Cotone e poliestere, comodi da indossare ma nocivi per l’ambiente

L'industria sta quindi lavorando con materiali innovativi più sostenibili, come lyocell, Bemberg e Piñatex

Pregiate, morbide, calde, comode. Le materie prime per tessuti e vestiti contano, eccome. Non solo per la propria pelle, e non per ragioni ‘di cassa’, ma anche per la sostenibilità ambientale. Ciò che viene prodotto finisce per interessare, prima ancora che guardaroba o portafogli, il pianeta, e lo dimostra la principale fonte di ogni capo di abbigliamento, vale a dire il cotone.
Il cotone rappresenta il 24% della produzione globale di fibre. Può essere problematico da un punto di vista di eco-sostenibilità, perché può richiedere enormi quantità di terra, acqua, fertilizzanti e pesticidi e non può essere facilmente riciclato in fibra vergine, come dimostrano gli ultimi dati a disposizioni della Commissione europea. Nel 2020 il cotone riciclato aveva una quota dello 0,96% della produzione mondiale. Gli impatti ambientali del cotone biologico possono essere ridotti “drasticamente” rispetto al cotone convenzionale, poiché richiede meno acqua e meno prodotti chimici. In altri termini, inquina meno.

C’è poi un’altra materia prima che ormai figura sempre più sulle etichette di calzini, maglioni e affini. Il poliestere rappresentava il 52% del mercato globale delle fibre nel 2020. Rispetto al cotone, il principale vantaggio del poliestere è che ha un’impronta d’acqua inferiore, deve essere lavato a temperature più basse, asciuga rapidamente, non necessita di stiratura e può teoricamente essere riciclato in fibre vergini nuove. Tuttavia, il 99% del poliestere riciclato, che nel 2020 deteneva una quota di mercato del 14,7%, non è costituito da vestiti usati, ma da bottiglie di plastica. Inoltre, il poliestere è una fibra di origine fossile, non è biodegradabile e contribuisce al rilascio di micro-plastiche nell’ambiente. L’Agenzia europea dell’Ambiente stima che in Europa ogni anno vengano rilasciate nelle acque superficiali 13mila tonnellate di micro-fibre tessili (il corrispettivo di 25 grammi a persona) e che i vestiti sono responsabili di circa l’8% delle micro-plastiche europee rilasciate negli oceani. Inoltre i livelli particolarmente elevati di tessuto sintetico vengono eliminati durante i primi lavaggi. Per ovviare a questi inconvenienti l’industria sta attualmente sperimentando il poliestere a base biologica (noto anche come biosintetico), ottenuto almeno in parte da risorse rinnovabili come amidi e lipidi di mais, canna da zucchero, barbabietola o oli vegetali. La sfida è trovare materie prime che non competano con la produzione alimentare e che non richiedano grandi quantità di acqua e pesticidi.

Nella lista delle materie prime più in voga nel mondo della moda c’è la viscosa, anche nota come rayon. Si tratta di cellulosa artificiale (Mmc), derivata dalla cellulosa ricavata dalla polpa di legno disciolta degli alberi. La cellulosa artificiale si produce da piante rinnovabili ed è quindi biodegradabile, ma la sfida principale è l’approvvigionamento sostenibile della cellulosa, poiché la produzione globale di Mmc, e quindi di viscosa, è più che raddoppiata dal 1990 al 2017. L’industria sta quindi lavorando con materiali innovativi più sostenibili, come lyocell (noto anche con il marchio encel, fatto di cellulosa di eucalipto, che cresce rapidamente e non richiede irrigazione o pesticidi), Bemberg (noto anche come cupro, fatto di linter di cotone che non può essere usato per filare il filo) e Piñatex (fatto di foglie di ananas).