
C’è in questi giorni un fatto nuovo e emblematico. È in gestazione un documento di politica economica comune tra i premier tedesco Merz, francese Macron e italiano Meloni sulla competitività europea e sul futuro della nostra industria.
I leader dei tre paesi più industrializzati d’Europa, consapevoli che il tempo stringe, ritengono necessario richiamare la Commissione all’azione per cercare di salvare l’industria del continente con misure rapide ed incisive che, nonostante i proclami, ancora non si vedono.
Sono loro quindi che dettano l’agenda alla Commissione, e questo mi appare più che logico visto che l’Europa non è uno stato federale, e probabilmente non lo sarà mai. Alla luce di ciò è normale e ragionevole che, per superare l’immobilismo attuale delle istituzioni europee in cui la tecnocrazia comunitaria regna sovrana, i grandi stati nazionali e industriali prendano l’iniziativa, dettino la linea e cerchino di fare politica.
Al centro del documento c’è una riflessione sul perché l’Europa ha perso così tanto terreno nei confronti della altre grandi aree economiche del mondo, e c’è una riflessione coraggiosa sul green deal. Non si vuole negare la necessità di decarbonizzare le nostre economie ma vi si afferma la necessità di farlo con logiche, metodi e tempi diversi di quelli imposti finora da un’ideologia ambientalista estremista.
Il fatto che anche Macron, leader indiscusso di Renew Europe, la forza liberal democratica che insieme a popolari e socialisti costituisce la maggioranza politica di Ursula Von der Leyen, sottoscriva l’appello alla revisione di scelte sbagliate, mi sembra estremamente significativo e meritevole di attenzione anche da parte dei riformisti nostrani che stanno guardando a sinistra.
E da qui parte la mia riflessione e il mio appello a Elly Schlein, che conosco e che è leader del più importante partito aderente al gruppo dei socialisti al Parlamento europeo.
L’appello è che anche i socialisti si impegnino a salvare le fabbriche, e non lascino solo ai popolari e ai conservatori, o peggio alle destre estreme, il merito della necessaria revisione del green deal, revisione che salverà milioni di posti di lavoro.
Tony Blair qualche settimana fa dalle pagine del ‘Corriere della Sera’ ha lanciato un messaggio chiaro e pragmatico che ha scandalizzato i sostenitori del mainstream e del pensiero unico in tema di decarbonizzazione. L’ex premier laburista britannico ha affermato: “Tutti sanno che l’obiettivo della neutralità carbonica al 2050 è irraggiungibile, ma nessun politico ha il coraggio di dirlo perché teme di passare per negazionista. Bisogna trovare il modo di dare coraggio ai politici europei affinché, senza negare l’obiettivo di dare un contributo alla decarbonizzazione che è un obiettivo mondiale, riescano a farlo senza far diventare l’Europa la principale nemica di famiglie e imprese”.
Il nodo è tutto qui. La velocità dei cambiamenti globali e la progressiva marginalizzazione dell’Europa e della sua economia impongono scelte rapide e radicali, come ha scritto Draghi nel suo rapporto. Occorre un cambiamento di paradigma e di visione.
Ma per attuare i cambiamenti invocati da più parti, quali più innovazione tecnologica, più investimenti in IA e spazio, riduzione del costo dell’energia, potenziamento del mercato del lavoro ecc. occorrono enormi risorse economiche e finanziarie, che oggi in Europa non esistono; modificare le regole attuali che stanno ammazzando l’industria a partire da quella dell’auto, come la tassa carbonica, gli adempimenti burocratici assurdi, la non protezione dal commercio sleale di molti paesi extra-europei, sarebbero invece riforme a costo zero.
Non c’è settore industriale di base: acciaio, chimica, farmaceutica, carta, cemento, vetro, fonderie ecc., tutti indispensabili per l’autonomia strategica europea e per la sopravvivenza delle filiere manifatturiere a valle, che non sia a rischio di delocalizzazione o di chiusura per le norme europee sull’ambiente, che non hanno eguali in nessuna altra parte del mondo.
La Von der Leyen ha promesso revisioni e semplificazioni che per ora non si vedono, anche perché i socialisti europei, avendo fatto del green deal il sacro graal della loro azione politica, vi si oppongono con gran forza.
Ci sono decine di milioni di posti di lavoro a rischio. Tra i casi emblematici c’è quello dell’acciaio e dei suoi legami con l’industria dell’automobile e con quella della difesa. Una norma europea detta CBAM, nata per cercare di bilanciare gli effetti perversi della tassa carbonica sulla competitività, elimina le quote gratuite di CO2 accordate fino ad oggi alle industrie di base hard to abate, cioè quelle per le quali la natura intrinseca dei processi industriali rende molto difficile o impossibile l’abbattimento delle CO2.
Ora, il 60% dell’acciaio europeo è ancora fatto con gli altiforni, che se perdono le quote gratuite di CO2 dovranno chiudere, con gravi conseguenze sociali dirette e con un approfondimento ulteriore della crisi dell’industria dell’automobile del nostro continente; infatti l’acciaio per le carrozzerie, il cosiddetto profondo stampaggio, si fa solo con gli altiforni, e se questi si spengono l’automotive europeo dovrà andare a comprare lamiere per le carrozzerie in Cina, Corea del Sud e Giappone, e cioè proprio dai suoi principali competitori sul mercato automobilistico.
La scommessa sull’auto elettrica, che l’Europa in maniera demenziale ha fatto un po’ di anni fa, è persa; perché la Cina ha un vantaggio tecnologico e di prezzo che appare ormai irrecuperabile. Si è intanto distrutta un’industria, quella delle automobili con motore endotermico, su cui c’era un primato europeo assoluto, e che con le innovazioni tecnologiche introdotte e i biocarburanti produceva ormai emissioni dirette prossime a quelle delle auto elettriche.
Sul green deal occorre davvero cambiare paradigma, e riconoscere onestamente gli errori fatti, perché non c’è più tempo e senza modifiche i processi di deindustrializzazione continueranno in maniera vorticosa e accelerata. Ma per cambiare rotta rapidamente ci vuole l’unità delle grandi famiglie politiche europee: popolari, socialisti, liberal-democratici e conservatori, capaci insieme di fare politica alta imponendosi sulla tecnocrazia.
Il tema del futuro e della sopravvivenza dell’industria europea, della sua competitività e della sua autonomia strategica è un tema esistenziale per l’Europa, perché è l’industria con la sua produzione di valore che consente il mantenimento del nostro modello sociale e di welfare di cui tutti, giustamente, meniamo vanto. È quindi un tema di tutti e non può diventare occasione di scontro politico e/o di campagna elettorale.
Alla revisione del green deal e delle sue storture si arriverà comunque, in un modo o nell’altro, e il documento dei tre premier è un primo importante segnale in questa direzione.
Si sta facendo strada, tra l’altro, la consapevolezza che l’Europa rischia di annientare la sua industria per nulla, perché le CO2 nel mondo continuano a crescere a causa delle paurose emissioni di Cina, USA, India e degli altri paesi emergenti, i quali si guardano bene dal seguire il modello europeo e rappresentano la stragrande maggioranza delle economie e delle popolazioni del mondo.
In questo contesto, perché i socialisti insistono ad attardarsi su posizioni astratte ed estremiste, anziché partecipare a pieno titolo alla salvezza di decine di milioni di posti di lavoro messi in pericolo dalle politiche europee degli ultimi anni, così come alla salvezza del modello sociale europeo con le sue tutele per i più deboli e il suo welfare di cui proprio loro sono stati costruttori protagonisti?
Quale è la ragione per la quale la socialdemocrazia, tradizionalmente votata alla difesa del lavoro, delle fabbriche e degli operai, dovrebbe anteporre a questi interessi sociali un estremismo ambientalista, una specie di religione neopagana a forte sfondo anticapitalista, dietro la quale spesso si nascondono grandi vecchi cultori di un’ideologia marxista-leninista sconfitta dalla storia?
Perché i socialisti europei accettano che gli operai della VW, o della Renault, o di Stellantis, o quelli della fabbriche siderurgiche si sentano abbandonati dai loro tradizionali rappresentanti e votino sempre di più partiti estremisti di destra e di sinistra come continua a succedere in Germania, Francia, Belgio, Olanda, Austria, ecc.?
Il ruolo dei socialisti dovrebbe essere quello di richiamare continuamente l’Europa a non trascurare i temi sociali e del lavoro, a perseguire oltre che la sostenibilità ambientale anche quella sociale ed economica, a non privilegiare sempre obiettivi e strumenti finanziari. Dovrebbe suggerire qualcosa il fatto che la settimana scorsa la maggior parte delle grandi banche di affari e dei fondi di investimento, che hanno trasformato anche il green deal in un gigantesco affare finanziario, sfruttando l’ondata di calore che ha colpito tutto il mondo, abbiano diffidato i governi a modificare le regole dell’ETS , mercato su cui speculano alla grande.
I socialisti dovrebbero vedere che la drammatica crisi europea è anche frutto dell’ideologia dominante nella tecnocrazia “guardiana” di Bruxelles che, totalmente priva di legittimazione democratica, ha determinato in questi anni il mostro dell’iper-regolamentazione.
Un’ideologia totalitaria contro la libertà dei cittadini e delle imprese, fatta dall’intreccio inestricabile di un fascio di forze eversive come l’estremismo ambientalista, l’estremismo mercatista e l’estremismo finanziario, che si sono impadronite a poco a poco delle politiche europee.
Salvare l’industria europea, ridarle competitività e vigore, riportarla ad essere strategicamente autonoma, proteggere i suoi lavoratori, deve essere un obiettivo comune e il PSE non può non partecipare a questa battaglia che oggi rappresenta la battaglia esistenziale dell’Europa. Se il PSE non la fa significa che ha perso l’anima e l’insegnamento dei padri riformisti del socialismo europeo, che del realismo e del pragmatismo hanno sempre fatto la loro stella polare.