Allarme climatico di Coldiretti: -32% produzione di olio d’oliva a causa della siccità

La produzione di olio d’oliva italiano è attesa in calo di circa il 32% a causa della siccità che ha colpito le principali regioni produttrici, come Puglia e Sicilia. Questo allarmante dato è stato presentato da Coldiretti, Unaprol e Ismea durante il G7 dell’Agricoltura a Siracusa, in coincidenza con l’avvio della raccolta, anticipata di 15-20 giorni a causa delle temperature record che hanno accelerato la maturazione delle olive. Le stime per il 2024 indicano una produzione di circa 224 milioni di kg di olio d’oliva, un dato che relegherebbe l’Italia al quinto posto nella classifica dei maggiori produttori mondiali.

A pesare su questa situazione è soprattutto il crollo della produzione in Puglia, che da sola rappresenta circa un terzo degli uliveti nazionali. Qui, la fioritura e l’allegagione sono state scarse, con piante che hanno subito stress idrico a causa delle scarse piogge estive e delle alte temperature. Anche in Calabria e Sicilia la situazione è critica, sebbene le perdite siano meno gravi rispetto a quelle della Puglia. In Calabria, l’assenza di piogge ha aggravato lo stress idrico, con una caduta precoce delle olive nei frutteti più giovani. In Sicilia, sebbene la fioritura sia stata buona, una parte della produzione si è persa a causa della cascola dei frutticini, accentuata dalla siccità di agosto

Tuttavia, non tutte le notizie sono negative. Le regioni del Nord e del Centro Italia hanno registrato un incremento record della produzione, con un aumento rispettivo del 75% e del 70% rispetto a un 2023 deficitario. Inoltre, la qualità dell’olio d’oliva italiano si preannuncia ottima – evidenzia l’analisi – grazie “all’impegno delle circa 400.000 aziende agricole nazionali che producono un olio di alta qualità. L’Italia continua a mantenere la leadership in Europa per il numero di oli extravergine a denominazione di origine (43 Dop e 4 Igp), supportata da un patrimonio di 250 milioni di piante e 533 varietà di olive, rappresentando un tesoro di biodiversità unico al mondo”.

David Granieri, vicepresidente di Coldiretti e presidente di Unaprol, ha evidenziato come, nonostante la crisi, l’olio extravergine d’oliva 100% Made in Italy sia stato l’unico a vedere un incremento nei consumi lo scorso anno. “Un risultato che evidenzia come il nostro Evo non debba essere considerato più una commodity legata alla logica del prezzo, ma un vero e proprio alimento, che peraltro innumerevoli studi indicano come prezioso elisir di lunga vita, oltre che caposaldo della Dieta Mediterranea. Da qui la necessità di tenere alta la guardia contro ogni tentativo di speculazione che possono trovare terreno fertile – sottolinea Granieri – nella scarsità di prodotto a livello mondiale, nell’inevitabile incremento delle quotazioni e nella riduzione del differenziale di prezzo tra l’olio extravergine italiano e quello dei principali paesi produttori”. In questo contesto, Unaprol e Coldiretti si stanno adoperando per combattere le frodi, che tendono ad aumentare in periodi appunto di scarsità. Le due associazioni hanno proposto di abbassare i parametri di acidità per l’olio extravergine d’oliva da 0,8% a 0,5% e hanno lavorato per un nuovo decreto sulla registrazione delle olive, aumentando trasparenza e tracciabilità nel mercato.

Resta però il tema dei cambiamenti climatici. Coldiretti e Unaprol chiedono dunque un’accelerazione nei piani per la gestione della risorsa idrica per realizzare “invasi con pompaggi e cambiare passo per una gestione programmata dell’acqua, senza la quale anche l’olivicoltura italiana non può più garantire una produzione costante e di qualità”.

 

La crisi dell’olio d’oliva in Italia per colpa dei cambiamenti climatici

Alan Risolo ha un’espressione triste mentre contempla i suoi olivi spelacchiati, a circa quaranta chilometri a nord-est di Roma: i loro rami dovrebbero piegarsi sotto il peso delle olive, ma quest’anno i cambiamenti climatici hanno rovinato il suo raccolto. “La produzione è diminuita dell’80%“, dice amareggiato il 43enne barbuto agricoltore della Sabina, dove fin dall’epoca romana ulivi secolari e addirittura millenari dominano il paesaggio a perdita d’occhio. “Da qualche anno la nostra regione soffre molto dei cambiamenti climatici“, lamenta, riferendosi in particolare alle “piogge torrenziali” e ai “lunghissimi periodi di caldo che durano tutto l’autunno“. Per illustrare il suo punto di vista, indica un ramo con poche olive raggrinzite.

Poco distante, nel frantoio OP Lazio, sotto il paese di Palombara Sabina, gli operai sono impegnati a trasformare il magro raccolto in olio: le olive vengono lavate, schiacciate e trasformate in una pasta verdastra da cui si estrae il prezioso olio extravergine dal profumo intenso. “Nei mesi di aprile e maggio, che sono i mesi di massima fioritura, abbiamo avuto forti piogge che hanno spazzato via il polline, con il risultato che non c’erano frutti“, ha spiegato Stefano Cifeca, ingegnere agrario responsabile della qualità del frantoio, che è dotato di attrezzature all’avanguardia per servire i produttori della regione.

La Sabina non è l’unica regione colpita: la produzione nel centro e nel nord della penisola è crollata. La produzione nazionale è stata salvata dalla Puglia (il tacco dello stivale italiano), che rappresenta la metà dell’olio italiano, e dalla Calabria (la punta dello stivale). Secondo la Coldiretti, la principale organizzazione di rappresentanza del settore agricolo in Italia, la produzione nazionale di olio d’oliva per il 2023 sarà di 290.000 tonnellate, contro le 315.000 del 2022. Purtroppo questa carenza non è eccezionale, come sottolinea Alan Risolo: “Nel 2018 le gelate hanno azzerato la nostra produzione. Ci siamo ripresi a poco a poco, ma molto lentamente. E abbiamo dovuto affrontare altri problemi: la pioggia, il caldo, il cambiamento climatico, che nella nostra regione è diventato più grave“.

Per affrontare il cambiamento climatico, Unaprol, l’associazione nazionale che rappresenta i produttori di olio d’oliva, chiede “un piano strategico nazionale” per il risparmio idrico, il recupero dell’acqua piovana, la creazione di bacini di ritenzione, il riciclo dell’acqua e così via. Una visione condivisa a livello locale da Stefano Cifeca: “I fenomeni estremi causati dai cambiamenti climatici sono legati soprattutto all’assenza prolungata di pioggia per molti mesi: dobbiamo quindi cercare di intercettare le precipitazioni autunnali e invernali creando bacini di ritenzione per poter irrigare nei periodi di siccità“.

La posta in gioco è alta per l’Italia, che è il secondo produttore mondiale, molto dietro alla Spagna: secondo la Coldiretti, nella Penisola ci sono 150 milioni di ulivi, che rappresentano un fatturato annuo di tre miliardi di euro e danno da vivere a 400.000 imprese (aziende agricole, frantoi, aziende di trasformazione, ecc.). Per Alan Risolo, che è anche veterinario e quindi ha una seconda fonte di reddito, “il futuro dell’agricoltura è più che mai incerto perché non possiamo prevedere con precisione questi cambiamenti climatici“.

Di fronte a questa situazione, gli agricoltori potrebbero, ad esempio, “acquistare piante più resistenti al freddo o al caldo“, oppure “cambiare completamente il tipo di produzione“, suggerisce a malincuore. Stefano Cifeca non è ancora favorevole a questa soluzione radicale. “Per fortuna l’olivo è una pianta molto resistente che può adattarsi ai cambiamenti climatici e alle diverse regioni“, dice il cinquantenne dal sorriso contagioso, visto che gli olivi occupano l’80% della superficie agricola utilizzata in Sabina.

Oltre all’Italia, la produzione è diminuita anche a livello internazionale, in particolare in Spagna (-34% rispetto alla media dei quattro anni precedenti), con un conseguente aumento dei prezzi del 42%, secondo i dati pubblicati dalla Coldiretti a settembre.

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