A Parigi un vertice senza precedenti per porre fine ai metodi di cottura inquinanti

Circa 2,3 miliardi di persone cucinano ancora bruciando legna, carbone o altri combustibili in sistemi rudimentali e inquinanti: un problema sanitario, sociale e climatico di primaria importanza che sarà al centro di un incontro senza precedenti organizzato a Parigi martedì. Secondo un rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie), della Banca Africana di Sviluppo (Adb) e delle Nazioni Unite, che ha lanciato l’allarme l’anno scorso, oggi un terzo della popolazione mondiale utilizza fornelli aperti o stufe rudimentali alimentate a legna, carbone, carbone, paraffina, rifiuti agricoli o sterco. La combustione di questi materiali inquina l’aria interna ed esterna con particelle sottili che penetrano nei polmoni e causano molteplici problemi respiratori e cardiovascolari, tra cui cancro e ictus. I fumi causano 3,7 milioni di morti all’anno, la terza causa di morte prematura nel mondo e la seconda in Africa. Nei bambini piccoli è una delle principali cause di polmonite. Le vittime principali sono le donne e i bambini, che ogni giorno trascorrono ore alla ricerca di combustibile, tempo che non viene dedicato alla scuola.

Governi, istituzioni, Onu, imprese… circa 800 partecipanti e rappresentanti di 50 Paesi sono attesi martedì presso la sede dell’Unesco su invito dell’Aie, dell’Adb e dei leader di Tanzania e Norvegia. L’obiettivo principale di questo incontro, che si concentrerà principalmente sull’Africa, la prima zona interessata, è quello di riunire gli impegni, sia finanziari che in termini di progetti, i cui dettagli e importi saranno resi noti a mezzogiorno. “Sarà un incontro senza precedenti, ma soprattutto vuole essere un evento che ci permetta di cambiare direzione“, ha dichiarato ai giornalisti Laura Cozzi, Direttore Sostenibilità e Tecnologia dell’Aie, che segue il tema da 25 anni. Il tema dei metodi di cottura “è trasversale, tocca tante questioni, è ora di metterlo al centro dell’attenzione“. Promette “un vero e proprio sforzo di mobilitazione” e si aspetta che vengano annunciate cifre “molto, molto incoraggianti“.

Un altro problema è rappresentato dalle emissioni di metano (spesso legate a una cattiva combustione), oltre che dalla deforestazione, che è una delle principali cause del riscaldamento globale. Secondo l’Aie, un’emanazione dell’Ocse, il passaggio a strumenti di cottura “puliti” entro il 2030 farebbe risparmiare al pianeta 1,5 miliardi di tonnellate di gas serra all’anno (CO2 equivalente), pari alle emissioni del trasporto aereo e marittimo (su circa 50 miliardi di tonnellate all’anno). I progressi sono stati compiuti nei principali Paesi asiatici, con un miliardo di persone che dal 2010 si sono dotate di apparecchi di cottura meno dannosi (alimentati con energia solare, biogas o addirittura gas di petrolio liquefatto). Ma quattro famiglie su cinque nell’Africa subsahariana ne sono ancora sprovviste e la situazione sta peggiorando. “Ci sono stati dei progressi in Kenya, Ghana, Tanzania… ma quello che stiamo vedendo è che la crescita della popolazione sta superando i progressi” in questo continente, avverte Daniel Wetzel, esperto dell’Aie.

Tuttavia, le somme stimate necessarie restano modeste, osserva l’agenzia: per risolvere gran parte del problema in Africa entro il 2030 sarebbero necessari 4 miliardi di dollari all’anno, mentre attualmente si investono solo 2 miliardi di dollari, soprattutto nel resto del mondo. L’Aie sottolinea che si tratta di “una minuscola frazione” degli investimenti globali nel settore energetico (2.800 miliardi di dollari entro il 2023). “Eppure è difficile immaginare una misura più efficace per dollaro investito”, sottolinea Wetzel. “È ovvio che dobbiamo darci da fare“. L’introduzione di piani d’azione proattivi a livello nazionale, l’abolizione delle tasse e delle restrizioni all’importazione di questo tipo di apparecchiature… sono tutte misure necessarie. Anche il sostegno finanziario è essenziale, aggiungono gli esperti: la maggior parte delle famiglie africane prive di attrezzature adeguate non può permettersi un fornello o un combustibile appropriato senza aiuti o incentivi.

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La farina d’insetti non piace agli chef, ma non si preoccupano: “Moda passeggera”

I decreti sulla trasparenza in etichetta per le farine di insetti hanno sollevato un dibattito nel quale la voce degli chef si alza quasi unanime: non in mio nome. I cuochi sembrano a ogni modo non essere preoccupati, la considerano una “moda passeggera”.

“Mi sorprende il fatto che ci sia tutta un’attenzione mediatica intorno all’argomento”, dice a GEA Filippo La Mantia, noto chef siciliano. Lui, assicura, non la utilizzerà mai: “Sono un tradizionalista, le campagne pullulano di prodotti di contadini che hanno le stesse proteine, che fanno bene e mi concentro sul mio prodotto”. Pensa, piuttosto, alle migliaia di tonnellate di prodotti che ogni anno finiscono al macero o che non vengono utilizzati. Lo fa proprio quando la cucina italiana è candidata a patrimonio immateriale dell’Unesco: “Di che stiamo parlando? – chiede – Abbiamo un tesoro sotto i piedi che dobbiamo coccolare e coltivare, ci dobbiamo prendere cura di quello che madre natura ci ha dato. Non mi pongo il problema della farina di insetti, sono molto proiettato verso i prodotti italiani, migliaia di contadini ogni mattina si svegliano all’alba e hanno altri problemi”.

E’ d’accordo lo chef svizzero, fondatore del ristorante vegetariano stellato Joia a Milano, Pietro Leemann. Considera la farina di insetti “inutile”, dal punto di vista alimentare e gastronomico. “Faccio un esempio: in Romagna si fa la pasta con le uova e la farina, chi la fa non si metterà certo a farla con la farina di insetti”. Se la ratio è quella di combattere la fame nel mondo, anche in questo caso l’uso degli insetti non ha senso, assicura: “Sa cosa risolve il problema della fame? Diventare vegetariani, per i quali la proteina non è un problema. In Paesi come l’India non c’è mica bisogno della farina d’insetti, stiamo parlando di un miliardo e mezzo di persone”. La soluzione, afferma Leemann, passa anche da un’educazione alimentare: “Quello che è successo dal dopoguerra in avanti è una esuberanza nel consumo. Questo può essere facilmente sistemato e si sistemerà in modo naturale”. Si dice ottimista per il futuro: “La nuova generazione è molto più coscienziosa e sta diventando vegetariana, appunto, per presa di coscienza”.

olio cucina

Commissione nazionale Unesco: “Cucina italiana sia patrimonio culturale immateriale”

La cucina italiana è ufficialmente candidata a patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. A presentarla all’esame del Comitato intergovernativo è stato il Consiglio direttivo della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, presieduto da Franco Bernabé. Il dossier di candidatura, dal titolo ‘La cucina italiana fra sostenibilità e diversità bioculturale’, indica tra le motivazioni il suo essere un “insieme di pratiche sociali, riti e gestualità basate sui tanti saperi locali che, senza gerarchie, la identificano e la connotano”.

Questo mosaico di tradizioni territoriali “riflette la diversità bioculturale del Paese e si basa sul comune denominatore di concepire il momento della preparazione e del consumo del pasto a tavola come occasione di condivisione e di confronto”. “Ovunque, in Italia – si legge nella nota Unesco – cucinare è un modo di prendersi cura della famiglia e degli amici o degli avventori. È il frutto di un continuo gioco di connessioni e scambi che dalle precedenti generazioni arriva alle nuove. È anche una manifestazione quotidiana di creatività che rimanda al “buon vivere” italiano per il quale, nel mondo, siamo apprezzati e talvolta invidiati”.

Come evidenzia lo storico Massimo Montanari, “la candidatura vuole rappresentare la cucina italiana, domestica e non, come un mosaico in cui le singole tessere permettono di definire un insieme coerente che trascende l’unicità e la specificità di ogni singola tessera”. Tutto ciò è il risultato di una storia plurisecolare caratterizzata da numerosi scambi, interferenze e contaminazioni reciproche. La cucina italiana, come emerge dal dossier di candidatura, “è un elemento essenziale, vivo e attuale dell’italianità, riconosciuto tanto all’interno del paese quanto all’estero”.

Il Consiglio direttivo ha inoltre approvato la candidatura transnazionale ‘Arte campanaria tradizionale’, estensione all’Italia di questo elemento iscritto dalla Spagna lo scorso anno. La partecipazione italiana è promossa dalla Federazione nazionale dei suonatori di campane, che raggruppa 22 associazioni presenti sul territorio italiano. Il dossier contiene diversi elementi, come le differenti tecniche di suonata; i paesaggi sonori quali feste, anniversari, riti; le forme delle campane realizzate da fonderie storiche e le strutture architettoniche dei campanili, come quelli di Piazza San Marco a Venezia e di Santa Maria del Fiore a Firenze.