ che non hanno spazi adeguati di condivisione, per cui la comunicazione viene più ‘subita’ che vissuta in modo partecipativo”. Insomma “ora si punta sulla viralità e non sulla partecipazione dal basso”. Senza contare, poi, che “chi ha i mezzi economici può conquistare grandi numeri e chi ha grandi numeri acquista un enorme potere”.

Anche oggi, però, è possibile tentare di ritrovare quella dimensione ‘orizzontale’. Ad esempio, spiega Cepernich, all’interno dei gruppi Facebook, su Telegram o Whatsapp, “dove le relazioni sono più circoscritte, c’è maggiore omogeneità perché le persone hanno interessi simili, si rispecchiano nell’identità del gruppo. Viene meno l’autorappresentazione, cioè il mettersi in scena” tipica dei social.

Ma allora tutto ciò che troviamo su Instagram e su Facebook è da buttare? Certamente no. Anche se il moltiplicarsi delle fonti ha reso estremamente complesso individuare quelle sicure dalle fake news, è possibile tornare a discutere in modo paritario attraverso “nicchie identitarie che, secondo il docente di Sociologia della comunicazione, potrebbero essere il futuro. “I social – spiega – stanno perdendo la loro identità generalistica e si va sempre più verso la frammentazione dei gruppi e della discussione. Quindi non 100mila persone che discutono in un grande gruppo, ma 50mila sottogruppi diversi che parlando di argomenti specifici”.