Crescita, produttività e salari: l’impresa al centro

Il presidente di Federacciai su Piazza Levante: Come imprenditori ci dobbiamo impegnare nello sviluppo del welfare aziendale, nel sostegno delle pari opportunità

Il biennio 2021-2022 è stato fortemente segnato da rialzi dell’inflazione innescati dapprima dalle strozzature dell’offerta conseguenti alla crisi del Covid e poi dalla crisi energetica dovuta all’invasione russa dell’Ucraina, alla guerra e alle sanzioni che ne sono derivate.

Il rialzo inflazionistico ha eroso fortemente il potere di acquisto di salari e stipendi mostrando, ancora una volta, che l’inflazione è la più iniqua delle imposte e che la migliore protezione dei redditi fissi è rappresentata dalla stabilità dei prezzi (inflazione=0).

Esiste una questione salariale in Italia? Certamente sì.

Siamo in presenza di una massiccia perdita del potere di acquisto dei lavoratori che in economia sono anche consumatori. L’OCSE ha recentemente messo in evidenza che il calo dei salari reali nel nostro Paese è stato il più significativo tra tutte le economie sviluppate, con un -7% alla fine del 2022 rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre 2023 con una diminuzione su base annua del -7,5%.

La crescita dei salari reali tra il 2000 e il 2020 non era stata male in Italia: +24,3%, in linea con il 25,3% della Francia, il 18,1% della Germania, il 14,4% della Spagna.

Questi aumenti si sono realizzati nonostante una performance in termini di crescita del PIL, nei vent’anni considerati, molto bassa rispetto al resto d’Europa.

Inoltre, come indicato dal Centro Studi di Confindustria, la produttività del lavoro nel nostro Paese è cresciuta, nel ventennio 2000-2020, molto meno che negli altri paesi nostri competitors europei; in Germania ad esempio, nel periodo considerato, la produttività è cresciuta quasi il doppio che in Italia.

Salari, crescita, produttività sono tre questioni indissolubilmente legate e vanno affrontate nel loro complesso senza propagandismi e bandierine.

Partiamo dalla crescita. L’Italia dopo un ventennio di performance molto basse (il fanalino di coda europeo) ha visto due anni eccezionali, il 2021 e il 2022 nei quali l’economia nazionale è cresciuta a ritmi straordinari: con il +11% nel biennio ha fatto meglio di tutte le più importanti economie sviluppate compresa la Cina.

Se è vero che il +6,6% del 2021 è stato, almeno in parte, un rimbalzo rispetto alla caduta della nostra economia durante il Covid (che era stata superiore rispetto alla media europea), il +3,9% del 2022, realizzato nonostante il deterioramento del quadro internazionale, rappresenta senza dubbio un fatto molto importante, così come la tenuta della nostra economia nel primo semestre del 2023 nonostante un ormai generalizzato rallentamento.

Le tesi interpretative sulle determinanti di questa straordinaria performance dell’Italia in termini di crescita del PIL sono molte.

I declinisti incalliti, coloro i quali mai e poi mai riescono a non parlare male dell’Italia e ce ne sono molti purtroppo, ritengono che la straordinaria crescita della nostra economia negli ultimi due anni sia tutta dovuta all’aumento del debito, alla misura del 110% e al reddito di cittadinanza.

Mi sembrano tesi parziali e propagandistiche.

Condivido invece il pensiero di chi sostiene che la nostra performance recente sia certamente imputabile anche al boom congiunturale dell’edilizia connesso alla misura del 110%, ma dipenda soprattutto da due altri  fattori, uno congiunturale e l’altro più strutturale.

Quello congiunturale è la grande iniezione di fiducia e positività per gli operatori economici e industriali rappresentata dal Governo di Mario Draghi. Chi si intende un po’ di economia sa quanto contino la psicologia e le aspettative.

L’elemento strutturale è costituito dalla forza della manifattura italiana che vede nella sua diversificazione multisettoriale, nel suo forte orientamento all’export, nella leadership mondiale in molti segmenti di prodotto, nelle catene logistiche mediamente corte, nell’innovazione tecnologica dovuta alla misura del 4.0, un modello di straordinaria modernità e tenuta.

È questa la base su cui costruire nuova crescita con tutte le sue positive ricadute anche sui salari. È l’industria il futuro dell’Italia, come non ci stancheremo mai di ripetere.

Ma come si concilia questa rappresentazione dell’eccellenza della manifattura italiana con il ragionamento fatto poc’anzi in merito alla bassa crescita della produttività dell’industria nazionale rispetto ai principali competitors europei? Una bassa crescita della produttività che impedisce o limita la crescita dei salari netti.

L’osservazione è corretta e impone una risposta ragionata. A nostro giudizio è necessario disaggregare il dato generale sulla manifattura che, come tutte le medie statistiche, spiega la realtà solo fino a un certo punto.

In Italia, accanto a settori particolarmente competitivi quali quelli rappresentati dalle imprese che esportano molto (il 25-30% del totale), dalle imprese manifatturiere di media dimensione (non piccolissime) dei settori style based, dalle affiliate estere, dalle imprese a forte innovazione tecnologica (meccatronica, farmaceutica ecc.) accanto a tutte queste vi è una vasta platea di mini e microimprese che rappresentano storicamente, salvo eccezioni, la debolezza dell’apparato produttivo del Paese.

Le prime si pongono a livello di efficienza, produttività e quindi salari al livello delle migliori imprese europee e mondiali con salari più elevati; le seconde faticano a realizzare margini e profitti e quindi non riescono a destinare parte degli stessi agli investimenti e all’aumento dei salari.

Proprio qui sta il nodo, o i nodi.

Da una parte bisogna promuovere e favorire in ogni modo la crescita dimensionale delle imprese piccole e piccolissime, superando il nanismo dove c’è. Come detto, la crescita della dimensione favorisce gli investimenti e la produttività.

Dall’altra solo una generalizzata modernizzazione di ciò che sta fuori delle imprese industriali ma che può aiutare la loro performance e cioè: servizi, Pubblica amministrazione, reti infrastrutturali e logistiche, porti, università, formazione del capitale umano, può spingere in alto questo pezzo di industria italiana oggi meno efficiente e qualitativa.

Non è possibile che quella italiana sia la seconda manifattura in Europa, la settima del mondo ma contemporaneamente il Paese sia solo il diciottesimo su ventisette in Europa per digitalizzazione. Una contraddizione drammatica e emblematica.

Oggi le imprese meno performanti non riescono ad alzare i salari perché così facendo il loro CLUP (Costo del lavoro per unità di prodotto) sarebbe superiore alla crescita di produttività e alimenterebbe ulteriori spirali inflazionistiche, erodendo la redditività dell’impresa a danno della propensione a investire.

Accanto a un grande processo di modernizzazione, che in fondo è la vera scommessa del PNRR, il capitalismo italiano, come tutti i capitalismi dei paesi democratici e avanzati del mondo, se vuole sopravvivere deve essere sempre più equo ed inclusivo.

Ciò vale in particolare per il capitalismo europeo alle prese con l’enorme sforzo della decarbonizzazione e con la sfida a realizzare consenso su un’ipotesi meno estremista e ideologica della lotta al cambiamento climatico.

Non si tratta soltanto di questioni economiche e salariali. Certamente l’aumento reale dei salari e stipendi e del potere di acquisto degli stessi è importantissimo. Ma gli strumenti con cui raggiungerlo sono altrettanto importanti, perché si portano dietro un dato culturale di cambiamento di approccio e di paradigma.

La diminuzione del cuneo fiscale è il contributo che lo Stato deve dare rendendo strutturale questa misura, soprattutto per i salari e stipendi più bassi, senza fare crescere il deficit di bilancio e il debito.

Ma gli imprenditori e le imprese private devono lavorare senza sosta per fare aumentare il consenso intorno alle imprese che sono il più importante strumento della crescita.

Come imprenditori ci dobbiamo impegnare sempre di più nello sviluppo del welfare aziendale, nel sostegno delle pari opportunità, nella partecipazione agli utili dei lavoratori che va almeno in parte defiscalizzata, nel premio al merito alla qualità e alla fedeltà, nella solidarietà sociale.

Si tratta di strumenti in parte nuovi che l’industria italiana deve sviluppare e incentivare con convinzione per consolidare i suoi primati e per coniugare crescita, produttività e aumento del potere di acquisto dei lavoratori.