Con un valore di oltre 30 miliardi di euro, 135mila aziende presenti in tutta Italia e più di 230mila lavoratori, la filiera della carne è uno dei pilastri del sistema agroalimentare italiano. Salumi, tagli pregiati e formaggi rappresentano fiori all’occhiello del made in Italy, esportati e apprezzati sulle tavole di tutto il mondo. Se l’impatto del settore sul Pil del nostro Paese è evidente, quello sull’ambiente è invece al centro di un aspro confronto tra scienziati, attivisti e addetti ai lavori. GEA ne ha parlato con Giuseppe Pulina, professore di Etica e Sostenibilità degli Allevamenti dell’Università di Sassari e presidente di Carni Sostenibili, associazione per il consumo consapevole e la produzione sostenibile di carni e salumi.
Secondo la Fao, ogni anno gli allevamenti emettono 7,1 gigatonnellate di Co2 equivalente, cioè il 14,5% dei gas serra prodotti dall’uomo. Questa attività è quindi considerata tra le maggiori responsabili del cambiamento climatico. Cosa ne pensa?
“Innanzitutto è necessario tenere conto che l’impatto di un’attività sull’ambiente dev’essere sempre commisurato ai vantaggi dei beni che produce. E nella classifica dei bisogni umani l’alimentazione occupa il primo posto. Nel caso degli allevamenti, le emissioni devono essere quindi commisurate all’importanza della produzione di cibo per otto miliardi di persone: se è vero che dobbiamo ridurre, meglio iniziare da altri settori. È poi importante ricordare che le emissioni di metano provocate dai ruminanti sono in aumento solo nei Paesi in via di sviluppo, che necessitano di alimenti per sfamare le proprie popolazioni: in Europa e negli Usa la percentuale si sta riducendo da trent’anni, grazie a una zootecnia sempre più efficiente. Infine un’ultima considerazione sulle metriche utilizzate da questi studi: se usassimo quelle di ultima generazione messe a punto dai fisici dell’atmosfera di Oxford, le stime sarebbero ridotte al 20% circa rispetto a quanto dichiarato dalla Fao”.
Uno studio pubblicato su Nature Food sostiene però che la produzione alimentare globale sia responsabile del 35% di tutte le emissioni di gas serra: quelle derivanti da alimenti di origine vegetale contribuiscono per il 29%, quelle da cibi di origine animale il 57%. Conviene essere vegetariani per salvare il Pianeta?
“In questi studi tutto dipende dall’unità funzionale che si decide di usare. Si tratta di due categorie di cibo completamente diverse: gli alimenti di origine animale sono consumati perché altamente proteici, quelli vegetali (soprattutto amidacei) perché portatori di energia. Possono quindi essere confrontati solo sulla base della quantità di amminoacidi essenziali che contengono, fondamentali per il nostro metabolismo. Tenendo in considerazione questi apporti nutritivi, la quantità di emissioni risulta addirittura favorevole ai cibi di origine animale. Per fare un esempio, nessuno si stupisce se un chilo di pane costa 3 euro e un chilo di prosciutto 30, perché il loro valore nutrizionale è diverso: questo giustifica il fatto che, per realizzare quel prosciutto, si produca una quantità maggiore di gas serra”.
Nel libro ‘La sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia’ sostiene che gli allevamenti nel nostro Paese siano già net zero dal punto di vista delle emissioni. Che cosa intende?
“Secondo i dati dell’Ispra e dell’Istat, gli allevamenti italiani emettono complessivamente 20 milioni di tonnellate di Co2 equivalente all’anno. Gli assorbimenti complessivi di carbonio di tutte le aziende zootecniche del Paese – che avvengono attraverso la componente arborea, i pascoli, la silvicoltura, ecc. – hanno un valore simile: questo significa che, sommando le due quote, il bilancio totale delle emissioni risulta pari a zero. Ciò non deve stupire: la produzione di questi cibi avviene nei pascoli, nelle campagne, dove non solo si produce ma anche si sequestra carbonio, si ricicla azoto, si purificano le acque. Vengono quindi attivati veri e propri servizi eco-sistemici. È l’unica attività umana di questo tipo: piuttosto che parlare di emissioni, dovremmo parlare di bilanci. E qui le cose iniziano a cambiare”.
Resta però vero che l’impronta idrica della carne bovina è molto superiore rispetto a quella di altri alimenti: secondo uno studio del Water Footprint Network, per produrre un chilo di carne bovina sono necessari 15mila litri di acqua contro i 300 impiegati per le verdure…
“Per il calcolo dell’impronta idrica c’è una grande confusione sugli standard da utilizzare. Il metodo del Water Footprint Network, ideato da due studiosi sul finire degli anni Novanta, è stato molto criticato perché considera anche l’acqua piovana. Un sistema certificato più sicuro è quello dell’ISO 14046, legato a convezioni accettate a livello internazionale: in questo caso l’impronta idrica degli alimenti include solo l’acqua effettivamente consumata (chiamata anche ‘blue water’) e attinta da falde, corsi superficiali, laghi, ecc. Se le colture sono quindi alimentate da piogge, il loro impatto sul consumo di acqua sarà ovviamente inferiore. Se si usano questi parametri l’impronta idrica della carne assume un valore molto variabile in funzione della tipologia di allevamento: si passa però a ordini di grandezza nettamente inferiori calcolati in centinaia, e non migliaia, di litri”.
Se a suo parere la filiera della carne è più sostenibile di quello che si pensa, perché il consumo di bistecche, salumi e prosciutti è fortemente osteggiato da associazioni, ambientalisti, ecc.?
“È sicuramente una questione di interessi economici. Spendiamo una quota importante del nostro reddito – circa il 35-40% a livello mondiale – per acquistare prodotti alimentari: si tratta di consumi importantissimi in termini di business, ma estremamente rigidi perché legati a gusti, tradizioni, abitudini, ecc. Per spostarli è necessario lanciare campagne di demonizzazione contro alcuni alimenti, come ad esempio la carne, con l’obiettivo di lasciare spazio a nuovi cibi, magari sintetizzati in laboratorio, attorno ai quali ruotano grandi investimenti. Quella in atto contro gli alimenti di origine animale è una battaglia che vuole cancellare l’agricoltura dalla faccia della Terra, in favore di surrogati alimentari costruiti a tavolino. Oggi nell’occhio del ciclone c’è la carne, ma domani toccherà al pesce, alle uova, ai pomodori, fino ad arrivare a tutto ciò che è naturale, tradizionale, genuino. Bisogna controbattere lanciando un’offensiva che non sia di retroguardia, ma rivolta al futuro: è importante farlo affinché i nostri figli possano continuare a mangiare non solo una buona bistecca, ma anche un buon piatto di pesce, dell’Asiago ben fatto accompagnati da contorni come insalata, pomodori e patate”.