Zanardi (Assofond): “Europa nata su carbone a acciaio ma si sta sganciando da industria”

Assofond, l’associazione imprenditoriale di categoria che rappresenta le imprese di fonderia italiane guidata da Fabio Zanardi, è stata fondata nel 1948, qualche anno prima che nascesse la Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio dalla quale poi è nata la Ue.

Presidente, com’è cambiata l’Europa?

“L’Europa che oggi conosciamo è la figlia diretta della Comunità economica del carbone e dell’acciaio, con la quale nel 1951 Francia, Italia, Germania Ovest, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo intuirono che queste due materie prime sarebbero state fondamentali per la ripresa economica del continente dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale. Oggi, nel nome della transizione ecologica, l’Europa sta però sostanzialmente decidendo di sganciarsi dalla vocazione industriale che l’ha caratterizzata per tutto il Novecento. Siamo tutti d’accordo sulla necessità di ridurre l’impronta ambientale delle attività umane e l’Europa fa bene a voler giocare questa partita da prima della classe. Ma ci sono due strade per raggiungere questo obiettivo”.

Quali?

“La prima è quella che punta a raggiungere la destinazione con un percorso pragmatico e realistico, che può essere a tratti tortuoso e anche contemplare la possibilità di deviazioni e persino di qualche retromarcia se ci si rende conto che la via intrapresa è troppo impervia. È un percorso che guarda all’obiettivo finale con un occhio attento anche ai possibili effetti collaterali”.

E l’altra via?

“La seconda strada, invece, prevede un percorso più ideologico che razionale, che fissa delle deadline senza se e senza ma, a prescindere dall’effettiva possibilità di raggiungere gli obiettivi ambientali preservando al tempo stesso l’economia europea. L’Europa, e questo sarà il grande compito che attende la nuova Commissione, deve scegliere una di queste due strade: quella realistica e pragmatica o quella ideologica. Ben sapendo che, se la prima strada può significare raggiungere gli obiettivi del Green Deal magari con qualche deroga o qualche ritardo, la seconda porta dritti alla deindustrializzazione del nostro continente, con effetti potenzialmente disastrosi non solo in termini economici e occupazionali ma, e quanto sta accadendo in questi giorni con la crisi del Mar Rosso dovrebbe farlo capire anche a chi ancora non lo ha capito, anche di dipendenza strategica da altri Paesi potenzialmente ostili”.

Cosa succederebbe se in Europa non si producesse più acciaio, o se non ci fossero più le fonderie?

“Dovremmo importare tutto dall’estero, con il rischio di trovarci completamente scoperti nel momento in cui per qualsiasi motivo le supply chain si dovessero interrompere come già avvenuto più volte negli ultimi anni. Possibile che il Covid non ci abbia insegnato niente? Ci ricordiamo il dramma delle mascherine, che in Europa erano introvabili perché nessuno le produceva più ma tutti le compravano dalla Cina? Se per perseguire gli obiettivi del Green Deal, che personalmente condivido, ci dimentichiamo di considerare il rischio di perdere completamente la capacità di produrre materie prime indispensabili e di realizzare prodotti strategici, allora significa non aver imparato nulla da quella lezione”.

Ci sono però dei target energetici e climatici da raggiungere…

“Demonizzare l’industria non è la via corretta per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità. Le fonderie, ad esempio, sono un anello indispensabile per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Europa. Le nostre imprese sono infatti dei formidabili facilitatori della transizione per innumerevoli settori industriali a valle, dato che solo con la nostra tecnologia è possibile realizzare componenti indispensabili per trasformare in ottica green il sistema produttivo europeo. Senza fonderie non ci sarebbero turbine eoliche, centrali idroelettriche, automobili sempre più leggere e dalle ridotte emissioni, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il tutto – anche questo è bene non dimenticarlo – grazie a un processo produttivo intrinsecamente circolare: la fonderia è un’azienda di riciclo che riutilizza materiali, i rottami metallici, che altrimenti finirebbero in discarica per realizzare una vastissima gamma di prodotti, molti dei quali estremamente complessi e ad alto valore aggiunto e tecnologico”.

Vuole dire che senza le fonderie non ci sarebbe la transizione?

“Posso dire senza timore di smentita che, senza le fonderie, gli ambiziosi obiettivi dell’Europa nel suo processo di transizione ecologica non sarebbero raggiungibili. In Italia, peraltro, le imprese del nostro settore, sono all’avanguardia in fatto di decarbonizzazione del processo produttivo, con investimenti dedicati all’ambiente che, in media, rappresentano per le nostre associate oltre il 20% di quelli totali”.

Se il vostro settore è indispensabile per la transizione, cosa chiedete all’Europa?

“La decarbonizzazione dei settori cosiddetti ‘hard to abate’ – e quindi oltre alle fonderie, anche acciaio, cemento, carta, vetro, chimica e ceramica – deve rappresentare un’assoluta priorità nell’ambito della politica industriale italiana ed europea. Siamo il cuore dell’industria manifatturiera europea. Solo in Italia, i settori considerati garantiscono 350.000 posti di lavoro diretti, numero che raddoppia a 700.000 persone calcolando anche l’indotto. Possiamo davvero fare a meno di queste filiere? Possiamo decidere di cancellare con un colpo di spugna un secolo e più di industrializzazione che ha portato l’Europa a raggiungere il ruolo che oggi ricopre? Io credo di no. Bisogna, e questo è evidente, spingere forte per permettere a queste imprese di realizzare una transizione ecologica equa e sostenibile”.

Entrando nel dettaglio, chiedete aiuti pubblici?

“Assofond ha sottoscritto l’Industrial Decarbonization Pact, insieme alle altre associazioni confindustriali che rappresentano i settori energivori come Assocarta, Assovetro, Confindustria Ceramica, Federacciai, Federbeton e Federchimica, con il quale ci siamo impegnati a raggiungere la neutralità carbonica al 2050. Per farlo, però, è necessario il supporto delle istituzioni. Servono appositi strumenti finanziari e fiscali per sostenere i progetti di decarbonizzazione, una riforma strutturale dei mercati energetici per permettere alle imprese di approvvigionarsi di energia green al giusto prezzo e, da ultimo, deve essere garantita la neutralità tecnologica, ossia la possibilità di utilizzare tutte le tecnologie disponibili per arrivare all’obiettivo, senza preclusioni ideologiche che – e lo vediamo nell’auto – rischiano anzi di essere pericolose in termini di dipendenza strategica da Paesi esteri. Solo così la transizione ecologica potrà essere rapida e inclusiva. Solo così potremo dare una risposta pragmatica alle richieste che ci giungono dalla società civile di fermare il veloce declino ambientale del pianeta”.

Nel frattempo però è arrivata la tassa sul carbonio extra-Ue. Un bene o un male per voi?

“Il CBAM, cioè il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere voluto dall’Unione Europea per contrastare la concorrenza sleale di molti Paesi extra UE e sulla carta per sostenere i settori industriali a rischio delocalizzazione, in realtà è potenzialmente critico per il nostro settore. Da qualche mese è partita la fase transitoria, che si concluderà a fine 2025 e che impone agli importatori di dichiarare il volume delle loro importazioni e le emissioni di gas a effetto serra incorporate durante la loro produzione, senza però dover pagare alcun adeguamento finanziario, cosa che invece avverrà dal 2026. Purtroppo, a oggi possiamo dire che questo sistema, ancorché condivisibile nei suoi principi, rischia di diventare un gigantesco boomerang”.

Gozzi lancia l’allarme: “Sarà un autunno molto complesso”

E’ un grido di allarme quello lanciato da Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e del gruppo Duferco. Un grido di allarme che mette tutti davanti a una cruda realtà: “Sarà una stagione complessa perché siamo davanti ad un rallentamento della congiuntura. Non possiamo nasconderci. Questo momento arriva dopo due anni molto forti in cui l’Italia dal punto di vista economico ha performato più di tutti in Europa. Il Paese oggi è più fragile, i tassi di interesse sono alti e ad un livello a cui gli italiani non erano più abituati e quindi c’è un rallentamento degli investimenti“, la considerazione in un colloquio con il Giornale di Brescia. “Oltre ad un calo dell’inflazione più lento rispetto a quello che ci si aspettava. Dobbiamo poi tenere presente il rallentamento della Germania, ben superiore al nostro, che inciderà anche sull’economia italiana. Inflazione e guerra sono i due dati di incertezza che pesano sulle previsioni“, continua Gozzi. Parlando del mondo siderurgico, il presidente di Federacciai non nasconde anche qui la sua preoccupazione: “Le aziende energivore francesi pagano l’energia 42 euro a m W/h, quelle tedesche 60 euro, mentre quelle italiane quasi 120 euro. Vale a dire il doppio dei tedeschi e il triplo dei francesi e non è ammissibile. Con questi costi siamo davanti ad un handicap pesante che rischia di generare fermate della produzione e quindi cassa integrazione. Non ci sono molte alternative”.
Gozzi non vede uno spiraglio in fondo al tunnel anche perché le politiche di Bruxelles sollevano molte perplessità: “Il Governo è al corrente e abbiamo rappresentato a Roma la situazione. Il vero problema è l’Europa che ha dimostrato l’incapacità a fare una politica energetica comune. Non si riesce a trovare una sintesi che serve per evitare asimmetrie tra Stati ed ognuno va perla propria strada. L’Italia soffre perché non ha disponibilità economiche come altri. Il nostro governo deve rimarcare questo aspetto ai tavoli europei. Un altro dato che è drammatico: 750 miliardi di aiuti di Stato approvati dalla commissione europea nel 2021 e nel 2022. La Germania ne ha presi il 55%, la Francia il 27% e l’Italia solo il 7%. Non si può andare avanti così“.
Rimediare? Si può per il numero uno della siderurgia italiana: “Siamo il 18esinno Paese in Europa per digitalizzazione della Pubblica amministrazione. Questo Paese è stato in piedi in questi anni per le aziende manifatturiere che generarono mille miliardi di fatturato. E il nostro biglietto da visita in Europa. E di certo non possono essere i tempi della pubblica amministrazione il nostro vanto. Qualcosa va corretto e la modernizzazione del Paese deve essere al centro dei fondi del Pnrr“. E ancora sulla decarbonizzazione del settore acciaio: “In questo campo siamo campioni europei di decarbonizzazione. Non c’è un paese europeo come noi in cui la produzione sia più dell’80% da forno elettrico. Avremo la leadership nell’acciaio green al 2030, lavorando su ‘scope 1’, ovvero emissioni derivanti dalla combustione diretta e ‘scope 2’, ovvero emissioni indirette. La siderurgia bresciana sta investendo molto nella decarbonizzazione dei processi produttivi. Come consorzio di aziende bresciane stiamo lavorando per acquistare biometano da mischiare con il gas metano per ridurre quel residuo di scope 1 che abbiamo nelle nostre produzioni. Il biogas va incentivato nell’industria e non solo nei trasporti come da normativa. In una produzione annua delle ottomila ore di esercizio complessivo, solo duemila sono coperte da rinnovabili; per coprire il resto delle ore, le soluzioni sono turbogas con carbon capture e energia nucleare”.

Federacciai bacchetta l’Europa. Gozzi: “Saremo campioni del mondo green”

Per la prima Assemblea del suo secondo mandato da presidente di Federacciai, il professor Antonio Gozzi ha scelto la strada della chiarezza estrema perché, verosimilmente, non è (più) il tempo delle mezze misure e dei cerchiobottismi. Uno dei comparti industriali più importanti del Made in Italy, una delle eccellenze del Paese, non può restare immobile e non può difendersi da sola. Così Gozzi, prendendo la parola in uno dei padiglioni dell’immensa Fiera di Rho, non l’ha toccata proprio pianissimo. Ha richiamato l’Europa alle sue responsabilità e sollecitato il Governo di Giorgia Meloni ad agire, ha profilato un futuro sempre più decarbonizzato per il mondo siderurgico in maniera da diventare “campioni del mondo” perché adesso “siamo campioni d’Europa”. Traguardo ambizioso, da raggiungere esplorando frontiere al momento vietatissime, come quella del nucleare. Supportato, in questo, dalle promesse del ministro Urso, reduce da un viaggio in Romania in cui ha consolidato l’idea che noi, come sistema Paese, non possiamo rimanere indietro.

Siamo i siderurgici più green d’Europa e l’Italia è il Paese europeo con la più alta produzione di acciaio decarbonizzato (oltre 80 percento) e questo ci permette di rivendicare tale primato ai tavoli europei”, ha cominciato Gozzi. Ma l’interlocuzione con Bruxelles non è facile, tutt’altro, quasi un muro contro muro: “Estremismo e ideologia in campo ambientale, estremismo finanziario e mercatista, non considerazione adeguata da parte delle istituzioni europee della centralità dell’industria, crescenti asimmetrie competitive fra gli Stati gravano come macigni sul futuro economico e sociale dell’Unione. L’Europa deve cambiare approccio e deve farlo rapidamente, pena una vera e propria desertificazione industriale del continente”. Un chiodo fisso, quello della Ue. Nella sua compattezza, Federacciai chiede a Commisione e Parlamento un cambio di passo. “Non esiste un piano europeo per la siderurgia: il vero pensiero che si coglie è che l’acciaio sia il passato e che parte della produzione siderurgica debba lasciare l’Europa. Ma l’acciaio non è il passato , anche l’Europa deve sostenere lo sforzo di decarbonizzazione in siderurgia“, la denuncia del presidente. E ancora: “Bisogna non perdere mai di vista la competitività delle nostre imprese perché solo in questo modo la transizione può essere virtuosa ambientalmente e sostenibile economicamente e socialmente”.

Se è vero che la strada non è breve e, a tratti, potrà sembrare disagevole, è innegabile che debba essere intrapresa subito e senza tentennamenti. Soprattutto, dicono in Federacciai, senza incagliarsi in ideologie sorpassate. Un esempio? Eccolo: “Con riferimento all’energia nucleare, che ancora oggi rappresenta il 25% della produzione elettrica europea, vogliamo esprimere al Governo, anche in questa sede, il nostro totale sostegno alla ripresa anche in Italia di questa opzione. Sappiamo che molti dicono che per l’ltalia è troppo tardi e che i costi sarebbero troppo elevati. Sappiamo però anche che la velocità dell’innovazione tecnologica, l’avvento del nucleare di quarta generazione e dei microreattori rappresentano un’opportunità straordinaria, da non perdere”, ha teorizzato Gozzi.

Se l’Ucraina è un’opportunità da sfruttare “per l’elettrosiderurgia italiana”, i casi dell’ex Ilva e di Piombino non sono da trascurare. “Gli interventi sono stati imponenti e, probabilmente, Taranto oggi è l’impianto siderurgico più ambientalizzato del mondo“, ha sottolineato il presidente di Federacciai, “Per nostro difetto storico di comunicazione e per l’incapacità di narrare la siderurgia italiana per quello che è, cioè un settore industriale avanzato e di eccellenza, i punti problematici e di crisi, e cioè Taranto e Piombino, spesso nell’immaginario collettivo sono diventati l’esempio di come l’acciaio sia sporco, brutto e cattivo e di come alla parola acciaio si associ la parola crisi – ha spiegato -. Vi abbiamo raccontato perché non è così. Ormai più dell’80% dell’acciaio prodotto in Italia non è fatto né a Taranto né a Piombino ma nei mini-mills elettrici e decarbonizzati del Nord, protagonisti della più grande macchina europea di economia circolare“.

Gozzi (Federacciai): “Obiettivo produzione acciaio 100% green al 2030”

Dobbiamo partire dal presupposto che sulla decarbonizzazione non c’è altro Paese così avanti come noi: siamo all’80 per cento della produzione, siamo campioni del mondo dell’elettrosiderurgia e dobbiamo lavorare per confermarci”, e dunque “l’obiettivo che dobbiamo porci è quello di essere nel 2030 la prima nazione al mondo per produzione di acciaio totalmente green. Il che vuol dire che oltre al parametro dell’emissione in sè e per sé di Co2, dobbiamo immaginare che anche nello Scope 2 (emissioni indirette provenienti dalla generazione di energia elettrica acquistata o acquisita, vapore, calore o raffreddamento che l’organizzazione consuma ndr) si arrivi all’acquisto di energia elettrica sempre più green”. Lo ha affermato il presidente di Federacciai e Ceo di Duferco, Antonio Gozzi, in un’intervista rilasciata sabato a Repubblica Genova. Secondo Gozzi la strategia è, da una parte investire nelle rinnovabili, “in particolare sul fotovoltaico”, dall’altra “siamo ancora a 2000 ore coperte su 8 mila di esercizio con le fonti rinnovabili, abbiamo bisogno di energia di base decarbonizzata”. E non si può tralasciare “un’altra pista all’estero o in prospettiva anche in Italia”: il nucleare. “Abbiamo questa partnership insieme con Ansaldo Energia per raddoppiare la centrale slovena ma anche per studiare nuovi impianti veloci di piccola taglia e dimensioni, sono unità che assomigliano a batterie e possono aiutare enormemente le aziende energivore. L’obiettivo è essere il primo Paese nel mondo a produrre acciaio tutto green ed è un obiettivo realistico”, ha spiegato Gozzi.

UE

Iniziavano 70 anni fa i lavori della Comunità europea carbone e acciaio

Era il 13 luglio del 1952 e per la prima volta i rappresentanti delle autorità nazionali di sei Stati europei si sedevano attorno allo stesso tavolo per discutere di una questione comune: la produzione di carbone e acciaio. Iniziavano così ufficialmente 70 anni fa in Lussemburgo i lavori della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), il primo passo del progetto europeo che avrebbe portato alla nascita dell’Unione europea per come la conosciamo oggi.

Dietro la nascita della CECA – il cui obiettivo era quello di mettere in comune le produzioni di carbone e acciaio di Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Germania Ovest e Paesi Bassi – ci fu la spinta di due politici francesi, Jean Monnet (futuro primo presidente della Comunità europea del carbone e dell’acciaio) e Robert Schuman (allora ministro degli Esteri), del cancelliere tedesco, Konrad Adenauer, e del primo ministro italiano, Alcide De Gasperi. Dopo la Dichiarazione di Schuman del 9 maggio del 1950, seguirono i negoziati sul Trattato di Parigi, firmato il 18 aprile del 1951 e ratificato dai sei Paesi in meno di un anno, entrando infine in vigore il 23 luglio del 1952. Fu così instaurato un mercato comune del carbone e dell’acciaio, con l’abolizione delle barriere doganali e delle restrizioni quantitative e la soppressione di aiuti di Stato, misure discriminatorie, dazi doganali e sovvenzioni adottate unilateralmente dai singoli Paesi membri.

Il mercato comune fu aperto il 18 febbraio del 1953 per il carbone e il 1º maggio per l’acciaio, posto sotto la supervisione di un’Alta autorità con poteri di gestione della tassazione, delle previsioni di produzione per le linee-guida negli investimenti e delle carenze sul lato della domanda e dell’offerta. In relazione a questo specifico settore, la CECA si impostava come primo organismo sovranazionale europeo, dotato di uno specifico potere consultivo e di controllo politico al di sopra delle autorità nazionali dei Paesi membri. Significativo il fatto che per la prima volta si riunivano e si limitavano i poteri degli Stati nazionali sulle materie prime utilizzate dall’industria bellica, a pochi anni dalla fine della Secondo Guerra Mondiale.

La CECA era formata da quattro istituzioni – l’Alta autorità, il Consiglio speciale dei ministri, l’Assemblea comune e la Corte di giustizia – che dal 1º luglio 1967 furono unite con quelle della Comunità Economica Europea e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (istituite nel 1957 con il Trattato di Roma) attraverso l’entrata in vigore del Trattato di fusione. Con l’espansione della Comunità Economica Europea, il Trattato di Parigi è stato emendato più volte, fino a quando negli anni Novanta iniziò il dibattito su quale futuro dare alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, in vista della scadenza nel 2002. Il 23 luglio correrà il ventesimo anniversario dal giorno in cui la bandiera della CECA fu ammainata definitivamente davanti alla sede delle Commissione Europea a Bruxelles.

Sandro Bonomi

Bonomi (Avr-Anima): “Pronti a transizione ecologica, ma servono regole precise”

Il comparto è pronto per la transizione ecologica“, ma “manca una normativa definitiva, anche a livello internazionale” per permettere alle aziende di cambiare concretamente la produzione e “migliorare gli impianti per ridurre le emissioni di Co2“. Lo dice a GEA Sandro Bonomi, presidente di Avr, federata ad Anima Confindustria, che rappresenta le aziende italiane del settore valvole e rubinetteria. Bonomi si trova a Bergamo per partecipare all’Industrial Valve Summit, una delle più importanti fiere del settore. Le industrie di questo comparto lavorano per l’edilizia civile (rubinetteria sanitaria, valvole per impianti di riscaldamento e valvole antincendio, componenti e accessori, raccorderie) e per l’industria in generale e speciale (chimica, petrolchimica, energia, siderurgia, cantieristica navale e alimentare).

La sfida di oggi – dice Bonomi – è proprio quella di rendere più efficienti i processi produttivi lungo la strada della transizione ecologica“. “Per fondere i metalli” necessari a realizzare le valvole, spiega, “si crea inquinamento. Per questo cerchiamo di utilizzare energia pulita nei nostri impianti e il grosso sforzo è destinato a creare prodotti ecosostenibili“.

Le valvole, ad esempio, finora sono state realizzate per essere utilizzate con il gas. “Ora parliamo di aggiungere idrogeno – dice il presidente di Avr – e le valvole devono passare, quindi, test diversi. I decisori politici stanno definendo le regole per decidere, ad esempio, quanto idrogeno deve essere aggiunto al gas. Dobbiamo saperlo anche perché dobbiamo testare le valvole sulla base della normativa” che regolamenterà questi aspetti. “Il Pnrr – ricorda – non contiene nulla di specifico su questo“.

Complessivamente il comparto è, però, sulla buona strada. Le valvole in ottone, ad esempio, hanno un percentuale altissima di riciclo. “Siamo i primi al mondo – ricorda Bonomi – nel riutilizzo dei rottami di ottone“. Ogni pezzo scartato durante le fasi di lavorazione viene nuovamente fuso e recuperato. “Anche per l’acciaio – spiega – il ciclo produttivo è sempre stato virtuoso“.

Ciò che serve ora, ribadisce il presidente di Avr, è “una spinta per trovare nuove risorse” da destinare alla transizione ecologica – e quindi anche energetica – con un “coordinamento” forte da parte di tutti i decisori.