Radici Group, storia dell’abito da sera che nasce da un fagiolo

Il gruppo italiano porta in passerella una creazione in Biofeel Eleven: Zero scarti, impatto ambientale bassissimo e performance elevate

Un abito da sera plissettato, ricamato, con le maniche a sbuffo, compare, completo, direttamente da una macchina. Non ha cuciture, non ha scarti. In più, viene da un fagiolo. Sembrerebbe un remake di Cenerentola, in chiave moderna, invece è quello che Radici Group è riuscito a realizzare con il Biofeel Eleven e che ha portato in passerella nei Mercati dei fori di Traiano a Roma, per il Phygital Sustainability Expo, gli stati generali della sostenibilità della moda.

Presentiamo un abito davvero speciale“, racconta a GEA Chiara Ferraris, head of corporate communication and external relations del gruppo, che produce in tutto il mondo poliammidi, fibre sintetiche e tecnopolimeri.

Come nasce un filato da un fagiolo?

“II piccolo fagiolo nasce in India, da una pianta che si chiama Eranda. Dal fagiolo si ricava un olio che dà origine a un biopolimero al 100% naturale, che dà vita a questo filato che si chiama Biofeel Eleven. Oltre a essere 100% naturale, ha una impermeabilità naturale, è estremamente duttile e può essere utilizzato in molteplici applicazioni. E’ uno splendido abito da sera quello che presentiamo, ma utilizziamo il filato tranquillamente anche per abiti sportivi. L’abbiamo tra l’altro realizzato con una tecnologia grazie alla quale la macchina produce l’abito completo, senza dover fare assolutamente nulla, nessuna cucitura. Ma è estremamente articolato. Ha delle forme particolari ma totalmente senza gli scarti. In più, essendo materiale con caratteristiche termoplastiche, è al 100% recuperabile, per essere trasformato in qualcosa di nuovo nella sua seconda vita, con un altro valore. Zero scarti, impatto ambientale bassissimo e performance elevate per un abito davvero bello esteticamente”.

Come funziona un gruppo internazionale che vuole essere sostenibile?
“Radici è di proprietà italiana ma conta tremila persone nel mondo, più della metà in Italia. Abbiamo delocalizzato, sì, ma produciamo in America quello che vendiamo in America, in Asia quello che vendiamo in Asia e in Europa quello che vendiamo in Europa. Il nostro tessile è europeo”.

Il settore della moda però è tra i più inquinanti…
“In realtà, oggi è al quarto-quinto posto, non è più considerato tra i primissimi settori inquinanti. Detto ciò, è vero: il mondo dell’abbigliamento genera tantissimi capi e questo è dovuto soprattutto al nostro modo di acquisto. Noi, come Radici, in questo ambito abbiamo una storia molto lunga: quest’anno pubblichiamo il nostro 19esimo bilancio di sostenibilità. Significa che sono già 19 anni che rendicontiamo in modo trasparente la nostra sostenibilità. Se ci si misura si può capire come attivarsi per essere ancora più sostenibili e noi ci rendicontiamo a livello di bilancio, ma costruiamo anche gli Lca su tutti i nostri prodotti. Misuriamo per ogni filato quale sarà e come si è generato l’impatto ambientale. Il primo tema per essere sostenibili è imparare a misurarsi e capire come poter attivarsi per poter cambiare le cose”.

Misurare la propria sostenibilità ha costi importanti. Ne vale la pena?
“Ne vale sicuramente la pena. Per completare un Life Cycle Assessment ci vogliono da 1 a 2 mesi, se il prodotto è semplice, ma arriviamo anche a sei mesi. Sono sicuramente attività che occupano tanto tempo e tante risorse. Però solo in questo modo possiamo capire come essere davvero performanti in ambito ambientale. Noi come gruppo ogni anno investiamo milioni di euro in risparmio ambientale. Avendo una storia così lunga di rendicontazione, posso dire che dal 2011 a oggi abbiamo ridotto di più del 70% le nostre emissioni di C02, come gruppo mondo. Per farlo, ci sono voluti decine di milioni di investimento. Ma se non ci crediamo non possiamo fare la differenza. Spero che il consumatore capisca sempre di più che deve scegliere in modo responsabile. Una scelta responsabile ha un costo, ma cambia il mondo”.