“Carne sintetica sì. Carne sintetica no. Questo è il problema. O almeno questo è quello che crede il governo italiano, che ora ha trovato altri ministri dell’agricoltura alleati per portare l’istanza all’interno dei palazzi europei”. Lo scrive Carlo Petrini, ideatore di Slow Food, in un suo intervento su La Stampa. Poi spiega che è “una battaglia ideologica che crea un capro espiatorio e distoglie l’attenzione pubblica dal vero problema: l’insostenibilità degli attuali consumi di carne, resi possibili da un modello di allevamento intensivo altrettanto insostenibile e finanziato da quella stessa PAC che dovrebbe garantire un’alimentazione di qualità. Aggiungo un altro elemento: i più accesi sostenitori del “no” alla carne sintetica si sentono investiti del ruolo di paladini difensori della tradizione. La tradizione in questione è in realtà relativamente recente. Sì, perché la carne è entrata a far parte in maniera consistente della dieta di noi italiani solo dal secondo dopoguerra in avanti, quando bisognava allontanare lo spettro della fame e ogni chilo di carne in più era un’enorme conquista”. Petrini, quindi, aggiunge: “Più che di una difesa della tradizione sarebbe meglio parlare di una difesa della lobby della carne che negli ultimi anni si è arricchita, anche e soprattutto grazie ai finanziamenti europei, immettendo sul mercato prima, e di conseguenza negli stomaci di tutti noi poi, grandi quantità, scarsa qualità, molto inquinamento ambientale e svariati problemi di salute. L’attuale industria zootecnica da sola è responsabile del 15% delle emissioni totali di gas serra. Contribuisce alla perdita di biodiversità avendo ridotto all’osso le razze allevate selezionando quelle più produttive”. La conclusione di Petrini è questa: “Nello scenario appena descritto non vedo nulla di più umano – inteso come rispetto e compassione per la vita delle altre specie viventi – rispetto a una bistecca prodotta in laboratorio. In Europa peraltro il sistema zootecnico intensivo è tenuto in vita da quella stessa PAC. Quando in realtà tra danni all’ambiente, alle persone e agli animali, di qualità c’è ben poco. Ecco allora che la prima azione da intraprendere sarebbe riformulare la PAC per porre fine allo schema ormai obsoleto che mette la quantità al primo posto (l’80% dei fondi della PAC vengono distribuiti al 20% delle aziende), invece di utilizzare i sussidi come strumento per accompagnare l’evoluzione del settore verso la transizione ecologica”.