Il geologo: “Stoccare CO2 nel Mediterraneo? Si può fare, ma in Norvegia è più facile”
Marco G. Malusà, professore di geologia stratigrafica e sedimentologica all’università di Milano-Bicocca, spiega a GEA che "l’ideale, per questo tipo di tecnologia, è utilizzare pozzi petroliferi già esauriti"
Nel Mare del Nord sono oggi in costruzione i 110 chilometri di pipeline che trasporteranno lontano dalla costa norvegese tonnellate di CO2 catturata dagli impianti industriali del Nord Europa. La pomperanno ad altissima pressione a 2.700 metri di profondità nella crosta terrestre, per immagazzinarla in un giacimento geologico naturale – un acquifero salino formatosi quasi 200 milioni di anni fa – che la intrappolerà in modo duraturo. La Norvegia investe da anni per stoccare anidride carbonica sotto i fondali del mare. Nel 2024 è previsto l’inizio dell’attività operazioni del progetto ‘Northern Lights’: promette di immagazzinare in modo sicuro un milione e mezzo di tonnellate di CO2 ogni anno, con la previsione di salire a 5 dopo metà secolo. Ma è possibile immaginare la stessa tecnologia nel Mar Mediterraneo? “Dal punto di vista geologico, sì, anche se con caratteristiche diverse”, come spiega a GEA Marco G. Malusà, professore di geologia stratigrafica e sedimentologica all’università di Milano-Bicocca. Più semplice, certo, nel Mare del Nord. In particolare per una questione numerica: i siti potenzialmente utilizzabili sono molti di più.
Quali condizioni devono esserci per poter stoccare CO2 sotto il fondale del mare?
“Dobbiamo immaginare i siti di stoccaggio come dei serbatoi costituiti da rocce porose e permeabili. Quando al di sopra di queste rocce è presente uno strato impermeabile si può creare una sorta di trappola: la CO2 iniettata sotto pressione non può più risalire verso la superficie. L’ideale, per questo tipo di tecnologia, è utilizzare pozzi petroliferi già esauriti, oppure acquiferi salini non adatti al consumo umano a causa dell’elevata percentuale di sali disciolti”.
Ci sono differenze tra iniettare gas in un vecchio giacimento o in un acquifero salino?
“Tecnicamente no. Il metodo è lo stesso. È vero però che utilizzare giacimenti esauriti di idrocarburi accelera i tempi, perché, semplicemente, sono più studiati. Il gas iniettato dovrà prendere il posto lasciato dagli idrocarburi estratti. Andrà pompato a una pressione leggermente maggiore rispetto alle condizioni che troverà in profondità. Ma non eccessiva, per non indurre fratturazioni indesiderate. Il vantaggio è che la “trappola” è già testata naturalmente per resistere a ere geologiche. Sono inoltre già state realizzate in passato indagini sismiche e geologiche, e sarà più semplice analizzare tutti i parametri del pozzo. È quindi possibile minimizzare i possibili rischi con appropriate strategie di monitoraggio”.
Quanto tempo servirebbe per valutare invece le caratteristiche geologiche di un acquifero salino?
“Bisogna in questo caso conoscere come è fatta la ‘trappola’, e accertarsi che non ci siano faglie che la mettano in comunicazione con i livelli permeabili sovrastanti. Un acquifero salino difficilmente sarà già studiato con questo livello di dettaglio, anche se non si parte da zero. In ogni caso parliamo di anni, non decenni”.
Il Mediterraneo è una zona molto sismica, a differenza del Mare del Nord. Questo può rendere un eventuale stoccaggio più rischioso?
“Ci sono faglie attive. Ma non bisogna immaginare che un terremoto al largo dell’Italia possa liberare CO2 immagazzinata in un eventuale giacimento. Il problema, semmai, è che proprio la presenza di faglie riconducibili a questa attività sismica è responsabile dello scarso numero di giacimenti e di siti adatti in area mediterranea. Nel Mare del Nord questo genere di attività tettonica si è sostanzialmente conclusa da svariati milioni di anni, da lì le faglie sono state sigillate da altri sedimenti e si sono creati serbatoi molto grandi dove poter estrarre o iniettare gas. Nel Mediterraneo la presenza di numerose faglie, spesso tuttora attive, non ha permesso invece di definire trappole grandi ed efficienti”.
Quanta CO2 si può immagazzinare in un giacimento o in un acquifero salino?
“Dipende da caso a caso. Ma la pressione fa ridurre notevolmente il volume della CO2. Per esempio, 1000 metri cubi di anidride carbonica al livello del suolo scendono a 20 metri cubi a 400 metri di profondità. A 800 metri il gas raggiunge lo stato supercritico (dove può essere denso come un liquido ma viscoso come un gas NdR) e si riduce a 3,8 metri cubi, a profondità superiori può raggiungere i 2,7 metri cubi di volume”.
Fattibilità tecnica a parte, lo stoccaggio di CO2 sotto gli oceani è per lei una buona soluzione su cui investire?
“Una transizione ecologica è necessaria. L’ideale sarebbe ridurre il più possibile le emissioni di gas serra. Ma ci sono settori industriali dove questo può avvenire molto difficilmente. Questo tipo di soluzione diventa allora un mezzo molto potente per il periodo di transizione che dovrà portarci a raggiungere la neutralità climatica”.