Urso: “Su materie prime critiche rischio approvvigionamento, verso riapertura miniere”

Norme per riaprire le miniere. Il primo ‘Chips Act’ italiano. Un dialogo continuativo con Intel ma soprattutto una nuova riunione ‘trilaterale’ con Francia e Germania. Il ministro Adolfo Urso ha illustrato la linea del governo per quanto riguarda il tema dell’approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime critiche intervenendo in commissione Industria del Senato. “Siamo in una fase paragonabile a quella della corsa all’oro”, ha esordito il titolare del dicastero di Imprese e Made in Italy. Sull’approvvigionamento “i rischi a cui siamo esposti sono evidenti e la sequenza di crisi recenti ce lo ha ricordato”, ha spiegato. Al momento in Europa, la maggior parte delle materie prime critiche viene importate dall’estero, la Cina è il maggiore fornitore: “da sola garantisce attualmente il 49%, cioè la metà, del fabbisogno totale effettivo di materie prime critiche globali“. Questo in un contesto in cui il fabbisogno “è destinato ad aumentare in modo esponenziale in quanto strettamente connesso allo sviluppo e alla diffusione delle tecnologie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione”. Nel dettaglio, ha ribadito, “l’Unione Europea dipende quasi esclusivamente dalle importazioni spesso concentrate in un numero ristretto di paesi terzi sia per l’estrazione, sia per la trasformazione. Ad esempio l’Unione Europea acquista il 97% del magnesio dalla Cina, le terre rare pesanti utilizzate nei magneti permanenti sono raffinate esclusivamente in Cina, il 63% del cobalto mondiale utilizzato nelle batterie viene estratto nella Repubblica democratica del Congo, mentre il 60% viene raffinato in Cina”.

Dal canto suo l’Italia possiede 16 delle 34 materie prime critiche indicate dall’Ue come strategiche per la loro rilevanza nella transizione ecologica e digitale. Ma “si trovano in miniere chiuse oltre 30 anni fa per il loro impatto ambientale e per la mancanza di margini di guadagno. Occorre investire e riattivare queste potenzialità. La proposta di regolamento comunitario ci chiede di riaprire le miniere e di compiere uno sforzo in termini di recupero e di investimento in capacità tecnologica. Si tratta di una sfida e di una grande opportunità per il nostro paese” , ha ricordato Urso ipotizzando che “entro la fine dell’anno” si possa avere tutto il quadro sull’estrazione e lavorazione in Europa. Per quanto riguarda il piano minerario italiano, si sta “preparando la mappatura dei siti di estrazione con il ministro Pichetto, partiamo dalle mappe di 30 anni fa“.

Riguardo la concorrenza di Taiwan sulla microlettronicapresenteremo in Parlamento ai primi di agosto, prima della pausa estiva, il decreto legge sulla microelettronica, il ‘Chips Act’ italiano, in sintonia con il ‘Chips Act’ europeo, siamo il primo Paese a realizzarlo” per individuare una strategia nazionale sulla microelettronica perché riteniamo che l’Italia sia il Paese ideale dove investire” nel campo dell’economia digitale, anche rispetto ai competitor esteri.  Come ha spiegato il ministro, “Per prepararci, già nei mesi scorsi una task force ministeriale è stata a Taiwan, in Corea del Sud, in Giappone e negli Stati Uniti, i 4 Paesi produttori della microelettronica ad incontrare diverse imprese multinazionali“, ha aggiunto.

Con Intel “siamo in rapporti continuativi, noi e le regioni abbiamo risposto a tutte le richieste che ci ha fatto per essere competitivi rispetto ad altri Paesi europei“, ha ricordato Urso, parlando dell’atteso investimento che la multinazionale della microelettronica dovrebbe realizzare in Italia. “Con le due regioni interessate, Veneto e Piemonte – ha spiegato – abbiamo risposto a tutte le richieste su formazione e logistica del territorio, sia per quanto riguarda le risorse, poi sceglierà l’azienda dove localizzare. Intel ha presentato un progetto europeo che prevedeva una serie di investimenti in Francia, Germania e Italia, e quindi deve rispondere alla richiesta di un progetto europeo. Quello in Italia è il più avveniristico, perché riguarda un nuovo stadio tecnologico nei chip, mentre in Francia e Germania risponde alla tecnologia attuale“. Ma, ha infine precisato, “Intel non è l’unica azienda che può investire nel nostro Paese, è una tra le tante“, ha ricordato Urso.

European Chips Act

L’enorme costo ambientale della sovranità digitale dell’Ue

Sovranità digitale, ma con un costo ambientale ed energetico non trascurabile. La Commissione europea ha presentato lo scorso 8 febbraio l’European Chips Act, la strategia sui microchip per prevenire, preparare, anticipare e rispondere rapidamente a qualsiasi futura crisi nella catena di approvvigionamento dei semiconduttori, come quella che da mesi ha travolto l’Europa e il resto del mondo. L’European Chips Act rappresenta il pilastro imprescindibile della tanto agognata sovranità digitale dell’Unione Europea – “senza il quale non esisterebbe alcuna autonomia”, secondo le parole della presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen – e prevede il raddoppio della quota di mercato entro il 2030, oltre a 43 miliardi di euro in investimenti pubblici e privati mobilitati.

Ma l’aumento della quota di produzione europea dei semiconduttori, le piccole componenti essenziali per tutti i sistemi elettronici, dagli smartphone alle automobili, rischia di lasciare scoperto sul breve e medio periodo più di un fianco vitale per l’agenda verde dell’UE: quello della transizione verde, il Green Deal europeo, ma anche l’approvvigionamento energetico nel pieno di una crisi globale aggravata dalle conseguenze della guerra russa in Ucraina. Nel Chips Act è stata trascurata la questione del costo ambientale della produzione dei semiconduttori, sul piano dell’inquinamento idrico e atmosferico e del consumo di acqua ed energia, per uno dei settori manifatturieri più energivori.

In verità, nel testo della strategia UE si legge che “le tecnologie digitali hanno un’impronta ambientale che va dal rilascio di gas fluorurati a effetto serra al significativo consumo di energia per la loro produzione e durante il loro utilizzo”. Tuttavia, quello che emerge con evidenza dal testo è che la proposta legislativa si concentra quasi esclusivamente sulle prestazioni delle nuove generazioni di microchip, che renderanno più efficienti dal punto di vista dell’efficienza energetica i dispositivi elettronici e le infrastrutture dell’informazione e della comunicazione. È però sull’impatto ambientale e sul costo energetico della produzione che sembra esserci un buco nelle valutazioni del sistema di scambio di quote di emissione (ETS), per quanto riguarda gli obiettivi climatici del settore della manifattura dei semiconduttori.

Se è vero che il consumo energetico operativo dei dispositivi connessi è costantemente in calo, non va dimenticato che quanto più sofisticato è il chip, maggiore è l’impatto ambientale. Per esempio, la produzione di microchip avanzati a 2 nanometri richiede più del doppio di acqua e tre volte l’elettricità rispetto a quelli a 28 nanometri e diverse ricerche indipendenti hanno rivelato che i principali produttori di microchip hanno superato in termini di impronta di carbonio e rifiuti pericolosi i settori tradizionalmente più inquinanti, come quello automobilistico.

È chiaro che, per quanto riguarda la produzione dei semiconduttori, la sovranità digitale dell’UE potrebbe non essere conciliabile con l’agenda verde, almeno non sul breve periodo. Nel 2020, il primo produttore di microchip, TSCM, ha emesso 15 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente, quasi il doppio rispetto all’anno precedente, mentre il secondo produttore, Samsung, ne ha emesse quasi 13 milioni. “La creazione di impianti industriali può avere un impatto negativo sull’ambiente, ma questo può essere compensato dal loro contributo alla transizione verso la sostenibilità a lungo termine”, ha confessato alla stampa di Bruxelles un portavoce del gabinetto guidato dalla presidente von der Leyen.