Manzoni: “Con agricoltura rigenerativa abbatto CO2, creo energia e risparmio acqua”

Piero Manzoni è un guru del business green. È stato amministratore delegato di Falck Renewables, fa parte del cda di Snam, siede nel comitato esecutivo di Assolombarda, ma soprattutto, è l’ideatore di un modello unico che punta a mettere a sistema competenze, soluzioni tecnologiche e brevetti ispirati alla natura, per trasformare l’agricoltura, i processi industriali e la gestione dei territori in un’ottica di vera economia circolare. Con la sua Simbiosi, di cui è fondatore e amministratore delegato, si definisce “produttore d’ambiente”, contemplando la protezione della biodiversità, l’efficientamento delle risorse e la lotta al cambiamento climatico, ma tenendo sempre conto di tutte gli effetti delle azioni umane, in pratica mirando al vero concetto di sostenibilità. Una filosofia che dall’Innovation Center Giulio Natta, sede operativa dell’azienda, Manzoni è pronto a esportare insieme alle soluzioni e ai brevetti: si va da tecnologie sviluppate per recuperare gli elementi nutritivi degli scarti organici per produrre fertilizzanti per utilizzo agronomico ed energia pulita a impianti innovativi di produzione del freddo, dall’agrivoltaico fino a sistemi di blockchain ambientale e di Intelligenza Artificiale in grado di controllare ed efficientare i consumi di energia degli impianti. Una vera e propria simbiosi tra uomo, natura, tecnologia e business, le cui potenzialità hanno attratto anche Gianni Tamburi, paragonabile a una sorta di re mida di Piazza Affari, entrato nel capitale della società, rilevandone una quota di minoranza nella primavera 2022. Inizia tutto nel 1995, a Giussago, nelle campagne tra Milano e Pavia, quando Manzoni, insieme al suocero Giuseppe Natta, figlio del Premio Nobel Giulio, trovandosi di fronte al deserto agricolo delle pianure circostanti, “distrutte dall’agricoltura intensiva“, decide di provare a riportare il territorio alle condizioni di fertilità e biodiversità di 1000 anni prima. Attraverso studi e ricerche non semplici, che hanno coinvolto l’Università Statale di Milano, l’Università di Pavia, fino all’Università di Wageningen nel Paesi Bassi, si è riuscito a ricostruire sulla carta quale fosse il paesaggio di un tempo e ad avviare il progetto di rigenerazione. “Con l’aiuto di agricoltori locali, utilizzati nel periodo invernale di fermo-lavoro, abbiamo rivoluzionato oltre 500 ettari, rimodellando le pendenze del terreno, realizzando vasche di laminazione, creando canali e rinaturalizzando l’area con 2 milioni di piante autoctone. Poi abbiamo lasciato che la natura facesse il suo corso. Sono così arrivati insetti e uccelli, attratti dal verde e dagli specchi d’acqua. Si è costituita anche una garzaia, ovvero il luogo dove nidificano gli aironi. Un laboratorio naturale, che abbiamo poi dotato di milioni di sensori per controllare i livelli di umidità del terreno, emissioni di CO2, temperatura, livelli di assorbimento dell’acqua e altro”.

Qual è stata la scintilla?

“Grazie alla sensoristica siamo quindi entrati in possesso di miliardi di dati: un’immensa mole di informazioni che ci ha permesso di studiare come la natura utilizza le proprie risorse, le trasforma, le distribuisce e le ottimizza, e che ci è servita per sviluppare soluzioni, brevettare tecnologie, e aggregare innovazione, consentendoci di creare a Giussago la prima Nature Based Solutions Valley italiana, dove il territorio costituisce una risorsa e non una commodity”.

Innovazione ispirata alla natura… Ma cosa significa per lei innovare?

“La nostra logica di innovazione si ispira al principio dell’exattamento, ovvero a quel principio dell’evoluzione secondo cui una funzione presente in un organismo può essere re-indirizzata a svolgere un’ulteriore nuova funzione. Pensiamo ad esempio alle piume degli uccelli, in passato funzionali all’isolamento termico e poi rivelatesi fondamentali per consentire all’animale di volare. In altre parole, per noi, l’innovazione non deve per forza essere un elemento di rottura ma può derivare dalla combinazione di più tecnologie esistenti in una nuova dal grande potenziale”.

Avete numerosi brevetti, quali sono i principali e in che cosa consistono?

“Una delle tecnologie brevettate da Simbiosi (l’NRC) riguarda la chiusura del ciclo produttivo, nello specifico il recupero dei nutrienti dagli scarti organici, tramite la produzione di un digestato dalle proprietà uniche. Questa tecnologia, associata alla gassificazione, consente inoltre di produrre energia pulita (biometano, energia elettrica e idrogeno). Tutto questo, viene inoltre reso efficiente dall’innesto di un’altra tecnologia da noi brevettata, l’Adam&Eva, capace di controllare i consumi e arbitrare la produzione mediante l’utilizzo dell’intelligenza artificiale”.

In che modo questa tecnologia chiude il ciclo produttivo?

“La tecnologia ha la capacità di trasformare qualsiasi tipo di sostanza organica (scarti organici di qualsiasi natura, siano essi scarti delle lavorazioni agricole, reflui zootecnici, rifiuti umidi urbani o scarti di aziende) in un ammendante completamente igienizzato e deodorizzato attraverso uno specifico trattamento anaerobico. Iniettato nel suolo ad una profondità di 10-15 cm, questo permette di restituire al terreno gli elementi nutritivi e al tempo stesso di stimolarne la fertilità e di salvaguardarne la biodiversità. Se aro il terreno, infatti, elimino la biodiversità presente negli 80 cm sotto il livello del suolo e con questa operazione favorisco la produzione di anidride carbonica, in quanto qualsiasi cosa morta emette carbonio nell’aria. Iniettando il digestato prodotto dalla nostra tecnologia, invece, non uccido la biodiversità quindi non genero carbonio, che al contrario resta stoccato nel terreno; inoltre, combattendo la desertificazione del suolo favorirò la trattenuta dell’acqua in caso di irrigazione e pioggia, dimezzando di fatto l’utilizzo di acqua rispetto all’agricoltura tradizionale”.

Un toccasana in tempi di siccità…

“In effetti l’acqua che risparmio la metto in vasche e bacini, che fungono da polmoni d’emergenza in caso di necessità per la produzione agricola”.

Ma questa tecnologia è già utilizzabile da altre aziende? Quali sono le potenzialità?

“Certamente. Un solo impianto basato sulla tecnologia da noi brevettata serve oggi infatti un territorio di circa 5.000 ettari, per un totale di circa un centinaio di aziende. Tra i principali interlocutori a cui ci rivolgiamo, ci sono inoltre i consorzi agro-alimentari e le ATO. A questo mi lego per farle un altro esempio delle potenzialità del nostro brevetto: in Italia sono circa 4 mln di tonnellate di fanghi derivanti dalla depurazione delle acque reflue che – invece di finire in discarica o di essere trasportati all’estero a caro prezzo – potrebbero essere trattati tramite questo tipo di tecnologia e ‘restituiti’ all’ambiente, sempre nell’interesse della filiera, in una vera logica di economia circolare”.

Torniamo al tema siccità, lei parla di riutilizzo delle acque reflue… Può fare dei numeri?

“Le acque di depurazione potrebbero soddisfare fino al 70% delle necessità irrigue italiane, nonché le necessità idriche dei piccoli Comuni: grazie a questo metodo, oggi Paesi come Israele recuperano circa l’82% delle acque reflue per usi irrigui mentre in Italia siamo ancora fermi a circa il 5%. Per contrastare questo il fenomeno siccità, in primo luogo sarebbe quindi fondamentale raccogliere le acque di scarico post-trattamento di depurazione tramite la costituzione di bacini e invasi, utili a fare fronte alla sempre più urgente necessità di irrigazione. Inoltre, bisognerebbe favorire – dove possibile e nel rispetto delle normative – l’utilizzo in agricoltura dei digestati prodotti negli impianti di depurazione, tramite processi di igienizzazione in grado di conservare l’acqua nelle coltivazioni, così da aumentare la produttività per ettaro”.

Ha iniziato a lavorare nel mondo delle rinnovabili e della sostenibilità quando nessuno sapeva ancora cosa fosse. Arriveremo a centrare gli ambiziosi target climatici che soprattutto l’Europa impone?

“Le dico solo questo: se tutto il mondo coltivasse con un metodo rigenerativo come il nostro, la diminuzione di 1,5 gradi entro il 2030 potrebbe essere raggiunta addirittura lasciando tutto il fossile esistente”