Il miracolo dell’industria manifatturiera italiana

Ospitiamo un intervento del presidente di Federacciai scritto su 'Piazza Levante': "Bisogna convincere l’Europa che l’industria e le imprese sono il principale attore della crescita economica, dell’innovazione, dell’inclusione sociale"

Molti di noi pensano che l’industria e la sua capacità competitiva non siano state, negli ultimi anni, al centro dell’agenda europea.

L’attenzione è stata rivolta in maniera retorica e astratta alle due transizioni, quella energetica e quella digitale. Molta ideologia (soprattutto sul lato della riduzione delle emissioni di CO2) e poca pratica, ipertrofia regolatoria, indicazioni di obiettivi spesso irraggiungibili. Finalmente ci si è accorti che per ottenere i target fissati per la transizione energetica occorre un’enorme quantità di denaro che nessuno sa dove prendere. Finalmente ci si è accorti che l’industria europea ha un grave gap di competitività rispetto a quelle delle altre importanti aree economiche mondiali e Von der Leyen ha chiamato Draghi per affrontare il problema.

L’Europa è dinanzi al suo declino, demografico, economico, di innovazione e competitivo, in una situazione geopolitica estremamente difficile in cui ingenti risorse in futuro dovranno essere spese per la sicurezza e sottratte ad altri scopi.

La sfida è epocale e vedremo se gli europei sapranno fronteggiarla o se la traiettoria regressiva sarà ineluttabile.

Bisogna in questo contesto convincere l’Europa che l’industria e le imprese sono il principale strumento a disposizione per vincere questa deriva declinante perché sono il principale attore della crescita economica, dell’innovazione, dell’inclusione sociale e sono le uniche che possono trasformare gli slogan della decarbonizzazione in fatti concreti.

L’esempio dell’industria manifatturiera italiana è sotto gli occhi di tutti. La sua eccellenza e la sua performance sono il più grande contributo che l’Italia può dare ad un’Europa più forte e più competitiva.

La manifattura italiana nel 2023, già anno di rallentamento economico rispetto a quelli precedenti, ha fatto segnare risultati da record: 1.200 miliardi di euro di fatturato e 600 di export, la metà esatta del fatturato. Secondo le prime stime del Wto saremmo nel 2023 addirittura a 677 miliardi di esportazioni: una dimensione straordinaria, frutto di vantaggio competitivo puro, perché le svalutazioni della lira che aiutavano di tanto le nostre esportazioni non esistono più. Abbiamo superato per export la Corea del Sud e ci avviciniamo al Giappone e siamo ormai il quinto Paese esportatore del mondo.

Questa performance è il frutto di uno straordinario sistema industriale che non ha eguali al mondo e che in molti, dall’estero, ci ammirano e studiano. La specificità di questo sistema consiste nella sua estrema diversificazione, nell’articolazione dimensionale in cui, in filiere integrate, convivono piccole, medie e grandi aziende, in un capitalismo familiare esteso e leale nei confronti delle aziende, in un inestricabile intreccio tra imprese e territorio che fa di molti distretti industriali creature collettive volte alla ricerca, all’innovazione e allo sviluppo.

Farmaceutico, moda, meccanica, legno arredo, food e packaging sono i settori trainanti di questa performance. Nel 2022 il nostro export farmaceutico ha superato i 50 miliardi di dollari ed è quello cresciuto di più tra i grandi paesi produttori del mondo (+39%). Sempre nel 2022 il comparto moda ha esportato per 70 miliardi di euro, quello del legno-arredo per 20 miliardi di euro, quello dell’alimentare e del food per 60 miliardi di euro. Nel 2023 tutti questi settori sono ulteriormente cresciuti.

Numeri, si diceva, frutto di vantaggio competitivo puro e della creatività e dell’intensità produttiva delle nostre imprese; ma anche del grande successo del Piano Industria 4.0, grazie al quale le fabbriche italiane hanno investito massicciamente in macchinari, in  nuove tecnologie, nell’innovazione di processo e di prodotto. Ciò che colpisce è che l’innovazione non si è limitata al perimetro delle fabbriche ma si è allargata a clienti e fornitori, attraverso piattaforme digitali e logistiche sempre più efficienti. Tale efficienza nelle supply chain ha consentito al nostro sistema industriale di reagire meglio di altri alla pandemia, dimostrando che l’eccellenza del sistema industriale è anche un ingrediente fondamentale della sicurezza nazionale.

L’industria manifatturiera italiana è un gigante economico, l’asset più importante che l’Italia può mettere sul tavolo del confronto internazionale, ma non ha il peso “politico” che meriterebbe nella determinazione delle scelte a livello europeo e nazionale.

Il compito di Confindustria dovrebbe essere quello di dare voce, narrazione e visione coordinata a questa realtà. Il tema è comprendere che la partita è soprattutto, ma non solo, europea.

Tutti i settori manifatturieri italiani soffrono di politiche europee che sembrano dettate da un’ossessione mercatista volta a favorire i Paesi importatori e senza industria, concentrata solo sui diritti dei consumatori e non su quelli delle industrie e dei produttori, dimenticando che senza imprese e senza produttori anche i consumatori spariscono e vengono travolti dalla miseria.

Innumerevoli sono gli esempi che si possono fare su norme e regolamenti europei che ostacolano lo sviluppo e la crescita dell’industria manifatturiera: dai tempi estremamente più lunghi in Europa rispetto agli USA per le procedure antidumping, ai tempi al contrario più brevi in Europa rispetto agli USA sui brevetti farmaceutici (patent) con la conseguente più difficile finanziabilità della ricerca e sviluppo; dall’eccesso di normative ambientaliste sull’uso di materiali che danneggiano il comparto tessile e dell’abbigliamento e il legno arredo all’ossessione salutista e di imposizione su ciò che si può mangiare e bere e su cosa no, che paradossalmente mette nell’angolo vino e olio italiani ma consente cibi molto meno genuini; dalle norme, fortunatamente mitigate da una battaglia campale italiana, che  rischiano di distruggere la nostra industria del riciclo e del packaging, per finire con l’indifferenza  totale rispetto ai difficilissimi processi di transizione degli Hard to Abate.

C’è una comunanza di questioni di fondo che vanno affrontate in maniera coordinata, c’è la necessità di mettere a fattor comune informazioni e dati, di irrobustire la capacità di fronteggiare a Bruxelles il percorso legislativo, accompagnandolo con intensità e competenza fin dalla sua formazione; quando la norma è in bozza è già tardi, i giochi sono fatti.

C’è una necessità assoluta di dare una leadership manifatturiera all’industria italiana.

C’è in generale bisogno di cambiare la narrazione. Le imprese sono la soluzione del problema, non il problema. L’industria deve tornare al centro dell’agenda della Commissione Europea e delle politiche del Governo italiano perché senza industria l’Europa è finita, non solo economicamente, ma anche nelle sue istituzioni democratiche e sociali.