Una nanospugna cattura e rivela i gas radioattivi pericolosi e inquinanti

Una nanospugna in grado di assorbire e rivelare i gas radioattivi pericolosi per la salute umana e inquinanti per l’ambiente. È il nuovo materiale scintillatore poroso realizzato dai ricercatori del dipartimento di Scienza dei materiali dell’Università di Milano-Bicocca. I risultati della ricerca, guidata dai professori Angelo Monguzzi, Angiolina Comotti, Silvia Bracco e Anna Vedda, sono stati riportati nell’articolo ‘Efficient radioactive gas detection by scintillating porous metal-organic frameworks’, recentemente pubblicato sulla rivista Nature Photonics.

Dalle sostanze prodotte nelle centrali nucleari fino all’utilizzo come agenti di contrasto negli esami diagnostici in medicina, i gas radioattivi giocano un ruolo importante in diversi ambiti della società. Il loro monitoraggio e la loro gestione rappresentano aspetti cruciali per la nostra sicurezza. L’esposizione al radon, per esempio, può essere estremamente dannosa per la salute umana. Ma le caratteristiche di questo gas naturale – è inodore e incolore – lo rendono difficile da individuare. E ancora, negli impianti nucleari è fondamentale rilevare tempestivamente eventuali perdite di gas, così come essenziale è la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi in modo da evitare rischi per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Il nuovo materiale sviluppato dagli scienziati di Milano-Bicocca risulta utile in tutti questi ambiti in quanto è in grado di rivelare con estrema accuratezza e sensibilità anche quantità estremamente piccole di gas radioattivo.

Gli attuali rivelatori, basati su scintillatori liquidi, necessitano di preparazioni laboriose e costose, e la loro sensibilità è fortemente limitata dalla solubilità dei gas. La sfida tecnologica dalla quale siamo partiti – spiega il professor Monguzzi – è stata quella di individuare nuovi materiali scintillatori solidi che fossero contemporaneamente in grado di concentrare il gas radioattivo ed emettere luce visibile, rivelata con elevata sensibilità“.

La nanospugna scintillante messa a punto nel dipartimento di Scienza dei materiali è in grado di catturare gli atomi di gas radioattivi, con cui interagisce emettendo luce. Questo processo consente di misurare le sostanze pericolose con maggiore precisione e di individuarne quantità molto più piccole rispetto al passato.

Il nostro materiale ha dimostrato una sensibilità superiore rispetto ai rivelatori attualmente disponibili in commercio. Proseguiremo quindi la nostra ricerca seguendo un programma di sviluppo fino a realizzare un prototipo in grado di sostituire le tecnologie in uso per la rivelazione di queste sostanze con un dispositivo più semplice, meno costoso e molto più performante“, conclude la professoressa Comotti.

Il geologo: “Stoccare CO2 nel Mediterraneo? Si può fare, ma in Norvegia è più facile”

Nel Mare del Nord sono oggi in costruzione i 110 chilometri di pipeline che trasporteranno lontano dalla costa norvegese tonnellate di CO2 catturata dagli impianti industriali del Nord Europa. La pomperanno ad altissima pressione a 2.700 metri di profondità nella crosta terrestre, per immagazzinarla in un giacimento geologico naturale – un acquifero salino formatosi quasi 200 milioni di anni fa – che la intrappolerà in modo duraturo. La Norvegia investe da anni per stoccare anidride carbonica sotto i fondali del mare. Nel 2024 è previsto l’inizio dell’attività operazioni del progetto ‘Northern Lights’: promette di immagazzinare in modo sicuro un milione e mezzo di tonnellate di CO2 ogni anno, con la previsione di salire a 5 dopo metà secolo. Ma è possibile immaginare la stessa tecnologia nel Mar Mediterraneo? “Dal punto di vista geologico, sì, anche se con caratteristiche diverse”, come spiega a GEA Marco G. Malusà, professore di geologia stratigrafica e sedimentologica all’università di Milano-Bicocca. Più semplice, certo, nel Mare del Nord. In particolare per una questione numerica: i siti potenzialmente utilizzabili sono molti di più.

Quali condizioni devono esserci per poter stoccare CO2 sotto il fondale del mare?

“Dobbiamo immaginare i siti di stoccaggio come dei serbatoi costituiti da rocce porose e permeabili. Quando al di sopra di queste rocce è presente uno strato impermeabile si può creare una sorta di trappola: la CO2 iniettata sotto pressione non può più risalire verso la superficie. L’ideale, per questo tipo di tecnologia, è utilizzare pozzi petroliferi già esauriti, oppure acquiferi salini non adatti al consumo umano a causa dell’elevata percentuale di sali disciolti”.

Ci sono differenze tra iniettare gas in un vecchio giacimento o in un acquifero salino?

“Tecnicamente no. Il metodo è lo stesso. È vero però che utilizzare giacimenti esauriti di idrocarburi accelera i tempi, perché, semplicemente, sono più studiati. Il gas iniettato dovrà prendere il posto lasciato dagli idrocarburi estratti. Andrà pompato a una pressione leggermente maggiore rispetto alle condizioni che troverà in profondità. Ma non eccessiva, per non indurre fratturazioni indesiderate. Il vantaggio è che la “trappola” è già testata naturalmente per resistere a ere geologiche. Sono inoltre già state realizzate in passato indagini sismiche e geologiche, e sarà più semplice analizzare tutti i parametri del pozzo. È quindi possibile minimizzare i possibili rischi con appropriate strategie di monitoraggio”.

Quanto tempo servirebbe per valutare invece le caratteristiche geologiche di un acquifero salino?

“Bisogna in questo caso conoscere come è fatta la ‘trappola’, e accertarsi che non ci siano faglie che la mettano in comunicazione con i livelli permeabili sovrastanti. Un acquifero salino difficilmente sarà già studiato con questo livello di dettaglio, anche se non si parte da zero. In ogni caso parliamo di anni, non decenni”.

Il Mediterraneo è una zona molto sismica, a differenza del Mare del Nord. Questo può rendere un eventuale stoccaggio più rischioso?

“Ci sono faglie attive. Ma non bisogna immaginare che un terremoto al largo dell’Italia possa liberare CO2 immagazzinata in un eventuale giacimento. Il problema, semmai, è che proprio la presenza di faglie riconducibili a questa attività sismica è responsabile dello scarso numero di giacimenti e di siti adatti in area mediterranea. Nel Mare del Nord questo genere di attività tettonica si è sostanzialmente conclusa da svariati milioni di anni, da lì le faglie sono state sigillate da altri sedimenti e si sono creati serbatoi molto grandi dove poter estrarre o iniettare gas. Nel Mediterraneo la presenza di numerose faglie, spesso tuttora attive, non ha permesso invece di definire trappole grandi ed efficienti”.

Quanta CO2 si può immagazzinare in un giacimento o in un acquifero salino?

“Dipende da caso a caso. Ma la pressione fa ridurre notevolmente il volume della CO2. Per esempio, 1000 metri cubi di anidride carbonica al livello del suolo scendono a 20 metri cubi a 400 metri di profondità. A 800 metri il gas raggiunge lo stato supercritico (dove può essere denso come un liquido ma viscoso come un gas NdR) e si riduce a 3,8 metri cubi, a profondità superiori può raggiungere i 2,7 metri cubi di volume”.

Fattibilità tecnica a parte, lo stoccaggio di CO2 sotto gli oceani è per lei una buona soluzione su cui investire?

“Una transizione ecologica è necessaria. L’ideale sarebbe ridurre il più possibile le emissioni di gas serra. Ma ci sono settori industriali dove questo può avvenire molto difficilmente. Questo tipo di soluzione diventa allora un mezzo molto potente per il periodo di transizione che dovrà portarci a raggiungere la neutralità climatica”.

La Bicocca scopre l’enzima che elimina il monossido di carbonio

Il monossido di carbonio (CO) è conosciuto dai più come responsabile delle morti accidentali per il cattivo sistema di combustione degli impianti di riscaldamento all’interno delle abitazioni. Infatti si tratta di un gas tossico, incolore, inodore, insapore e non irritante che, senza ventilazione adeguata, può raggiungere concentrazioni elevate. Si produce per combustione incompleta di qualsiasi materiale organico, in presenza di scarso contenuto di ossigeno nell’ambiente. Per le sue caratteristiche può essere inalato in modo subdolo ed impercettibile, fino a raggiungere nell’organismo concentrazioni letali. Il CO presente nell’aria degli ambienti ristretti proviene principalmente dal fumo di tabacco e da fonti di combustione non dotate di idonea aspirazione (radiatori portatili a kerosene e a gas, caldaie, scaldabagni, caminetti e stufe a legna o a gas). Ma più in generale rappresenta un problema per l’ambiente se è molto concentrato nell’atmosfera.

LA SCIENZA AL LAVORO PER RIDURRE IL PROBLEMA DELL’EFFETTO SERRA

Ma ora la scienza sembra venire incontro al problema per garantire al pianeta, già fortemente malato a causa dell’inquinamento, una soluzione per evitare peggioramenti climatici. L’Università Bicocca di Milano ha scoperto infatti il meccanismo che consente agli enzimi presenti nel suolo in alcuni batteri di eliminare il monossido di carbonio (CO) dall’atmosfera. Lo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, insieme ai colleghi dell’Università della Calabria e dell’Università di Lund, in Svezia, ha permesso di comprendere nel dettaglio in che modo questi enzimi trasformino il CO in biossido di carbonio (CO2). “Un risultato – spiegano dall’Università – che apre nuove prospettive per quanto riguarda la mitigazione delle emissioni di monossido di carbonio, con effetti benefici sia sulla qualità dell’aria che sul clima dato che questo gas, altamente tossico, contribuisce ad aumentare l’effetto serra“.

Negli ultimi 20 anni, spiegano dall’ateneo, diversi studi sperimentali e teorici sono stati dedicati alla comprensione del processo di ossidazione del CO da parte di un particolare enzima contenente molibdeno e rame, chiamato ‘MoCu CO deidrogenasi’, ma ora il gruppo di ricercatori capitanato dal professor Claudio Greco, vicedirettore del Dipartimento di Scienze dell’ambiente e della Terra è riuscito a riprodurre per la prima volta un meccanismo di reazione che concorda con i dati sperimentali riportati ad oggi. In particolare, è stato spiegato in che modo l’enzima ‘MoCu CO deidrogenasi’ trasferisce dall’acqua un atomo di ossigeno trasformando il monossido in biossido di carbonio. Una persona adesso potrebbe chiedersi: ebbene, che beneficio abbiamo se un enzima trasforma il CO in CO2, ugualmente dannosa? Ecco, nessun pericolo. La CO2 prodotta, spiegano gli studiosi, viene utilizzata dagli stessi batteri e, quindi, non viene rilasciata nell’atmosfera.

monossido

LA SCOPERTA POTRÀ AIUTARE A RIDURRE LE EMISSIONI INDUSTRIALI

L’atmosfera contiene, in piccole proporzioni, vari gas dovuti sia a fonti naturali che a emissioni antropiche, come ad esempio proprio il CO – spiega il professor Greco –. Gli enzimi in grado di trasformare CO in CO2 sono presenti in diversi microrganismi del suolo e riescono a ‘consumare’ circa il 15% del monossido di carbonio dell’atmosfera. La scoperta di dettagli fondamentali del funzionamento di questi enzimi segna il passaggio verso la possibilità di progettare composti che funzionano nello stesso modo e che potrebbero essere impiegati sia in sensori di nuova generazione per la rilevazione del CO sia per la riduzione delle emissioni di questo gas in processi industriali“, conclude.