Carlo Calenda e Matteo Renzi stanno proponendo un approccio molto nuovo per la politica italiana: delineare soluzioni analitiche e strutturate per ognuno dei problemi che il nostro Paese deve fronteggiare. Si tratta di una grande novità perché la politica italiana negli ultimi decenni è stata incatenata alla moda dei tweet, di TikTok e delle parole d’ordine urlate.
Molti commentatori tendono a rappresentare questa impostazione come ‘post ideologica’, talvolta per criticarla, talvolta per apprezzarla. In realtà, a noi non pare esserci contrapposizione tra le proposte concrete e la buona amministrazione da una parte e una ‘visione’ fondante che sostenga e sorregga la costruzione di un progetto dall’altra. Pensiamo al contrario che ci possa essere in questo approccio un pensiero profondo capace di orientare una vasta area politica, che crescerà nei prossimi mesi ed anni, rappresentata da tutti coloro che non si riconoscono più né in una sinistra astratta ed estremista a vocazione sempre più minoritaria né in una destra sovranista e populista.
Pensiamo che nell’era dei tweet e dei social che semplificano ogni ragionamento fino a banalizzarlo ci sia ancora e sempre più bisogno di un pensiero profondo capace di dominare la complessità della situazione italiana, proponendo però uno schema di gioco nuovo e non più legato agli ideologismi e schematismi di destra e sinistra.
L’Italia di oggi è un’altra Italia rispetto a quella che i profeti di sventura continuano a narrare: è un’Italia più moderna e competitiva che cresce di più degli altri Paesi; non è più il ‘fanalino di coda’ dell’Europa e anzi, con una crescita che nel biennio 2021-2022 supererà certamente il 10%, si presenta come una delle economie più dinamiche del mondo.
Una crescita dovuta alla forza di un sistema industriale manifatturiero altamente diversificato e profondamente mutato grazie, va riconosciuto, all’innovazione tecnologica consentita dal Piano Industria 4.0 del Governo Renzi e del Ministro Calenda; piano che ha consentito all’Italia, negli ultimi sette anni, di essere tra le grandi economie europee quella con il più forte aumento di produttività del settore.
Nonostante le tante profezie di sventura (ve le ricordate le previsioni di Landini della ‘macelleria sociale’ e dei milioni di disoccupati a venire, ma anche le previsioni completamente sbagliate sulla nostra crescita del Fondo Monetario Internazionale?), l’occupazione negli ultimi due anni è cresciuta di molto e non solo nel lavoro occasionale ma anche nei contratti a tempo indeterminato, e le diseguaglianze sociali, come ci conferma l’Istat, sono diminuite.
Ciò è avvenuto grazie alla forza dell’industria italiana ed alle sue straordinarie caratteristiche di diversificazione, territorialità, innovazione, bellezza e capillarità; ma è avvenuto anche per il prestigio internazionale del Governo Draghi e per la sua azione, improntata a un riformismo pragmatico e solidale che costituisce il riferimento obbligato per quella parte d’Italia che cerca una nuova via.
È nostra convinzione che il cuore della visione che quest’Italia merita, che il fulcro del ragionamento che va proposto, siano quelli della costruzione di un equilibrio virtuoso tra crescita economica ed equità sociale, tra mercato e società, tra meriti e bisogni Merito come riconoscimento della creatività, dell’impegno, del valore e dei risultati individuali; ma anche come strumento essenziale per dare risposte efficienti e inclusive ai bisogni vecchi e nuovi provenienti in particolare dagli strati più deboli della società.
Il principale riferimento culturale del ragionamento che stiamo proponendo è quello al liberalismo egualitario del filosofo americano del ’900 John Rawls, un liberalismo attento alla questione dell’uguaglianza e delle pari opportunità e per questo molto in voga negli anni ’60 e ’70 del novecento tra i democratici americani; un liberalismo il cui tratto distintivo e immancabile era un’idea di giustizia concepita come equità.
Ma è impossibile non pensare che quella riflessione fosse influenzata anche dal concetto di ‘socialismo liberale’, dottrina politica elaborata da Carlo Rosselli negli anni ’30 sempre del secolo scorso, ritenuta per molto tempo una conciliazione impossibile tra due sistemi di pensiero apparentemente incompatibili; in realtà essa fu il riferimento, nel secondo dopoguerra, dell’azione di molti governi europei e in particolare di quello laburista britannico tra il 1946 e il 1951, dove un partito socialista aveva ispirato la sua azione alle proposte di due liberali, sia pure in senso anglosassone, come Keynes e Beveridge.
Anche in Italia negli anni del centro-sinistra aveva agito una corrente socialista liberale intesa come sintesi tra il filone socialista di Pietro Nenni e Riccardo Lombardi, quello cattolico di Pasquale Saraceno e quello laico di Ugo La Malfa.
Il tema di un riformismo socialista e liberale fu poi al centro di tutta l’elaborazione del Psi negli anni di Craxi lanciata nel 1982 dalla conferenza programmatica di Rimini dal titolo ‘Governare il cambiamento’.
Perché ritorniamo ancora una volta sul tema evocato, nel lontano 1982, dell’alleanza riformista tra il merito e il bisogno e sul filone culturale del socialismo liberale o del liberalsocialismo? Perché siamo profondamente convinti che quel pensiero e quelle intuizioni contengano una straordinaria modernità e costituiscano l’unica àncora di salvezza per fare uscire le società occidentali dal vicolo cieco di un capitalismo senza inclusione e di un mercato senza equità che provocano sfiducia nella democrazia, rivolta contro le classi dirigenti, complottismi e populismi di varia natura.
I cambiamenti che ci stanno davanti e che vanno governati sono enormi:
- Economici, perché la centralità e il dominio dell’occidente si sono progressivamente indeboliti dinanzi all’impetuosa crescita di altre aree del mondo, in primis la Cina. La globalizzazione, così benefica per lo sviluppo di nuove economie e l’emancipazione di enormi masse di popolazioni nel mondo, in Occidente ha colpito duramente le fasce sociali deboli non adeguatamente protette dagli effetti delle trasformazioni in atto;
- Politici, perché il disorientamento provocato in occidente dalle nuove povertà e dalle nuove emarginazioni ha causato una diffusa insoddisfazione e critica nei confronti dell’establishment, contestato e messo in discussione da nuovi soggetti politici di cui Trump è stato l’emblema ma di cui vi sono stati esempi anche in Europa ;
- Culturali, infine, perché i venti impetuosi del populismo e del sovranismo hanno generato mostri come la negazione del valore delle competenze, la strumentalizzazione della paura verso i flussi migratori e gli ‘stranieri’ in generale, la convinzione che i politici siano tutti incapaci e/o ladri. In molte situazioni il giustizialismo, con la crescita debordante di un potere distorto e abnorme della magistratura e dei pubblici ministeri, ha condizionato la politica fino a farla rinunciare a quote sempre maggiori di potere a favore dei giudici.
In altre parole, fino ad ora non si è riusciti a ‘governare il cambiamento’ come auspicavano i socialisti italiani quasi quaranta anni fa. L’immensa ricchezza generata dalla crescita dell’economia mondiale e dalla diffusione dello sviluppo in aree del mondo che non l’avevano ancora conosciuto, in Occidente non sembra aver allargato il benessere ma al contrario lo ha ristretto concentrando sempre di più la disponibilità di denaro nelle mani di pochi. Le conseguenze della globalizzazione, al contrario, hanno impoverito ceti sociali intermedi che avevano conosciuto negli anni del dopoguerra e successivi un sostanziale miglioramento delle loro condizioni di vita.
In definitiva il capitalismo occidentale molte volte non è riuscito ad essere né gentile né inclusivo. Si è trattato spesso di un capitalismo soprattutto finanziario, con logiche di ritorni molto alti e molto veloci per azionisti e manager, con stipendi e premi altissimi per i vertici delle imprese e bassi, molto bassi per impiegati e operai. Un capitalismo senz’anima e destinato al fallimento.
In questo contesto i meriti o non sono stati riconosciuti o hanno generato invidia sociale anziché ammirazione. Non si è riusciti a creare una vera situazione di pari opportunità che consentisse ai migliori di ogni strato sociale di emergere e di affermarsi, povertà nuove si sono aggiunte a quelle vecchie e moltissimi bisogni sono rimasti insoddisfatti.
Come diceva Claudio Martelli nel lontano 1982, non ci sono più, o ci sono sempre meno, gli operai alienati dalla catene di montaggio (oggi le catene di montaggio con la presenza umana non esistono praticamente più grazie ai robot). Ci sono altre figure: i reietti dalle società contemporanee non sono più soltanto i poveri in senso tradizionale, denutriti e disoccupati, bensì gli esclusi dalla conoscenza, o dagli affetti o dalla salute. Cittadini dimezzati e dimenticati, affetti da nuove forme di povertà spirituale, affettiva, culturale oltre che materiale, povertà che amplificano il dolore insito nella condizione umana e ne deprimono la volontà di riscatto.
Nel nostro Paese, bloccatosi l’ascensore sociale che aveva caratterizzato gli anni del ‘miracolo italiano’, si è avuta molto spesso la sensazione che fossero più le relazioni e le influenze, piuttosto che il merito, a garantire il successo individuale; questa contraddizione è esplosa fragorosamente con la fuga all’estero di decine di migliaia di giovani ben formati nelle nostre scuole e università ma frustrati dall’impossibilità di trovare un lavoro e un reddito consoni alla loro formazione.
E ancora: la tremenda caduta della produttività in Italia nel settore pubblico e dei servizi è frutto anche della mancata modernizzazione del Paese, delle riforme che non si sono fatte e delle rigidità del mercato del lavoro, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, dove le politiche sindacali sono state sempre pervicacemente contrarie a formule contrattuali capaci di premiare il merito, la qualità del lavoro svolto, la dedizione e la lealtà al servizio. Un egualitarismo senza merito che ha spinto verso il basso le performance pubbliche del Paese e in forza del quale il riconoscimento dei bisogni è diventato assistenzialismo.
Oggi l’Italia, forte della straordinaria performance della sua economia e della sua industria nel post-covid, e dell’importante processo di riforme avviate dal Governo Draghi è in grado di essere il luogo dove si possono coniugare crescita e inclusione sociale richiamando la cultura dei diritti ma anche quella dei doveri, premiando una via che non mortifichi i talenti, la creatività, le energie individuali e imprenditoriali, ma al contrario le valorizzi per risolvere i problemi di tutti.
Per fare tutto ciò occorre una visione e una leadership. Non può esistere una leadership senza visione, ma una visione è impossibile senza un solido radicamento ai valori-guida. Un’alleanza riformista e liberale tra meriti e bisogni potrebbe il potente motore che finalmente porta a compimento la modernizzazione del Paese. Nenni diceva che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Chi potrebbero essere i protagonisti di questa alleanza riformista per la rinascita del Paese?
Tutti coloro i quali, sia in maggioranza che all’opposizione, si ispirano ad una cultura riformista e liberale e che devono avere la forza di superare divisioni e personalismi creando una grande aggregazione politica e riempiendo quello spazio che sarà una prateria quando finirà la fiera delle balle e quando gli italiani si saranno riavuti dall’ubriacatura dell’uno vale uno, dei no vax, del no alle grandi opere, della decrescita felice, di un ambientalismo estremista, triste ed inutile.
Lasciateci dire, da imprenditori e uomini di azienda, che le imprese, veri attori delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, possono essere luoghi privilegiati per la costruzione di questa alleanza. Le imprese virtuose misurano il valore di questa visione tutti i giorni e costruiscono dal basso il futuro di un capitalismo gentile e inclusivo.
Molti di noi hanno sempre avuto nel modello di Adriano Olivetti il punto di riferimento. Un modello oggi, dopo più di settanta anni, riscoperto da molte imprese soprattutto al nord.
Al centro di questo modello c’è la consapevolezza che il capitale umano è la più grande ricchezza di cui le imprese dispongono; che bisogna migliorare continuamente il welfare aziendale; che bisogna consentire con opportuni interventi la migliore parità tra uomini e donne, consentendo a queste ultime di rendere compatibile famiglia e lavoro, anche con la realizzazione di asili nido interni alle aziende per favorire la maternità; che bisogna realizzare spazi sempre più belli e accoglienti dove la gente lavora; che bisogna intensificare le attività di formazione permanente dei lavoratori, aumentare le borse di studio e i supporti all’educazione dei loro figli; che bisogna lavorare per meccanismi retributivi sempre più incentivanti il merito, la creatività e l’impegno e la partecipazione dei dipendenti agli utili delle imprese.
La dimensione piccola e media e la natura molto spesso di proprietà familiare delle nostre imprese posizionano bene il nostro sistema imprenditoriale rispetto ad un approccio rispettoso e inclusivo dell’attività aziendale, che è normalmente permeata da un fitto sistema di scambi e relazioni positive e virtuose con le persone che lavorano nell’impresa e che spesso la sentono come loro.
Moltissimi imprenditori italiani pensano che non vi sia meccanismo più inclusivo dell’impresa stessa, quando è capace di creare contemporaneamente ricchezza e occupazione qualificata e di investire continuamente in idee, innovazione e tecnologia per garantire un futuro sostenibile di lungo periodo. Quando è capace di dar vita all’alleanza virtuosa tra meriti e bisogni, mettendo i primi a disposizione dei secondi e cercando che questa alleanza non si limiti soltanto all’interno dell’impresa stessa ma giochi anche al suo esterno interpretando correttamente il concetto di responsabilità sociale.