Sostenibile, naturale, ecobio: chi decide se un cosmetico è green?

Si fa presto a dire bio. E altrettanto in fretta a discutere di sostenibilità. Ma quando si parla di cosmetici, come facciamo a essere sicuri che un prodotto sia davvero rispettoso dell’ambiente e del pianeta? Semplice, non lo sappiamo. O meglio, dobbiamo fidarci: della lista degli ingredienti, degli esperti della materia, dell’azienda che lo produce e della giungla di certificazioni che – ahinoi – non seguono standard univoci.

Ma facciamo un passo indietro. Ipotizziamo di voler lanciare sul mercato la nostra nuova linea di cosmetici. Abbiamo tutto ciò che ci serve, autorizzazioni comprese. La filiera dei nostri prodotti è, secondo gli standard che abbiamo a disposizione, sostenibile. Poche emissioni di CO2, packaging riciclato, materie prime provenienti da agricoltura biologica. La lista degli ingredienti – il cosiddetto Inci (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients) – ha superato la prova dell’EcoBiocontrol, cioè la ‘bibbia’ per gli appassionati della cosmesi bio e magari abbiamo scelto fornitori locali a km0. Siamo persino diventati soci di Cosmetica Italia, l’associazione di categoria appartenente a Confindustria, che riunisce le aziende cosmetiche. Insomma, siamo pronti a dire al mondo che ci siamo e che siamo sostenibili e naturali. E ora?

Nessun ente governativo, nazionale o europeo, potrà mettere un ‘bollino’ green ai nostri prodotti, perché il Regolamento Ue 1223 del 2009 – che rappresenta lo strumento giuridico in materia di cosmetici a cui devono attenersi tutte le aziende del settore – non prevede una classificazione in questo senso. Il testo norma la sicurezza d’uso dei prodotti e delle materie prime, ma non distingue tra cosmetici naturali e cosmetici che non lo sono. “Una nostra commissione interna – dice a GEA Gian Andrea Positano, responsabile del Centro Studi di Cosmetica Italiaha definito un perimetro di classificazione di questi prodotti, distinguendo tra cosmetici a connotazione naturale e cosmetici sostenibili, che spesso si sovrappongono, ma questa distinzione serve a contestualizzare i dati (di produzione e di mercato) in termini comunicazionali e di marketing, ovviando a qualsiasi forma di definizione cogente a livello normativo”.

All’interno di questo perimetro i cosmetici a connotazione naturale sono caratterizzati da elementi grafici o testuali (claim) che comunicano la presenza di un alto numero di ingredienti biologici o di origine naturale. Quelli definiti sostenibili, invece, comunicano la loro connotazione di sostenibilità ambientale/green in ambiti che possono riguardare tutto il suo ciclo di vita o le politiche corporate dell’impresa verso la sostenibilità (ambientale, sociale, economica).

E allora come facciamo a raccontare al mondo che i nostri prodotti sono green? La prima strada è quella di comunicarlo attraverso azioni di marketing – spiegando chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo – provando a conquistare la fiducia dei consumatori grazie alla nostra promessa. Sarà poi il mercato a dirci se abbiamo raggiunto lo scopo.

La seconda strada è quella delle certificazioni che, però, come detto, vengono fornite solo da organismi privati specializzati. Ad esempio, possiamo comunicare la conformità allo standard internazionale ISO 16128 – cioè la validazione del calcolo degli indici di naturalità e biologicità di cosmetici e dei loro ingredienti in base – attribuita da CCPB, che la Commissione Europea ha riconosciuto come organismo di certificazione equivalente in numerosi Paesi nel mondo, ma in Italia no.

Oppure, possiamo affidarci a una delle principali certificazioni private di bio cosmesi europee ed italiane. Intanto, però, è necessario chiarire un aspetto fondamentale: “non potrà mai essere messo sul mercato – dice Positano – un prodotto che non ha la garanzia di essere sicuro per i consumatori. Per esserlo potrebbe contenere sostanze chimiche di sintesi, come ad esempio conservanti”. Chimico, però, non significa ‘non naturale’, anche se nella narrazione, soprattutto online, spesso si fa confusione. Una sostanza di sintesi, inoltre, può risultare innocua per la salute e per l’ambiente, indipendentemente dalla sua origine. Così, ad esempio, in una crema possiamo trovare l’alcool cetilstearilico, che dal nome pare tutto fuorché naturale, invece è di origine vegetale e magari deriva anche da agricoltura biologica.

Il fatto stesso che ci siano molti enti di certificazione e molti metodi per farlo, perché ciascuno usa parametri diversi – spiega Positano – è la dimostrazione che non esiste un cosmetico naturale tout court, altrimenti ci sarebbe un regolamento in materia. Si tratta di classificazioni di marketing”. Che, però, considerando che il mercato dei cosmetici naturali o sostenibili ha raggiunto i 2,6 miliardi di euro nel 2021, evidentemente funzionano.

E se volessimo certificare la sostenibilità dei nostri prodotti, cosa dovremmo fare? Potremmo, ad esempio, provare a ottenere il bollino del Sistema Gestione Ambientale, che indica l’impegno dell’impresa nella salvaguardia dell’ambiente, nell’utilizzo consapevole delle risorse naturali e nella prevenzione dell’inquinamento, in modo coerente con le necessità del contesto socio-economico di riferimento, nel pieno rispetto delle normative ambientali cogenti e volontarie applicabili.

Ma le certificazioni davvero garantiscono la sostenibilità di tutta la filiera? “No, non riescono a farlo, magari riuscissero”, spiega il chimico Fabrizio Zago, creatore dell’EcoBiocontrol. “Ci sono degli enti di certificazione più o meno seri – spiega – che la vedono in maniera olistica. Il migliore si chiama Eu-Ecolabel. È l’unico sistema di certificazione che guarda a 360 gradi la provenienza e dà un giudizio di sostenibilità complessivo”.

Ovviamente far certificare i prodotti costa e molte aziende, racconta il responsabile del Centro studi di Cosmetica Italia “scelgono di non farlo, non solo per ragioni economiche, ma anche per una propria strategia di marketing”: come si diceva, preferiscono ‘raccontare’ i loro prodotti, senza la necessità di avere un ente terzo che dica quanto siano buoni e giusti.

Un capitolo a parte merita la questione della sperimentazione sugli animali. “In Europa i test animali sono assolutamente vietati sia sui prodotti cosmetici sia sui loro ingredienti””, dice Positano. Ma – e qui nasce l’ennesima incongruenza – per esportare in alcuni Paesi extra Ue (come la Cina) i cosmetici prodotti in Europa è necessario dimostrare che siano stati testati sugli animali.

Zago: “Io ecologista antimilitarista. Oggi dico sostenibilità con ragionevolezza”

In principio c’era lui. Per molti Fabrizio Zago, è il guru della biocosmesi, il padre del Bio-Dizionario, oggi BioEcoControl, la prima guida per i consumatori consapevoli. Che, però, fino ai primi anni Duemila erano ancora molto pochi, una nicchia.

Gli altri se ne fregavano”, spiega a GEA, raccontando gli inizi del suo lavoro. Ricollega il percorso fatto con un certo spirito ribelle che lo animava: “L’idea è nata perché mi sono sempre sentito un ecologista senza sapere di esserlo, ho fatto studi di chimica che potevano indirizzarmi diversamente. Invece mi sono schierato dalla parte debole del sistema. Ecco, probabilmente è nato tutto da questo mio sentirmi dalla parte dei più deboli, dal non voler far male a nessuno”. La scelta in campo cosmetico e detersivistico orientata verso l’ecologia, in quegli anni, non era ancora una “moda”: “Ho fatto obiezione di coscienza quando ti mettevano le manette, non era facile. Ho fatto poi il servizio civile, facevo azione antimilitarista”.

Con il suo compagno di studi, che si occupava di impianti di depurazione, ha iniziato a lavorare nell’ambito delle materie prime: “Sono riuscito a entrare in contatto con dati scientifici che non aveva nessuno, mi è servito enormemente per costruirmi una cultura specifica. Da qui capisci se una sostanza è più o meno tossica o biodegradabile”.

Prima del 2000, Zago collaborava con aziende che però “facevano numeri insignificanti”: “È successo che a un certo punto mi sono detto che bisognava fornire strumenti perché i consumatori diventassero autonomi e consapevoli. All’epoca c’era un sito dove fu aperto un forum di discussione, tra il 1999 e il 2000 e molte persone si sono fiondate nel forum. C’erano anche Barbara Righini (fondatrice di ‘Sai cosa ti spalmi?’, ndr) e ‘mamma chimica’, che un po’ alla volta hanno sviluppato i propri progetti”.

Il problema era non solo che le etichette non erano esaustive, ma che non c’era la possibilità di leggere i dati, perché “non erano disponibili. “Che determinate sostanze fossero altamente tossichespiega Zago – lo sapevano quelle quattro persone dei laboratori delle multinazionali e basta. C’era una ignoranza assoluta che portava a usare in maniera inconsapevole una sostanza senza sapere che si stava inquinando in maniera indecente”.

In campo cosmetico le prove della tossicità sull’uomo sono recenti. Anche oggi, rivela, “uno dei problemi più grossi sono i perturbatori endocrini, sostanze che penetrano nella pelle, entrano in circolo e sono fatte per ingannare il corpo umano e farsi riconoscere come similari a ormoni, solo che non funzionano come ormoni. Uno di questi, usato frequentemente nei filtri solari, è l’octocrylene”. Il rischio di tumore alla pelle con i raggi Uv c’è, Zago non vuol essere tranchant: “Consiglio di usare la crema protettiva, ma aggiungo che è meglio portare un cappellino. In generale, in maniera chiarissima dico che si può creare un filtro solare con fattore spf 50 anche senza Octocylene”.

Sull’annosa questione dei loghi vegan, non lascia spazio a interpretazioni: “Fornirli è un errore. Qualsiasi sostanza ha un certo impatto sull’ambiente. Posso dire di non aver usato animali o derivati di animali in un determinato prodotto, ma quando questo finisce nelle acque di scarico, i pesci li uccide e sono in mare anche loro. O si è rigidi su questo principio o non possiamo dirci coerenti. Io do il logo vegan a condizione che sia gratuito, perché nessuno deve avere la sfrontatezza di far pagare la salute degli animali, e poi bisogna che il prodotto in questione abbia davvero un bassissimo impatto sull’ambiente, è l’unico modo per garantire la sopravvivenza dei pesci”.

Oggi, le certificazioni non indicano ancora la sostenibilità di tutta la filiera. “Magari ci riuscissero. Ci sono degli enti più o meno seri che la vedono in maniera olistica, il migliore si chiama Eu-Ecolabel. È l’unico sistema di certificazione che guarda a 360 gradi la provenienza e dà un giudizio di sostenibilità complessivo”.

La sfida della sostenibilità, in sostanza, per Zago va affrontata in maniera “ragionevole”: “Se diciamo basta a tutto finisce che tutti tornano ai siliconi e l’industria dei siliconi sta facendo carte false per redimersi. Ma non esistono siliconi buoni, ci sono prove che alcuni di questi, inalati, provochino delle gravissime sensibilizzazioni e irritazioni”.

Oggi si va nella direzione giusta, ma tanto c’è ancora da fare per una cosmesi più vicina alle esigenze dell’uomo e del pianeta: “Il futuro sarà migliore a due condizioni, la prima è che venga approvata una legge europea che faccia chiarezza su cosa è biologico e cosa non lo è, perché qui tutti si svegliano una mattina e scrivono bio senza nessuna chiarezza. Lo trovo scorretto. L’altra cosa che serve è che vengano fatti i controlli: è inutile avere leggi che nessuno fa rispettare, questo è drammatico”.

Pensa ai più giovani, con cui ha confronti continui: “Quando parlo con gli attivisti del movimento del Fridays for Future, mi vergogno. La mia generazione gli ha rovinato il mondo, gli stiamo consegnando in eredità uno straccio. Io per prima cosa chiedo loro scusa per non aver fatto di più di quello che ho fatto, lasciando in mano un mondo tremendo. Tutti dobbiamo dare elementi di discernimento alle nuove generazioni. Non possiamo deluderli, non dobbiamo tradirli”.