L’acciaio mette tutti d’accordo. Gli acciaieri, ovviamente, i rappresentanti delle istituzioni europee, i parenti stretti italiani, le associazioni di categoria, le aziende energetiche. L’acciaio – è stato ribadito all’assemblea bergamasca di Federacciai – è qualcosa di irrinunciabile essendo il materiale di base per le case, le auto, gli aerei, le navi… Insomma, senza acciaio non si può sopravvivere ma l’acciaio va tutelato, in particolare l’acciaio italiano, al netto delle tristi vicende legate all’ex Ilva, la seconda acciaeria più grande d’Europa.
La siderurgia nostrana sta bene ma non scoppia di salute, soffocata dal costo dell’energia, stretta dalle norme imposte dall’Unione Europea, minacciata dalla competitività di Cina e India che possono muoversi liberamente senza lacci e lacciuoli, praticando prezzi al ribasso da sfiorare il dumping.
Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, ha parlato di rischio di desertificazione industriale, citando l’ex premier Mario Draghi e l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Un deserto non c’è niente di verde, la citazione usata come ariete per sfondare le barriere del Green Deal. Perché tutto va ricondotto alle politiche di Bruxelles, dove l’ideologia estrema e cieca – ha insistito Gozzi – ha portato a una situazione insostenibile per le aziende acciaiere, italiane e straniere.
Ets, Ets2, Cbam sono gli acronomi che hanno generato la ribellione degli industriali, culminata con l’attacco frontale di Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, poco incline ad abbracciare le politiche europee. Non l’ha toccata piano, Orsini, caustico anche sull’ultimo accordo Ue sul clima, con il taglio delle emissioni nocive del 90% con flessibilità entro il 2040.
Il punto, sia chiaro, non è cancellare la decarbonizzazione – che era e resta fondamentale per tutelare la salute del pianeta – ma realizzarla con il buonsenso che deve accompagnare transizioni delicate e costosissime. L’industria dell’acciaio appartiene alla ristretta schiera delle energivore che devono confrontarsi con prezzi disallineati. Chi opera in Francia, in Spagna o in Germania spende molto meno per alimentare – nello specifico – i propri forni rispetto a chi possiede stabilimenti in Italia. Ed è (anche) qui che l’acciaio va aiutato e tutelato, protetto dall’aggressività di economie che pagano meno e non si crucciano di inquinare di più.