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Clima, lo studio: 500 milioni di migranti ogni grado in più

Clima e migrazione. Un binomio che sempre di più è destinato a ridisegnare logiche e agende. L’ultima tragedia a largo delle coste di Crotone vede la politica tornare a insistere sulla necessità di non far partire i cittadini di altri Paesi, di non farli salire in nave né, ancora, farli salpare. Una logica italiana, ma non solo, perché l’Italia ha in Europa diversi alleati che sposano questa linea. Ma dal nostro Paese arriva un promemoria che suona da campanello d’allarme. Ener2Crowd.com, la piattaforma italiana di lending crowdfunding ambientale ed energetico, torna ad accendere i riflettori su un fenomeno che sarà sempre più ‘la problematica’ con la ‘P’ maiuscola: “Se la temperatura continua ad alzarsi il rischio è quello di ritrovarsi con 500 milioni di profughi per ogni grado in più sulla Terra”. Questo dato sui migranti climatici rappresenta “una stima realistica, considerando che già lo scorso anno si è avuto globalmente il 40% di piogge in meno rispetto alla media degli ultimi 30 anni” .

Ma soprattutto, al netto dei numeri, il fenomeno è realtà. Ener2Crowd.com cita i dati delle Nazioni Unite, e ricorda che già oggi nel mondo una persona su 78 è sfollata ed in tre casi su quattrosi tratta di persone costrette ad emigrare proprio a causa dei cambiamenti climatici, con una percentuale raddoppiata rispetto a 10 anni fa”. In totale, continua la piattaforma, “in totale abbiamo già raggiunto il preoccupante numero di 100 milioni di profughi ambientali”. Le persone si mettono in marcia e lo faranno sempre di più, che i governi – italiano e non solo – vogliano o meno. Di questo sono consapevoli anche a Bruxelles, e molto bene.

In Parlamento europeo non mancano documenti di lavoro e analisi sull’argomento. Uno degli ultimi, datato maggio 2022. Anche qui si fa riferimento a stime dell’Onu, che suggeriscono come lo stress idrico da solo potrebbe sfollare 700 milioni di persone entro il 2030. Non sfuggono agli europarlamentari neppure i dati della Banca mondiale, secondo cui potrebbero esserci 216 milioni di migranti climatici interni entro il 2050, “a meno che non vengano intraprese azioni correttive”. Parlare di 216 milioni di persone vuol dire parlare dell’equivalente di un numero superiore alla somma delle popolazioni di Germania, Francia e Italia messe insieme. Tre Stati membri dell’Ue in movimento a causa dei cambiamenti climatici.

La conclusione dei documenti di lavoro prodotti e distribuiti nella varie commissioni parlamentari è sempre la stessa. “Si prevede che il cambiamento climatico porterà a una migrazione sempre più massiccia dalle regioni vulnerabili”. Sono queste le persone che i governi europei vorrebbero non si mettessero in marcia. Se il blocco dei Ventisette vuole davvero evitare le morti in mare e nuove pressioni migratorie sulle proprie frontiere, “l’Ue deve incoraggiare uno sforzo globale per prevenire le crisi climatiche”. Vuol dire non solo attuare il Green Deal che ci si è posti, ma essere attivi a livello internazionale per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e contenere il surriscaldamento del pianeta. Ma soprattutto, l’Europa deve essere pronta a “fornire aiuti umanitari a coloro che sono stati spinti via dalle loro case”. Perché sulla scia dei cambiamenti climatici ci si sposterà.

Servirà uno sforzo politico. L’Ue di oggi non sembra disposta a fare quel cambio di passo che la situazione imporrebbe. La Convenzione sui rifugiati del 1951 non riconosce lo stress climatico come motivo per richiedere lo status di rifugiato. Secondo gli esperti del Parlamento europeo “sarebbe in linea con il suo ruolo di attore principale contro il cambiamento climatico se l’Ue spingesse per il riconoscimento dello status di rifugiato climatico”. Ma vorrebbe dire accogliere, e in numeri in prospettiva sempre crescenti. Qualcosa per cui l’Ue di oggi non sembra pronta.

Energia e migrazioni economiche: questioni vicine

Nel 2030 il Continente africano avrà bisogno, secondo le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), del 75 per cento di energia in più rispetto ad oggi. L’Unione europea ha invece in programma di continuare a crescere consumando sempre meno energia e di ridurre del 55 per cento, sempre al 2030, le sue emissioni nette di gas ad effetto serra. È anche in atto, nell’Unione, un grande lavoro di diversificazione delle fonti e di indipendenza dalla Russia.

Tutti questi impegni, queste necessità, queste prospettive sono fortemente interconnesse fra loro, e possono anche influire sulla “dimensione esterna” della questione migratoria (almeno verso i Paesi africani) unico punto sul quale, tra i Ventisette, c’è un accordo di una qualche consistenza su questo tema così divisivo.

In sostanza: noi europei abbiamo bisogno di fonti di energia, gli africani hanno bisogno di tecnologie per sviluppare la loro economia. Su questi due temi un punto d’incontro c’è, anche perché la presenza finanziaria dell’Ue in Africa è notevole, superiore a quella degli Stati Uniti, e sempre più in competizione con la Cina.

A noi manca il gas, a loro mancano le tecnologie: tutti e due abbiamo bisogno di qualcosa che quasi solo l’altro può dargli. Interesse dell’Unione è poi quello di “allargarsi” il più possibile, per frenare l’espansione della Cina. Vista la vicinanza geografia da parte dell’Unione europea dovrebbe anche esserci un forte interesse per uno sviluppo economico africano il più possibile sostenibile dal punto di vista ambientale.

Ecco, uno scambio che fornisca all’Unione europea le materie prime delle quali ha bisogno e ai Paesi Africani le tecnologie, l’assistenza della quale necessitano per il loro sviluppo che ci si augura diventi sempre più rapido.

Più sviluppo corrisponde a meno migrazioni economiche verso l’Europa, obiettivo condiviso dai 27, ma anche una maggiore collaborazione economica e politica, che non sia solo un rapporto tra acquirenti e venditori, può aiutare l’Unione ad avere nuovi partner affidabili, e a rendere sempre più concreta la sua “green transition”.