microplastiche

Migliaia di pellets di plastica sulle coste pugliesi: la denuncia di Greenpeace

Migliaia e migliaia di lenticchie sulle spiagge pugliesi. Osservando con più attenzione, però, è facile comprendere che delle lenticchie quegli oggetti hanno solo la forma. Sono chiamati pellets di plastica, o nurdles, più semplicemente in italiano ‘granuli’. È quello che emerge dal report ‘Inquinamento silenzioso’, diffuso oggi da Greenpeace Italia, nel quale vengono illustrati i risultati dei campionamenti effettuati nel 2021 in dodici spiagge lungo le coste pugliesi. A seguito dei risultati dell’indagine, l’organizzazione ambientalista ha presentato un esposto in procura, chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di questi granuli.

Ma cosa sono i pellets? È questa la forma in cui si presenta la plastica vergine, ovvero quella appena prodotta dagli stabilimenti petrolchimici dalla raffinazione di idrocarburi, qualunque sia il polimero in questione. Questi granuli vengono poi inviati alle industrie che producono i singoli, vari oggetti: che sia un paio di occhiali, un sacchetto, il cruscotto dell’automobile o una cannuccia si parte da quelle ‘lenticchie’. Sono microplastiche primarie, ovvero hanno misure comprese tra 0,3 e 5 mm sul lato più lungo e vengono prodotte in quelle dimensioni, ovvero il loro essere ‘micro’ non deriva dalla frammentazione di un oggetto più grande.

microplastiche

Nei mesi scorsi abbiamo effettuato una serie di campionamenti– racconta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeaceseguendo una metodica già messa in atto da alcuni ricercatori a livello internazionale. L’obiettivo era quello di definire l’abbondanza di questi granuli lungo alcune spiagge delle coste pugliesi e soprattutto brindisine, a differenti distanze dal dall’impianto del petrolchimico, tra i più grandi in Italia per la produzione di materie plastiche. Abbiamo campionato spiagge in direzione nord e sud: a ridosso dell’impianto, a 12, 20, 25, 50 chilometri dal petrolchimico e anche un luogo a 100 di distanza. Il dato ci mostra chiaramente che c’è un gradiente di concentrazione variabile in base alla distanza dall’impianto industriale”.

Dei 7938 granuli raccolti nell’indagine, circa il 67% proviene dai tre siti di campionamento più vicini al petrolchimico. Al contrario, nelle aree più distanti i livelli di contaminazione sono risultati, quasi ovunque, nettamente inferiori. Dal rapporto emerge che gran parte dei granuli raccolti e analizzati nel corso dell’indagine, pari a circa il 70% del totale, è traslucido e trasparente: un’evidenza che la letteratura scientifica collega a rilasci recenti nell’ambiente, perché con il trascorre degli anni e dei decenni questi granuli diventano più scuri, giallognoli e quasi marroni. Inoltre, di tutti i nurdles raccolti, il 78 per cento è in polietilene (un tipo di plastica prodotto in loco dall’azienda Versalis, di proprietà di Eni), mentre poco più del 17 per cento è in polipropilene (un polimero plastico prodotto nell’area da Basell Poliolefine Italia).

microplastiche

I dati che diffondiamo oggi dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita – dice Giuseppe Ungherese -. In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche. Chiediamo alla magistratura di intervenire e a Versalis e Basell Poliolefine Italia, le due società specializzate nella produzione di granuli nell’area brindisina, di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento”.

Ungherese spiega: “Esistono vari programmi volontari da parte dell’industria petrolchimica per azzerare questa contaminazione, come Operation Clean Sweep a cui aderiscono le due aziende in questione, ma non esiste un controllo esterno e indipendente, non c’è un monitoraggio sulle buone pratiche condivise. La sensazione, quindi, è che questi impegni lascino un po’ il tempo che trovano. Un rapporto di qualche anno fa, stilato per conto della Commissione europea, stima che solo nel nostro continente il rilasci di questi granuli nell’ambiente possa arrivare a superare le 167.000 tonnellate annue. Come tutte le microplastiche, anche queste entrano facilmente nella catena alimentare degli organismi marini, accumulandosi negli animali che si trovano al vertice, come i predatori, tonni e pesce spada ad esempio”.

microplastiche

Greenpeace ha registrato anche una lunga serie di interviste con gli abitanti dei luoghi in cui sono stati effettuati i campionamenti: raccontano tutti come la presenza di questi granuli sia una costante nel tempo, come queste graziose perline fossero oggetti di gioco durante l’infanzia. Nessuno pensava fossero palline di plastica, ma qualcuno di quei meravigliosi capolavori che l’usura delle onde e del vento su sassolini, conchiglie e sabbia ci lascia spesso ritrovare sulle spiagge.

plastica compostabile

Plastica compostabile, Greenpeace: “Ennesimo cortocircuito green”

L’Italia è tra i pochissimi Paesi in Europa dove la plastica compostabile finisce nell’umido organico, mentre nella maggior parte dell’Ue la plastica cosiddetta ‘green’ viene gettata nell’indifferenziata. Fin qui tutto bene. Peccato che secondo uno studio di Greenpeace Italia almeno il 63% dell’umido italiano finisca in impianti che difficilmente riescono a degradare la plastica compostabile conferita in questa filiera. La quota restante confluisce in siti di compostaggio dove, secondo il dossier ‘Altro che compost’, “non è detto che la plastica compostabile resti il tempo necessario a degradarsi”. Un’opera di fact checking, quella dell’unità investigativa di Greenpeace, che potrebbe favorire un aumento del controllo da parte delle istituzioni e che potrebbe spingere gestori e società di igiene ambientale a incrementare l’efficienza degli impianti di compostaggio.

IL CORTOCIRCUITO

La maggior parte dei rifiuti organici in Italia – spiega il dossier – finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali usa e getta in plastica compostabile, che così finiscono in inceneritori o in discarica. Come semplifica Utilitalia, la Federazione che riunisce le aziende operanti nei servizi pubblici della gestione rifiuti, acqua, ambiente, energia elettrica e gas, gli impianti oggi esistenti sono stati progettati per trattare prevalentemente rifiuti biodegradabili di cucine e mense o di giardini e parchi; non certo bioplastiche”. L’unità investigativa di Greenpeace Italia ha dunque tentato di vederci chiaro in quel che appare come “l’ennesimo cortocircuito di questa presunta svolta green”, dato che, a differenza di altri Stati europei, “in Italia si fa credere ai cittadini che la plastica compostabile non abbia alcun impatto sull’ambiente. Ma non è così”.

VOLUME D’AFFARI

Secondo i dati del consorzio italiano compostatori, in Italia la presenza di plastiche compostabili nella raccolta degli scarti di cucina è più che raddoppiata, passando dall’1,5% (2016-2017) al 3,7% (2019-2020). Il volume d’affari del settore delle plastiche compostabili sta esplodendo: meno dell’1% della plastica prodotta annualmente a livello globale è compostabile ma in base ai dati di European Bioplastics, la produzione globale è destinata ad aumentare da 2,42 milioni di tonnellate nel 2021 a
circa 7,59 milioni di tonnellate nel 2026, superando la quota del 2%. Spiega Greenpeace che “l’Asia è il principale hub con quasi il 50% della capacità produttiva di plastiche compostabili, ma quasi un quarto della capacità produttiva si trova in Europa, dove la leadership è di un’azienda italiana, la Novamont”. Secondo David Wilken, responsabile del controllo qualità del compost e membro della German Biogas Association, “le pubblicità, le etichette che dichiarano la compostabilità dei prodotti e, in Italia, l’obbligo di gettare questi articoli nell’umido: tutto concorre a immergere il consumatore nel greenwashing, fino a fargli credere che un piatto compostabile avrà lo stesso destino di una mela. Peccato che la realtà sia molto diversa”.

I TEST IN LABORATORIO

Gli ‘investigatori’ di Greenpeace Italia sono andati più a fondo, entrando in laboratori specializzati sul controllo qualità e sul compostaggio. È emerso così che più è grande il materiale plastico compostabile e più tempo impiega per degradarsi. Quasi un’ovvietà. Il problema è che in laboratorio i test che servono per ‘etichettare’ una plastica compostabile si effettuano su piccoli campioni (tra i 5 cm e i 10 cm quadrati), ed è altamente improbabile che un consumatore riduca un rifiuto ai minimi termini prima di gettarlo nell’umido.

GLI IMPIANTI

Altro problema evidenziato da Greenpeace Italia nel report ‘Altro che compost’ è quello degli impianti di smaltimento. “Stando ai dati del Catasto rifiuti di Ispra – spiega Greenpeace – anche se gli impianti di compostaggio sono decisamente più numerosi, sono quelli dove il cuore del processo è la digestione anaerobica a trattare il 63% della frazione umida (di cui il 56% negli impianti integrati e il 7% negli impianti di digestione anaerobica). Peccato che sia proprio quest’ultima tipologia di impianti (digestione anaerobica integrata e non) ad avere i maggiori problemi a trattare la plastica green”. Ugo Bardi, professore di chimica-fisica all’Università di Firenze e delegato della Rete delle università per lo Sviluppo sostenibile sottolinea che “la plastica compostabile non è stata progettata con l’idea che composti negli attuali impianti con il resto dell’umido. È una questione di tempi. La plastica compostabile ha bisogno di stare nell’impianto di compostaggio più a lungo dell’umido”. Un lasso di tempo che Greenpeace Italia calcola in almeno 12 settimane, ovvero circa 4 mesi.

Non tutti gli impianti di compostaggio e digestione anaerobica in Italia sono funzionali alla plastica green. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, aveva ammesso a dicembre che per essere correttamente trattata, la plastica compostabile “richiede impianti con caratteristiche molto diverse in termini di condizioni di temperatura, umidità, tempo di trattamento rispetto a quelle necessarie per gli altri rifiuti organici”. Di più: Utilitalia conferma che gli impianti di compostaggio hanno diversi problemi con la plastica green, ma ne hanno ancora di più gli impianti integrati e anaerobici “perché strutturalmente gli impianti anaerobici e misti non sono in grado di degradare la plastica compostabile”. Partendo dalle dichiarazioni di Cingolani, Greenpeace ha chiesto “quanti sono in Italia gli impianti in grado di trattare gli imballaggi in plastica compostabile e quale quota di prodotto riescono a trattare”. Una domanda che, a detta della stessa associazione ambientalista, “è rimasta tutt’oggi inevasa”.