In Italia 22 miniere di materie prime critiche: la mappa Ispra di quali sono e dove si trovano

In totale sono 76 le miniere ancora attive in Italia, 22 relative a materiali che rientrano nell’elenco delle 34 Materie Prime Critiche dell’Ue. In 20 di queste, si estrae feldspato, minerale essenziale per l’industria ceramica e in 2 la fluorite (nei comuni di Bracciano e Silius), che ha un largo uso nell’industria dell’acciaio, dell’alluminio, del vetro, dell’elettronica e della refrigerazione. In particolare, la miniera di fluorite di Genna Tres Montis (Sud Sardegna), che rientrerà in piena produzione al termine dei lavori di ristrutturazione, rappresenterà una delle più importanti d’Europa.

Sono le informazioni ufficiali dell’Ispra sulle risorse minerarie nazionali contenute nel database GeMMA (Geologico, Minerario, Museale e Ambientale), presentato questa mattina a Roma con la vice ministra all’Ambiente e alla Sicurezza energetica, Vannia Gava. La Banca dati, aggiornata nell’ambito del progetto PNRR GeoSciencesIR, rappresenta, il punto di partenza per l’elaborazione del programma minerario nazionale, imposto dal Regolamento EU 1252/2024 (Critical Raw Materials Act) e affidato all’ISPRA con il DL 84/2024.

L’estrazione di minerali metalliferi, che rappresentano la maggior parte dei materiali critici, ha interessato circa 900 siti ed è attualmente inesistente. In Italia non vengono, per ora, estratti Critical Raw Materials metallici e per la loro fornitura il nostro paese è totalmente dipendente dai mercati esteri. Alla luce delle nuove tecniche di esplorazione e dell’andamento dei prezzi di mercato, molti dei depositi conosciuti andrebbero rivalutati.

DOVE SONO. Delle altre 91 miniere di fluorite attive in passato, alcune molto importanti – da rivalutare con i prezzi attuali quadruplicati rispetto al 1990 – sono localizzate nel bergamasco, nel bresciano ed in Trentino, oltre a quelle sarde e laziali. Feldspato e fluorite, dunque, sono ad oggi le uniche materie prime critiche ad oggi coltivate in Italia, ma i permessi di ricerca in corso, i dati sulle miniere attive in passato e quelli sulle ricerche pregresse e recenti, documentano la potenziale presenza di varie materie prime critiche e strategiche come il litio, scoperto in quantitativi importanti nei fluidi geotermici tosco-laziali-campani e come diversi altri minerali da cui si producono metalli indispensabili per il modello di sviluppo decarbonizzato, la green tech, la transizione digitale e la indipendenza da paesi terzi.

Depositi di rame, minerale essenziale per tutte le moderne tecnologie, sono già noti nelle colline metallifere, nell’Appennino ligure-emiliano, nelle Alpi occidentali, Trentino, Carnia ed in Sardegna. In diversi siti è stato estratto manganese soprattutto in Liguria e Toscana. Il tungsteno è documentato soprattutto in Calabria, nel cosentino e nel reggino, nella Sardegna orientale e settentrionale e nelle alpi centro-orientali, spesso associato a piombo-zinco. il cobalto è documentato in Sardegna e Piemonte, dove il deposito di Punta Corna è ritenuto di strategica importanza europea, la magnesite in Toscana e i sali magnesiaci nelle Prealpi venete.

L’accertato giacimento di titanio nel savonese è questione ben nota, così come le problematiche ambientali che ne precludono l’estrazione a cielo aperto. Le bauxiti, principale minerale per l’estrazione di alluminio, sono invece localizzate in quantitativi modesti in appennino centrale ma più consistenti in Puglia e soprattutto nella Nurra (SS), dove la miniera di Olmedo, ultima miniera metallifera ad essere chiusa in Italia, è ancora mantenuta in buone condizioni. Le bauxiti di Olmedo, come le altre bauxiti, contengono possibili quantitativi sfruttabili di terre rare, che sono sicuramente contenute all’interno di buona parte dei depositi di fluorite, come nel caso di Genna Tres Montis.

Possibili depositi di celestina, principale minerale dello stronzio, materiale critico dai molteplici usi, sono documentati nelle solfare siciliane, soprattutto del nisseno. La presenza di litio è nota nelle pegmatiti dell’Isola d’Elba, del Giglio e di Vipiteno, ma è la recente scoperta di importanti quantitativi di litio nei fluidi geotermici tosco-laziali-campani a rivestire un’ottima opportunità di estrazione a basso impatto ambientale. Sette permessi di ricerca sono stati rilasciati dalla Regione Lazio ed inseriti nel database, insieme agli altri attualmente vigenti. Tra i materiali critici non metalliferi, depositi significativi di barite, importante minerale per l’industria cartaria, chimica e meccanica, sono localizzati nel bergamasco, nel bresciano ed in Trentino. Di fondamentale interesse per la nuova tecnologia sono i depositi di grafite, precedentemente estratti per coloranti, lubrificanti e per la fabbricazione delle matite. I depositi noti sono localizzati nel torinese (attualmente interessati da due permessi di ricerca), nel savonese e nella Sila.

RIFIUTI ESTRATTIVI. A livello mondiale sta crescendo l’interesse della coltivazione degli scarti minerari come fonte di materie prime. In Italia le pregresse attività minerarie hanno lasciato un’eredità di circa 150 milioni di mc di scarti di lavorazione (rifiuti estrattivi), che si trovano in strutture di deposito spesso fatiscenti e che rappresentano un serio problema ambientale, con inquinamento diffuso delle acque superficiali/sotterranee e dei suoli da metalli pesanti, cioè gli stessi che potrebbero essere recuperati. È necessario un cambio di paradigma: da rifiuti inquinanti da bonificare, a potenziale risorsa da recuperare. Il regolamento Eu riapre, sia pur con grande ritardo rispetto alle grandi economie minerarie mondiali, il tema dell’estrazione mineraria e delle problematiche sociali ed ambientali. Nell’ottica del rilancio della politica mineraria nazionale, occorre puntare su formazione e ricerca di base nel settore minerario, coinvolgendo oltre agli enti di ricerca, la comunità scientifica, le università e le scuole professionali.

Confindustria: “Premi sostenibili per polizza anti-calamità”. Ania: “Diversificare rischi”

Entro fine anno entrerà in vigore per le imprese la polizza obbligatoria contro gli eventi catastrofali. Il nuovo adempimento è stato introdotto nell’ultima legge di Bilancio e sarà applicato sui danni a terreni e fabbricati, impianti e macchinari, nonché attrezzature industriali e commerciali. Ora si attendono i decreti attuativi, che dovranno avviare l’operatività del provvedimento e soprattutto si dovrà capire il prezzo del premio che dovranno pagare le società. Le aziende, specie le pmi, e le assicurazioni sono pronte? E’ stato questo il tema al centro di un dibattito all’interno dell’evento ‘#GEF24-Green Economy Finance’, organizzato da Withub, insieme a Eunews, GEA-Green Economy Agency e Fondazione Art.49 a Roma, nella sede di Europa Experience intitolata a David Sassoli.

Attualmente l’Italia sconta fra i più alti divari di protezione e la più alta esposizione ai rischi, rispetto alla scarsa propensione assicurativa: il nostro Paese è 25esimo nell’area Ocse nel ramo danni con l’1,9% del Pil assicurato, contro una media Ocse che è oltre due volte tanto. Eppure nel nostro Paese, facendo il conto degli ultimi dieci anni, il valore delle perdite causate dai disastri naturali è pari a 35 miliardi di dollari. Come mai questo gap? “C’è un problema di analfabetismo assicurativo. Le carenze sono pronunciate. Questo elemento fa sì che non si sappia valutare il rischio che si sta affrontando”, ha sottolineato Riccardo Cesari, componente del Consiglio Ivass. “Si pensa che gli eventi catastrofici ci siano ma non ci riguardino”, ha rimarcato. In effetti “c’è un grande lavoro di educazione da fare, perché assicurarsi è un tema di buona gestione, essere assicurati significa evitare il rischio che in caso di evento avverso ci sia un problema di solvibilità”, ha aggiunto Francesca Brunori, direttrice Credito e Finanza di Confindustria, spiegando come la decisione delle imprese di non assicurarsi contro gli eventi climatici nel 60% dei casi è dovuta alla percezione di “un costo eccessivo”, nel 40% per la “mancanza di informazioni adeguate”. Detto ciò “l’approccio della nuova polizza è stato affrettato”. Dunque “è molto importante che si arrivi a una definizione di uno schema di assicurazione obbligatoria – al quale si sta lavorando in queste settimane, lo stanno facendo le istituzioni, il Mef, il Mimit, l’Ivass, Ania e Sace – che consenta di far funzionare un vero effetto di mutualità tale da permettere di contenere i premi su questa assicurazione obbligatoria. Solo con premi sostenibili – ha rimarcato Brunori – il sistema potrà facilmente avvicinarsi all’assicurazione obbligatoria e comprendere che si tratta anche un tema di convenienze economica per loro: sei protetto dal rischio e eviti di dover sostenere un esborso importante in caso di evento avverso che non hai preventivato“.

Maria Siclari, direttrice generale di Ispra, ha sciorinato tutti i numeri del dissesto idrogeologico. Ad esempio, ci sono 225.874 unità locali di impresa in aree a rischio elevato di alluvione.

La polizza obbligatoria che scatterà entro fine anno, ha spiegato Dario Focarelli, direttore generale di Ania, riguarderà solo “terremoti, alluvioni o esondazioni, e frane”. Tuttavia “ci sono alcune zone tecnicamente inassicurabili, come i Campi Flegrei. Nessun assicuratore al mondo assicura il bradisismo. Ci sono rischi che gli assicuratori già valutano come non assicurabili. Questo socialmente è un punto rilevante“, ha specificato. Tutte le altre aziende invece dovranno pagare un premio assicurativo. A quanto ammonterà? “Stiamo facendo una marea di calcoli. Dipenderà da chi si assicurerà sia l’esposizione al rischio delle compagnie sia il prezzo della copertura assicurativa. Sono solo ipotesi, finché non vedremo chi sono gli assicurati”, ha evidenziato ancora Focarelli. “Avremo un prezzo differente a seconda se il rischio sarà diversificato o se ogni compagnia terrà il rischio in capo a se stessa. Il nostro obiettivo è avere il rischio più diversificato possibile, il prezzo più basso possibile, dare la maggior protezione alle imprese italiane”. Quando ci saranno novità? “A settembre-ottobre le compagnie stabiliranno con i riassicuratori” i costi che potranno essere coperti. Solo allora si avrà un range di prezzo della nuova polizza contro i danni catastrofali.

Sostenibilità, Siclari: “Ispra può assicurare dati ambientali ad aziende e investitori”

Non abbiamo formulato nuovi indicati, ma per ognuno dei fattori ambientali abbiamo dato una metodologia di determinazione, ma rendendo disponibili tutta una serie di dati che non sono solamente di primo livello, ma anche maggiormente dettagliati. Lo faremo per la gestione dei rifiuti, per il livello delle emissioni, per la tutela delle acque, per la salvaguardia della biodiversità. Senza spoilerare la presentazione del documento, che sarà un po’ tecnico e verrà fatto il 22, siamo in grado non solo di assicurare questa copertura di dati o indicare alle imprese investitori dove trovarli, ma per la mole di progetti che stiamo realizzando, ma di acquisire e avere molti altri dati“. Lo dice la direttrice generale di IspraMaria Siclari, ai microfoni del #GeaTalk. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il prossimo 22 maggio, alla sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio, dei ministri, organizza il convegno ‘La sfida ambientale per la finanza sostenibile’, in cui metterà a confronto i vari player sulle nuove regole Ue in materia di sostenibilità. “Penso ai cambiamenti climatici, ai modelli per la previsione dei cambiamenti climatici, perché Ispra sta sviluppando il più grande progetto di tutela e mappatura della biodiversità marina, che si chiama Mer (Marine ecosystem restoration): parliamo di progetto di 400 milioni di euro, importante per la ricaduta sul nostro Paese dal 2026 in poi“.

Green Deal, Siclari (Ispra): Servono capitali privati per investimenti sostenibili

Dal Green Deal è emerso chiaramente che se vogliamo raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica non bastano le risorse del Pnrr, ma occorre mettere a disposizione i capitali privati verso investimenti che siano sostenibili, quindi in grado di creare valore non per l’investitore, ma per tutta la società“. Lo dice la direttrice generale di Ispra, Maria Siclari, ai microfoni del #GeaTalk. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il prossimo 22 maggio, alla sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio, dei ministri, organizza il convegno ‘La sfida ambientale per la finanza sostenibile’, in cui metterà a confronto i vari player sulle nuove regole Ue in materia di sostenibilità. “In sintesi, gli asset verso i quali si devono muovere questi investimenti sono quelli dell’incentivazione all’economia circolare, della salvaguardia della biodiversità, del cercare di contenere l’inquinamento, di realizzare veramente una transizione climatica, che significa anche verificare il livello delle emissioni”, aggiunge. “Quindi, quando un’azienda ha bisogno non solo di rappresentare i valori economici ma, ad esempio, il consumo dell’acqua, il livello delle emissioni o ancora la gestione dei rifiuti, ha bisogno di una guida metodologica che sia in grado di rappresentarla al meglio – continua Siclari -. Perché in questo momento bisogna garantire l’affidabilità e la credibilità delle informazioni che vengono rese, quindi c’è la necessità che questo riferimento avvenga da un’istituzione terza rispetto alle autorità di vigilanza, le imprese e agli investitori. E soprattutto un’istituzione che nei suoi compiti istituzionali raccoglie queste informazioni“.

Siclari (Ispra) al #GeaTalk: “Imprese vanno accompagnate rispettando ambiente”

La sostenibilità è una delle nuove sfide che la finanza, così come il mondo delle imprese, devono necessariamente vincere. Anche le istituzioni, europee e internazionali, si sono attivate per portare la legislazione al passo con i tempi, ma come spesso accade non tutto fila liscio. Ci sono nuovi indicatori da rispettare, imposti dalla Commissione Ue, ai quali il mondo imprenditoriale deve adeguarsi, non senza qualche difficoltà. Ed è questa la ragione per cui l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha deciso di mettere al servizio di un pezzo importante di società la propria conoscenza, i propri dati e la propria disponibilità. Un momento di confronto importante sarà il il prossimo 22 maggio, alla sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei ministri, a Roma, al convegno ‘La sfida ambientale per la finanza sostenibile’. La direttrice generale di Ispra, Maria Siclari, ne parla al #GeaTalk (clicca qui per vedere l’intervista integrale).

Direttrice, il vostro istituto si è assunto un compito complicato ma molto importante.

La Commissione europea ha ritenuto di intervenire per fare un po’ di chiarezza nel quadro normativo comunitario, per capire esattamente cosa è sostenibile e cosa non lo è. Rispetto a questi nuovi adempimenti che vengono richiesti alle imprese e agli investitori, noi che ci occupiamo di ambiente e non di finanza, dunque qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entriamo, rispondo che abbiamo i dati, le informazioni ambientali e statistiche, ma soprattutto sappiamo come quelle informazioni ambientali devono essere trattate. Dunque, nel momento in cui viene richiesto alle imprese e agli investitori la rendicontazione di sostenibilità, che è un nuovo adempimento, Ispra è in grado di dare anche un supporto tecnico-metodologico per comprendere le informazioni ambientali e rappresentarle nei propri bilanci“.

L’Italia a che punto è sulla sostenibilità?

Siamo avanti. Il nostro è il primo Paese europeo che ha un’istituzione pubblica scesa in campo per dare un supporto tecnico, che noi non chiamiamo né linea guida, né raccomandazione, quindi non vincolante per il mondo delle imprese. Sentivamo il dovere di farlo per un motivo semplice: gli indicatori sono già tracciati dalla normativa comunitaria, ma dagli interlocutori che sono venuti da noi abbiamo capito che erano in difficoltà a capire come quell’indicatore deve essere popolato. Alle imprese e agli investitori diciamo di procedere a una autovalutazione, perché alcune di queste informazioni ce le hanno già nei loro bilanci, mentre altre si possono reperire fuori. E allora pensino alle nostre informazioni”.

Troppo spesso, ancora, si pensa che essere sostenibili sia ridurre, o addirittura azzerare, le spese e quindi gli investimenti.

Sfatiamo i falsi miti. Finanza sostenibile vuol dire che il mondo finanziario è al servizio del concetto di sviluppo sostenibile dato dall’Agenda 2030 dell’Onu. Il messaggio che dobbiamo mandare è che le imprese e le istituzioni vanno accompagnate nel percorso per raggiungere questi obiettivi, che si possono ottenere anche rispettando l’ambiente. Anzi, mi sento dire: soprattutto rispettando l’ambiente, nel momento in cui abbiamo un grande vantaggio, la conoscenza e lo sviluppo tecnologico. Quindi non è un processo che arresterà lo sviluppo del nostro Paese”.

Ma come si abbattono le vecchie barriere ideologiche?

Il mondo della finanza sostenibile nasce per questa motivazione: ci si è resi conto che il pubblico, ma anche le stesse misure del Pnrr, non erano sufficienti. Bisognava far muovere i capitali privati. Il senso non è quello di arrivare a dimostrare di essere ‘green a ogni costo’, ma fare delle cose buone per il nostro Paese avendo cura di rispettare l’ambiente. Certo, la partita adesso è importante, perché o l’impresa è in grado di dimostrare questa sostenibilità o rischia di perdere la capacità di ottenere anche un credito. E’ rilevante, ma siamo nelle condizioni di poterla giocare senza sforzare le imprese nel mondo finanziario. Bisogna, però, cominciare a raccontarlo bene questo ambiente e metterci al fianco delle imprese e degli operatori finanziari, per dire esattamente qual è la strada da seguire“.

Almeno il concetto di ESG sembra ormai essere passato, è d’accordo?

Finalmente mi sento di dire che un’impresa, un’istituzione finanziaria deve essere capace, in un orizzonte che non è più a breve termine ma di medio-lungo termine, di integrare alle analisi finanziaria e ambientale anche quelle sociale. Naturalmente, noi mettiamo a disposizione tutta la competenza e la conoscenza e siamo pronti al confronto. Ma che ci sia anche la parte della governance e quella sociale è il salto di qualità che non solo l’Italia, ma il contesto comunitario e internazionale ormai ci chiede”.

Tra poche settimane si vota per le elezioni europee. Cosa si aspetta dalla nuova Ue?

Penso che ci sia un percorso già attivato e che non si potrà interrompere. Vedremo poi come verrà declinato esattamente nei provvedimenti normativi, che avranno una ricaduta su ciascuno degli Stati membri. Ma è un percorso non solo europeo. Anche l’accordo di Parigi nasce da tutti gli Stati che si danno un obiettivo comune di mantenere l’innalzamento della temperatura media globale sui due gradi. Quindi, non è tanto il risultato complessivo ma la strada comune che è stata intrapresa. E io vedo che ormai c’è una maturità su una serie di tematiche, rispetto alle quali anche la nuova Europa, i nuovi organismi che si costituiranno, non potranno fare un passo indietro“.

suolo

La mappa del consumo di suolo italiano: dove stiamo perdendo terreno

Nell’ultimo anno in Italia sono stati consumati 21 ettari di suolo al giorno, il valore più alto degli ultimi 11 anni. Per rimpiazzare ciò che il terreno forniva naturalmente (come la regolazione del microclima e del regime idrogeologico, la produzione agricola o lo stoccaggio di CO2) abbiamo speso circa 20 miliardi dal 2006. Da oggi ci costerà 9 miliardi l’anno.

Perdiamo una risorsa fragile e limitata, fondamentale in un Paese caratterizzato da forte dissesto idrogeologico. E la perdiamo a ritmi mai visti in tempi recenti: secondo l’ultimo rapporto Ispra e Snpa sul consumo di suolo, nel 2022 sono stati consumati 76,8 km2, il 10,2% in più rispetto al 2021.

Quando si parla di consumo, si intende la perdita parziale o irreversibile di questa risorsa, dovuta principalmente all’occupazione di superfici in origine agricole, naturali o seminaturali: si tratta quindi, per la maggior parte, di coperture artificiali, dovute alla costruzione di nuovi edifici e infrastrutture.

Ma la causa non è soltanto il cemento portato dall’espansione delle città: tra le motivazioni ci sono anche le coltivazioni che degradano il terreno agricolo da un punto di vista fisico, chimico e biologico giocando un ruolo importante nel deterioramento del suolo, così come gli scavi di cave e miniere.

I problemi che ne conseguono sono diversi.

Quello più dannoso è l’impermeabilizzazione: l’acqua non viene assorbita ma resta invece in superficie, e, accumulandosi, rende particolarmente grave una caduta intensa di piogge. L’alluvione in Emilia Romagna, terza regione per consumo di suolo, è il caso più emblematico.

Un altro pericolo, forse più nascosto, è legato all’utilizzo di aree naturali e agricole per la costruzione di unità abitative. In un contesto di crescita demografica in negativo da decenni, molte case resteranno, con ogni probabilità, vuote, trasformandosi presto in ruderi.

Questa mappa interattiva, elaborata da GEA sui dati di Ispra e Snpa, nella prima visualizzazione mostra le aree che, in percentuale, soffrono in maggior misura di questo problema. La seconda, invece, evidenzia i comuni che dal 2006 (anno in cui è iniziato il monitoraggio) a oggi hanno aumentato, sempre in percentuale, il suolo consumato. È possibile digitare il nome del proprio comune.

La prima mappa mostra la distribuzione dell’urbanistica italiana. “In 15 regioni il suolo consumato stimato al 2022 supera il 5%” si legge infatti nel rapporto, “con i valori percentuali più elevati in Lombardia (12,16%), Veneto (11,88%) e Campania (10,52%). La Lombardia detiene il primato anche in termini assoluti, con oltre 290mila ettari di territorio artificializzati (il 13,5% del suolo consumato in Italia è in questa regione)”.

In termini di incremento percentuale, ovvero la seconda visualizzazione, i valori più elevati sono quelli di Puglia, Sardegna e Sicilia.

Le cause sono difficili da ricollegare a un singolo fattore, in quanto sono spesso legate a motivazioni specifiche e locali.

Volendo però cercare qualche elemento di sintesi, in Puglia, molti comuni hanno avuto un incremento prevalentemente legato all’edilizia e allo sviluppo turistico, ma anche alla realizzazione impianti fotovoltaici a terra di tipo tradizionale realizzati su aree agricole.

Al Nord, invece, la crescita più elevata si evidenzia, in particolare, nei comuni dove maggiore è stato l’impatto di nuove infrastrutture (per esempio la Brebemi o la Pedemonontana) o di nuovi poli legati alla logistica (spesso a loro volta collocati lungo i principali assi infrastrutturali).

In ogni caso, la scelta di analizzare l’incremento percentuale evidenzia in maniera particolare le trasformazioni dei piccoli comuni: è il caso, per esempio, di San Floro, in provincia di Catanzaro, che dal 2006 a oggi ha aumentato del 96,33% il proprio suolo consumato, a causa di un’ampia zona agricola destinata a impianti fotovoltaici, e dell’apertura di una nuova area estrattiva.

Le zone a rischio idrico: cerca il tuo comune sulla mappa interattiva

Il 93,9% dei comuni italiani è a rischio per frane, alluvioni o erosione costiera. Lo dicono i dati Ispra, che segnalano il quadro di pericolo idrogeologico per l’intero territorio nazionale. Inoltre, secondo Legambiente, dal 2010 al 31 agosto 2023 il 67% dei 1.855 eventi meteorologici estremi avvenuti in Italia ha avuto per protagonista l’acqua. Nonostante la fragilità del territorio, se si considerano singolarmente le diverse problematiche, le zone maggiormente colpite si concentrano in aree circoscritte, accomunate dalle stesse caratteristiche. E quindi, possibilmente, anche dalle stesse strategie di intervento.

Questo è evidente nella mappa interattiva, elaborata da GEA su dati Ispra, che mostra comune per comune la percentuale di territorio a rischio alluvione.

Lo studio suddivide le zone in tre categorie: con probabilità di alluvione elevata, media o bassa. Nella prima mappa, sono evidenziate le aree (16.223,9 km2, il 5,4% del territorio nazionale) che potrebbero allagarsi più frequentemente. Con un periodo di ritorno – la grandezza statistica che misura la probabilità di un evento estremo – compreso tra 20 e 50 anni. Le zone a media probabilità (30.195,6 km2, il 10% del totale) sono quelle che presentano una possibilità moderata di inondazioni, con tempi di ritorno tra i 100 e 200 anni. L’ultima categoria individua territori (42.375,7 km2, il 14%) che potrebbero essere colpiti da eventi alluvionali estremi con tempi di ritorno superiori a 200 anni. I dati delle tre mappe non vanno sommati: le zone con bassa probabilità di alluvione rappresentano la massima estensione dei territori allagabili.

I comuni del fiorentino e della Romagna, protagonisti delle alluvioni del 2023, sono evidentemente fra quelli più a rischio a livello nazionale. Per fare un esempio, il 100% del territorio di Campi Bisenzio è a rischio alluvione. Il rischio è che questi fenomeni crescano in termini di frequenza e intensità all’aumentare della temperatura media. I comuni del fiorentino e della Romagna, protagonisti delle alluvioni del 2023, sono evidentemente fra quelli più a rischio a livello nazionale. Per fare un esempio, il 100% del territorio di Campi Bisenzio è a rischio alluvione. Il rischio è che questi fenomeni crescano in termini di frequenza e intensità all’aumentare della temperatura media.

Gli avvertimenti dell’Ispra in Toscana e la ‘tara antropologica’ di Musumeci

Era maggio, si dibatteva del disastro in Emilia Romagna e l’Ispra aveva redatto una mappatura dei comuni a rischio alluvione – tra gli altri – in Toscana. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale aveva avvisato che il pericolo alluvioni riguardava il 100% dei residenti a Pisa e Cascina, a Chiesina Uzzanese, Ponte Buggianese e Agliana in provincia di Pistoia, a Campi Bisenzio in provincia di Firenze. Il tutto arricchito da una interessante e dettagliatissima mappa interattiva: usavi il cursore, puntavi una provincia e saltava fuori il numero della paura. Prato? Quota della popolazione esposta al rischio di alluvione il 96,1%. Scandicci? 92%. E così via fino al 100% di Campi di Bisenzio. Non proprio imprevedibile, insomma, come una nevicata a Rio de Janeiro. Semplicemente e tragicamente è venuta giù l’iradiddio di acqua in Toscana e quei comuni attenzionati sono andati sotto. Fine.

Senza girarci troppo intorno, la domanda che sorge spontanea è questa, così automatica da sembrare banale: cosa si è fatto da maggio a oggi? Che tipo di precauzioni si sono prese per evitare che la Toscana diventasse l’Emilia Romagna di questo umido autunno? Nulla, pare di capire. E allora per rispondere a una domanda che rischia di rimanere sospesa nell’aria come i palloni aerostatici, prendiamo a prestito una frase pronunciata dal ministro per la Protezione civile e per il Mare, Nello Musumeci. Dice il ministro: “Serve un’educazione ambientale, serve la cultura del rischio. Quella della prevenzione è un mio chiodo fisso. Noi siamo abituati a ricostruire, non a prevenire. E’ una tara antropologica”.

Questa ‘tara’, quella tendenza al non prevenire, per adesso ha fatto cinque morti in Toscana. E a questa ‘tara’ crediamo che qualcuno debba porre rimedio subito, non tra un anno, non tra qualche mese, non dopo. Perché il climate change c’è, perché ogni settimana siamo testimoni di una tropicalizzazione del meteo, perché se è importante costruire ponti sul futuro è determinante avere cura di cosa c’è già per evitare che una provincia, una regione, una nazione si trovi con le ginocchia nell’acqua oltre al contrario. Liguria, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Calabria sono le regioni che non possono vivere a cuor leggero il dissesto idrogeologico. Sarebbe auspicabile non dover più citare Fabrizio De André: “Lo Stato che fa/si costerna/s’indigna/s’impegna/poi getta la spugna con gran dignità“.

Ricci di mare sentinelle del cambiamento climatico: colpa di inquinamento e acidificazione

Photocredit: Ispra

I ricci di mare sono diventati più sensibili all’inquinamento di rame a causa dei cambiamenti climatici e dell’acidificazione del Mediterraneo. Il gruppo di ricerca Ispra con sede a Livorno, in collaborazione con una ricercatrice dell’Università di Nottingham, ha pubblicato su Marine Pollution Bulletin i risultati di una attività di laboratorio ventennale condotta utilizzando il riccio di mare. I dati hanno dimostrato come i cambiamenti climatici e l’acidificazione degli oceani, che sta già avvenendo nel mar Mediterraneo, abbiano causato una riduzione della tolleranza di una popolazione naturale di riccio alla tossicità del rame. Tale conclusione, spiegano i ricercatori, “supporta la necessità di rivalutare le conoscenze che oggi abbiamo dei contaminanti ambientali nel contesto dei futuri cambiamenti dell’ambiente”.

Il Mar Mediterraneo, infatti, rappresenta un laboratorio naturale per dedurre i possibili impatti dei cambiamenti climatici e dell’acidificazione degli oceani. La ricerca ha mostrato peggioramento della capacità delle larve di riccio di mare (Paracentrotus lividus) di far fronte alla tossicità del rame negli ultimi 20 anni. A partire dalle misurazioni satellitari, gli esperti hanno valutato l’influenza di 5 fattori ambientali, cioè pH, salinità temperatura, CO2 e ossigeno. Considerando il continuo aumento delle concentrazioni di CO2 registrato di recente, questo studio potrebbe rivelare un rapido deterioramento delle condizioni di salute della popolazione di Ricci di mare in un ecosistema costiero.

Circa il 30% della CO2 antropogenica è stato assorbito dalla superficie dei mari e degli oceani e a ciò consegue l’alterazione della composizione chimica dell’acqua marina. Dall’inizio dell’era industriale, il pH degli oceani si è abbassato di circa 0.1-0.15 unità e questo calo corrisponde ad un aumento in concentrazione di circa il 30% di ioni idrogeno e quindi ad un forte aumento dell’acidità dell’acqua. Se non verranno apportate sostanziali restrizioni delle emissioni, la concentrazione di CO2atmosferica potrebbe arrivare attorno alle 450 parti per milione (ppm) entro il 2100. Oggi siamo arrivati al valore di 410 ppm, partendo da 280 ppm dell’era pre-industriale. Si prevede che gli oceani saranno progressivamente più acidi ed il loro pH si abbasserà di 0.4 unità entro il 2100, passando da circa 8.1 a circa 7.7.

I Ricci di mare sono considerati una specie “modello” per lo studio dei cambiamenti climatici, anche perché hanno una funzione fondamentale per gli ecosistemi marini. Sono moltissime le ricerche che analizzano l’effetto antropico su questa specie e tutti mostrano impatti molto forti: si va da anomalie della crescita delle larve a ritardi nello sviluppo.

Dopo la pandemia crescono i rifiuti speciali, oltre +12%

Dopo lo stop delle attività economiche dovuto alla pandemia, nel 2021 cresce significativamente la produzione dei rifiuti speciali, che raggiunge 165 milioni di tonnellate. L’aumento, del 12,2%, corrisponde a circa 18 milioni di tonnellate. A segnalarlo è l’Ispra, nel rapporto annuale sui rifiuti speciali. Il dossier, predisposto dal Centro Nazionale dei rifiuti e dell’economia circolare in collaborazione con le Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell’ambiente, esamina oltre 60 indicatori elaborati a livello nazionale, di macroarea geografica e regionale, per attività economica e per tipologia di rifiuto.

Intanto, l’Italia è un importatore netto di rifiuti. Vengono importate circa 7,4 milioni di tonnellate a fronte di un’esportazione di poco superiore a 3,9 milioni di tonnellate. Il 98,7% dei rifiuti importati (circa 7,3 milioni di tonnellate) è costituito da rifiuti non pericolosi e il restante 1,3% (98 mila tonnellate) da rifiuti pericolosi. In particolare, importiamo rottami metallici provenienti dalla Germania (1,9 milioni di tonnellate) e dalla Francia (399 mila tonnellate di rifiuti) recuperati dalle industrie metallurgiche localizzate in Lombardia e in Friuli-Venezia Giulia. Dalla Svizzera provengono 432 mila tonnellate di terre e rocce destinate per la quasi totalità in Lombardia in attività di recupero ambientale.

Il 67% (2,6 milioni di tonnellate) dei rifiuti esportati è costituito da quelli non pericolosi ed il restante 33% (circa 1,3 milioni di tonnellate) da pericolosi. Esportiamo prevalentemente in Germania (831 mila tonnellate di cui 582 mila tonnellate pericolosi), rifiuti prodotti da impianti di trattamento (270 mila tonnellate) e dalle attività di costruzione e demolizione (266 mila tonnellate). Quasi la metà di rifiuti speciali (47,7%) proviene dalle attività di costruzione e demolizione (78,7 milioni di tonnellate), settore che si conferma come il principale nella produzione totale. Per questa tipologia è significativa la percentuale di riciclo (80,1%) superando ampiamente l’obiettivo del 70% fissato dalla normativa al 2020. Il recupero riguarda prevalentemente la produzione di rilevati e sottofondi stradali.

In generale la gestione dei rifiuti speciali è attuata da oltre 10 mila impianti presenti in Italia (5.928 sono situati al Nord, 1.899 al Centro e 2.936 al Sud). Si recupera materia dal 72,1% degli speciali e solo il 5,7% del totale gestito prevede lo smaltimento in discarica (10,2 milioni di tonnellate). Le regioni che producono più rifiuti speciali sono Lombardia (37,4 milioni di tonnellate), Veneto (18 milioni) ed Emilia Romagna (14,6 milioni). Al Centro la maggiore produzione è nel Lazio (10,2) e al Sud in Puglia (11,4).

Il rapporto fornisce anche i dati sui flussi di rifiuti che, per quantità o complessità, presentano le maggiori criticità gestionali. Per quanto riguarda l’amianto, i quantitativi di rifiuti che lo contengono prodotti in Italia sono pari a 339 mila tonnellate con una diminuzione, rispetto al 2020, del 12,2%. “Non si rileva, in generale, un’attività sistematica di decontaminazione delle infrastrutture presenti sul territorio, da cui dovrebbe derivare una progressiva crescita della produzione di questi rifiuti”, denuncia Ispra.
Sui veicoli fuori uso la filiera raggiunge una percentuale di reimpiego e riciclaggio pari all’84,3% del peso medio del veicolo, leggermente sotto il target dell’85% previsto per il 2015 dalla normativa. Il recupero totale, per il quale è fissato un obiettivo del 95%, non viene conseguito non essendo effettuato il recupero energetico di nessuna delle frazioni derivanti dal trattamento dei veicoli.

I quantitativi di fanghi dal trattamento delle acque reflue urbane prodotti sul territorio nazionale sono pari a poco più di 3,2 milioni di tonnellate con una contrazione del 4,5% rispetto al 2020. Il 52,3% del totale gestito è avviato a smaltimento e il 45,6% a recupero. Per i fanghi di depurazione il Programma nazionale di gestione dei rifiuti ha individuato la necessità di implementare tecnologie di recupero anche di tipo energetico.

Quanto ai rifiuti sanitari prodotti in Italia, sono pari a oltre 265 mila tonnellate, di cui circa 239 mila tonnellate di rifiuti pericolosi. Per questi ultimi si rileva una crescita del +14% rispetto al 2020. Le operazioni di gestione volte allo smaltimento dei rifiuti rappresentano circa il 75% del totale. La normativa di settore, che privilegia le operazioni di smaltimento, è comunque ormai datata e potrebbe essere aggiornata favorendo, ove possibile, forme sicure di recupero.

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