Gli ultimi delfini Irrawaddy della Cambogia lottano per la sopravvivenza

Nel possente fiume Mekong, le teste grigie e arrotondate di alcuni delfini Irrawaddy appaiono improvvisamente per prendere fiato sulla superficie dell’acqua torbida. È uno spettacolo affascinante, ma sempre più raro: questo mammifero, che si trova solo in pochi luoghi del Sud-Est asiatico, tra cui la Cambogia, è sull’orlo dell’estinzione nonostante gli sforzi per salvarlo. Il regno ha recentemente annunciato misure severe contro la pesca nel fiume Mekong, nel tentativo di ridurre il numero di delfini intrappolati e inavvertitamente uccisi nelle reti. Ma in un Paese povero, come è possibile far rispettare queste regole su un fiume largo decine di metri, costellato di isolotti e costeggiato da un fitto sottobosco? “Abbiamo paura di non essere in grado di proteggerli“, ha detto all’AFP Phon Pharong, un residente della regione orientale di Kratie, durante un pattugliamento alla ricerca di reti da posta illegali. Secondo gli ambientalisti, queste reti a maglie verticali lasciate in acqua per lunghi periodi di tempo, che catturano indiscriminatamente i pesci, sono la causa principale della morte dei delfini nel Mekong.

Phon Pharong è una delle 70 guardie che sorvegliano un tratto di 120 chilometri del Mekong tra Kratie e il confine con il Laos a nord. Sotto organico, queste guardie sono spesso ridotte a giocare al gatto e al topo con i pescatori, che sono ben organizzati, numerosi e dotati di barche migliori. “Quando pattugliamo di notte, non escono. Al mattino torniamo e loro hanno la strada spianata sul fiume“, spiega Pharong. Lo stipendio base di una guardia, 65 dollari al mese, non è sufficiente per vivere, anche se ricevono 5 dollari al giorno di pattugliamento in aggiunta, dal World Wildlife Fund (Wwf). I delfini dell’Irrawaddy, piccole e timide creature riconoscibili per la fronte sporgente e il naso corto, un tempo nuotavano fino al delta del Mekong in Vietnam, a diverse centinaia di chilometri di distanza. La pesca illegale e i rifiuti di plastica ne hanno uccisi molti e i delfini hanno visto il loro habitat ridursi a causa delle dighe e dei cambiamenti climatici, che hanno avuto un forte impatto sui livelli dell’acqua del fiume. La popolazione del Mekong è passata da 200 esemplari nel primo censimento del 1997 a 89 nel 2020. Secondo il Wwf, la specie si trova oggi solo in altri due fiumi, l’Irrawaddy in Birmania e il Mahakam nell’isola indonesiana del Borneo. Tutte e tre le popolazioni fluviali sono classificate come gravemente minacciate. I delfini dell’Irrawaddy esistono anche in numero maggiore su alcune coste dell’Asia meridionale e sudorientale, ma non in acqua dolce, e sono anch’essi a rischio di estinzione.

L’anno scorso sono morti undici delfini del Mekong, ma la morte di tre giovani esemplari, impigliati in reti da posta e lenze nel giro di una settimana a dicembre, ha particolarmente allarmato gli ambientalisti. “È un segnale preoccupante“, ha dichiarato all’AFP Seng Teak, direttore nazionale del Wwf per la Cambogia, invitando il governo a “mobilitare più risorse” per salvare i delfini, il 70% della cui popolazione è troppo vecchia per riprodursi. Dalla fine di febbraio, una nuova legge vieta la pesca all’interno delle zone di protezione speciale nel tratto di fiume di 120 km a monte di Kratie. I trasgressori rischiano fino a un anno di carcere per l’uso di reti da posta e fino a cinque anni per l’elettropesca nelle aree di conservazione. In una di queste aree, intorno al villaggio di Kampi, 24 guardie pattugliano 24 ore su 24 un piccolo tratto di 22,4 chilometri quadrati. Coloro che “mettono le reti nelle aree di conservazione, li arresteremo. Se fanno pesca elettrica, non c’è pietà, saranno consegnati alla giustizia”, ha detto Mok Ponlork, il capo delle guardie locali. Questi sforzi sembrano dare qualche frutto. Nelle ultime settimane non ci sono stati morti e c’è anche un barlume di speranza: “Abbiamo saputo dagli operatori delle barche da turismo che qualche giorno fa è nato un cucciolo di delfino”.

Tartarughe

Liberate nel Mekong cuccioli di tartaruga gigante, una specie “in pericolo critico”

Sono state liberate nel fiume Mekong in Cambogia diverse centinaia di piccole tartarughe giganti asiatiche. Vittima del bracconaggio e della raccolta illegale di uova a scopo alimentare, la tartaruga gigante dal guscio molle di Cantor è classificata come “in pericolo critico” dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura.

L’Ong americana Wildlife Conservation Society (WCS) ha coordinato il rilascio di 580 piccoli, che, una volta cresciuti, raggiungeranno i 2 metri di lunghezza e peseranno più di 100 chili. I monaci hanno benedetto i piccoli prima di aiutare gli abitanti del luogo e gli ambientalisti a liberarli nelle acque fangose del Mekong.

La tartaruga gigante di Cantor trascorre il 95% della sua vita sepolta e immobile, con solo gli occhi e la punta della bocca che spuntano dalla sabbia, affiorando due volte al giorno per respirare. Questa specie è estinta in gran parte del Vietnam e della Thailandia. In Cambogia, alcuni individui sono ricomparsi dal 2007. Da allora, sono stati compiuti “progressi significativi” per la protezione di questo animale, anche se restano ancora degli sforzi da fare, ha sottolineato Ken Sereyrotha, direttore del programma nazionale della WCS Cambogia.

Le autorità cambogiane e la WCS hanno avviato un programma di protezione dei nidi a livello comunitario che quest’anno ha portato al recupero di oltre 2.000 uova. “Tutte le parti interessate devono continuare a impegnarsi per la conservazione delle specie in via di estinzione e coloro che ancora le commerciano dovranno affrontare azioni legali“, ha dichiarato Ouk Vibol, direttore del dipartimento della Pesca.

delta Mekong

Il delta del Mekong non finirà sott’acqua. PoliMi ha contribuito a salvarlo

Il delta del Mekong in Vietnam potrebbe essere quasi completamente sommerso dall’acqua del mare entro la fine del secolo, se non verranno intraprese azioni urgenti. Un team di ricerca internazionale di cui fa parte il Politecnico di Milano, in un articolo pubblicato sulla rivista Science, ha individuato delle azioni concrete per impedire che questa area economicamente molto importante e densamente popolata finisca sott’acqua.

La maggior parte dei 40mila km2 del delta del Mekong si trova a 2 metri sotto il livello del mare, ed è quindi soggetto all’innalzamento degli oceani dovuto al riscaldamento globale. Inoltre, azioni locali come il pompaggio eccessivo delle acque sotterranee, l’estrazione di sabbia impiegata poi nel settore delle costruzioni e il rapido sviluppo dell’energia idroelettrica, minacciano il futuro delle risaie più produttivo del Sud-Est asiatico. Il team della ricerca sostiene che “solo un’azione concertata dei sei Paesi nel bacino del Mekong (Cina, Laos, Tailandia, Cambogia, Vietnam) e una migliore gestione dell’acqua e dei sedimenti all’interno del delta potrebbero evitare tali risultati“.

È difficile immaginare che un territorio delle dimensioni dei Paesi Bassi e con una popolazione simile possa scomparire entro la fine del secolo“, afferma l’autore principale dello studio, il professor Matt Kondolf dell’Università della California, Berkeley. Tuttavia, spiega, “come qualsiasi foce fluviale, il delta del Mekong sopravvive solo se riceve un rifornimento costante di sedimenti dal suo bacino a monte e flussi d’acqua per diffondere i depositi attraverso la superficie del delta, costruendo terreno a una velocità uguale o maggiore dell’innalzamento del livello del mare globale”.

Affamati di energia rinnovabile, i Paesi del bacino hanno sviluppato negli ultimi anni molti impianti idroelettrici (le cui dighe intrappolano i sedimenti e riducono i flussi di sedimenti a valle) con poca attenzione per gli impatti sul sistema idrico. Quel poco di sedimento che raggiunge il basso Mekong viene estratto per il settore edile nella regione, che richiede grandi quantità di sabbia per la bonifica dei terreni e le costruzioni di edifici“, riassume il co-autore principale, il dottor Rafael Schmitt dell’Università di Stanford.

Ci sono prove scientifiche che individuano i processi che mettono in pericolo la continua esistenza del delta del Mekong e come questi processi potrebbero essere controllati e mitigati.

Il team ha identificato sei misure che aumenterebbero significativamente la sopravvivenza del delta. Le dighe potrebbero essere progettate per consentire un migliore passaggio dei sedimenti, posizionate in modo strategico che ne riduca gli impatti a valle, o sostituite da parchi eolici e solari dove possibile. Inoltre, l’estrazione di sedimenti dovrebbe essere regolamentata rigorosamente e l’uso della sabbia del Mekong potrebbe essere ridotto attraverso materiali da costruzione sostenibili. Poi, l’agricoltura intensiva nel delta del Mekong dovrebbe essere rivalutata per la sua sostenibilità e le soluzioni naturali per la protezione dei litorali dovrebbero essere implementate su larga scala lungo le coste del delta. Tutte queste misure, assicurano i ricercatori, sono fattibili e hanno dei precedenti in altre zone del mondo.

Nonostante l’efficacia di queste misure, in particolare se attuate all’unisono, trovi d’accordo la comunità scientifica, esistono importanti ostacoli alla loro attuazione – afferma il professor Andrea Castelletti, co-autore dello studio e ordinario di Gestione delle Risorse Naturali al Politecnico di Milano – Alcune di queste azioni entrerebbero in conflitto con gli interessi acquisiti di determinati attori locali, come l’industria dell’estrazione della sabbia e le centrali idroelettriche. Le misure richiederebbero il coordinamento tra i Paesi, che dovrebbero concordare sul fatto che il sostentamento del delta del Mekong è un importante obiettivo della politica regionale”.

L’attuazione delle misure richiederà la partecipazione dei governi nazionali e degli attori internazionali (banche e agenzie di sviluppo), nonché di nuovi attori, ad esempio del settore privato e della società civile. Tuttavia, l’invito all’azione è chiaro quando Kondolf conclude: “Un delta del Mekong che prospererà oltre la fine di questo secolo è possibile, ma richiederà un’azione rapida e concertata in un bacino che è stato messo in pericolo dalla concorrenza, piuttosto che dalla cooperazione dei Paesi attraversati dal fiume”.