Oltre 700 rifiuti ogni 100 metri di spiaggia. Preoccupa la plastica monouso

Ogni 100 metri di spiaggia lineare delle coste italiane ci sono 705 rifiuti. Lo rivela la nuova indagine Beach Litter di Legambiente, che ha analizzato 23.259 rifiuti trovati su 33 spiagge di 12 regioni italiane, per un totale di 179.000 metri quadri monitorati. Sul primo posto del podio dei materiali più diffusi trovati sulla sabbia c’è sempre la plastica, che rappresenta il 79,7%. Segue il vetro/ceramica con il 6,6%, il metallo presente per il 4,5% e carta/cartone con il 2,9%.

Nei primi cinque posti della classifica delle tipologie di rifiuti raccolti ci sono in testa i mozziconi di sigaretta. Sono 3.338 quelli raccolti (14,4% rispetto al totale), per una media di 101 cicche su 100 metri di spiaggia. A seguire 2.195 (9,4%) oggetti e frammenti di plastica di grandezza tra i 2,5 e i 50 cm, 1.566 (6,7%) di tappi e coperchi. Al quarto posto i materiali da costruzione con il 5,5% e al quinto le stoviglie usa e getta in plastica (4,2%).

E sono proprio i prodotti in plastica monouso a preoccupare di più, nonostante siano stati banditi dalla direttiva europea Single Use Plastics (SUP), in vigore in Italia dal 14 gennaio 2022. Questi oggetti insieme alle reti e attrezzi da pesca e acquacoltura, rappresentano ancora il 56,3% del totale dei rifiuti monitorati nel 2024, con un andamento dal 2014 ad oggi che non sembra mostrare segni di riduzione importanti.

“L’analisi dell’andamento dei prodotti messi al bando dalla direttiva europea sulla plastica monouso, effettuata dal 2014 ad oggi – spiega Elisa Scocchera dell’ufficio scientifico di Legambienteci rivela come l’incidenza di questa tipologia di rifiuti abbia oscillato da un minimo di 38,6% nel 2023 a un massimo di 56,3% nel 2024″. Per Legambiente, quindi, sarà necessario continuare a monitorare l’evoluzione di questa tendenza per capire la reale efficacia delle misure previste dalla direttiva sulla plastica monouso e di conseguenza per “intervenire in maniera mirata con azioni di prevenzione e corretta gestione dei rifiuti derivanti da questi prodotti”.

“I dati raccolti nella nostra annuale indagine sull’inquinamento di spiagge e arenili dovuto all’abbandono di rifiuti confermano quanto ancora siano necessarie le campagne di pulizia collettiva, visto il tendenziale aumento dei rifiuti dispersi nell’ambiente legato al consumo di cibo”, spiega Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. Dal 10 al 12 maggio, infatti, una ‘marea’ di volontari e volontarie invaderà le spiagge italiane equipaggiati di pinze raccogli-rifiuti e guanti, per partecipare in tutta Italia alle decine di iniziative di Spiagge e Fondali Puliti 2024, la storica campagna organizzata dal Cigno Verde e dai suoi circoli che da 34 anni coinvolge migliaia di persone in una mobilitazione collettiva di pulizia di spiagge e arenili.

Hong Kong mette al bando plastiche monouso: stop in ristoranti, takeaway e hotel

Una serie di oggetti di plastica monouso, comprese le posate, sono vietati da questa settimana nei 28mila ristoranti, takeaway e hotel di Hong Kong, che vuole contrastare la cultura del “tutto usa e getta”. A Hong Kong l’uso di stoviglie usa e getta – plastica, polistirolo, ecc. – è quasi sistematico. Nel 2021, nel territorio di circa 7,5 milioni di abitanti, vengono gettate ogni giorno 2.331 tonnellate di plastica, un peso equivalente a quello di 70 megattere. “Durante il periodo di adattamento (di sei mesi), i funzionari del dipartimento di protezione ambientale non applicheranno la legge alle aziende che non la rispettano“, ha detto Tse Chin-wan, segretario del Ministero dell’Ambiente. I trasgressori rischiano multe fino a 100.000 dollari di Hong Kong (12.000 euro).

In settimana, durante la pausa pranzo, nel quartiere commerciale di Wan Chai è continuata la vendita da asporto in contenitori di polistirolo. Wilson Tam, un impiegato, ha detto di sostenere la misura, ma di non aver portato la propria scatola. “È un po’ complicato lavare la scatola al lavoro”, ha detto.

Per i ristoranti e i locali che offrono cibo da asporto, la sostituzione delle posate di plastica con materiali ecologici come legno, bambù o carta rappresenta un costo aggiuntivo del 30%. Il divieto riguarda anche gli hotel ai quali non è più consentito fornire l’elenco degli articoli in plastica monouso: spazzolini da denti, cuffie per la doccia, flaconi di shampoo, pettini, ecc. e anche bottiglie d’acqua.

Per Jack Cheung, direttore del CTS HK Metropark Hotels Management, ci vorrà del tempo per cambiare gli articoli nelle circa 2.000 camere dei sette hotel del suo gruppo. Secondo lui, ciò rappresenterà un costo aggiuntivo dal 10 al 20%. “Ma pensiamo che ne valga la pena per l’ambiente e le generazioni future”. Hong Kong è già sopraffatta dai rifiuti: 13 discariche sono piene e si prevede che le ultime tre in funzione raggiungeranno la saturazione entro il 2030.

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Sul fondo dell’oceano 11 milioni di tonnellate di plastica. Ma potrebbero essere molte di più

Una nuova ricerca del Csiro, l’agenzia scientifica nazionale australiana, e dell’Università di Toronto, in Canada, stima che sul fondo dell’oceano giacciano fino a 11 milioni di tonnellate di inquinamento plastico. In sostanza è come se ogni minuto, un camion della spazzatura entrasse nell’oceano. Poiché si prevede che l’uso della plastica raddoppierà entro il 2040, capire come e dove viaggia è fondamentale per proteggere gli ecosistemi marini e la fauna selvatica.

Come spiega Denise Hardesty, ricercatrice senior del Csiro, questa è la prima stima di quanti rifiuti plastici finiscono sul fondo dell’oceano, dove si accumulano prima di essere scomposti in pezzi più piccoli e mescolati ai sedimenti. “Sappiamo che ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti plastici entrano nei nostri oceani, ma non sapevamo quanto di questo inquinamento finisse sui fondali”, dice l’esperta.

Mentre in passato sono state stimate le microplastiche presenti sui fondali marini, questa ricerca prende in esame gli oggetti più grandi, come reti, bicchieri e sacchetti. Secondo Alice Zhu, dottoranda dell’Università di Toronto che ha condotto lo studio, la stima dell’inquinamento da plastica sul fondo dell’oceano potrebbe essere fino a 100 volte superiore alla quantità di rifiuti che galleggiano sulla superficie. Il fondo sta quindi diventando un luogo di “riposo permanente”.

I risultati dello studio rivelano che la massa di plastica si concentra intorno ai continenti: circa la metà (46%) di quella prevista sul fondo oceanico globale risiede al di sopra dei 200 metri di profondità. Le profondità oceaniche, da 200 m a 11.000 m, contengono il resto della massa plastica prevista (54%).

L’articolo, ‘Plastics in the deep sea – A global estimate of the ocean floor reservoi’r, è stato pubblicato su Deep Sea Research Part I: Oceanographic Research Papers. Questa ricerca fa parte della missione Ending Plastic Waste del Csiro, che mira a cambiare il modo in cui produciamo, utilizziamo, ricicliamo e smaltiamo la plastica.

Moda più sostenibile con la pelle vegana senza plastica. E il merito è dei batteri

(Photo credit: Tom Ellis/Marcus Walker/Imperial College London)

Le alternative alla pelle animale, nell’ottica di una moda più sostenibile, finora non hanno dato grandi risultati, sia in termini di qualità sia di estetica. Spesso quella che viene definita ‘pelle vegana’ altro non è che plastica, lavorata in modo tale da assomigliare il più possibile alla pelle naturale, ma pur sempre inquinante. Ora i ricercatori dell’Imperial College di Londra hanno messo a punto un sistema in grado di ‘far crescere’ una pelle senza animali e senza plastica, capace di tingersi da sola. Merito di batteri ingegnerizzati.

Negli ultimi anni, scienziati e aziende hanno iniziato a utilizzare i microbi per la coltivazione di tessuti sostenibili o per la produzione di coloranti per l’industria, ma questa è la prima volta che sono stati ingegnerizzati per produrre contemporaneamente un materiale e il suo stesso pigmento. La tintura chimica sintetica è uno dei processi più tossici per l’ambiente nel settore della moda e i coloranti neri, soprattutto quelli usati per la pelle, sono particolarmente dannosi. I ricercatori dell’Imperial hanno deciso di utilizzare la biologia per risolvere il problema. Questo nuovo prodotto è già stato utilizzato per creare prototipi di scarpe e portafogli e secondo i ricercatori “rappresenta un passo avanti nella ricerca di una moda più sostenibile”.

Il nuovo processo, pubblicato sulla rivista Nature Biotechnology, potrebbe anche essere adattato teoricamente per produrre vari colori e motivi vivaci e per creare alternative più sostenibili ad altri tessuti come il cotone e il cashmere. Come spiega l’autore principale, Tom Ellis, del Dipartimento di Bioingegneria dell’Imperial College di Londra, la cellulosa batterica “è intrinsecamente vegana e la sua crescita richiede una minima parte delle emissioni di carbonio, dell’acqua, dell’uso del suolo e del tempo necessari per allevare mucche per la produzione di pelle”. A differenza delle alternative in pelle a base di plastica, può essere prodotta senza sostanze petrolchimiche e si biodegrada in modo sicuro e non tossico nell’ambiente.

Il team di ricerca ha già cominciato a lavorare con alcuni designer per far “crescere” la tomaia di una scarpa su uno stampo ad hoc. Dopo 14 giorni il prodotto ottenuto è stato ‘centrifugato’ a 30 gradi per 48 ore per attivare la produzione di pigmento nero da parte dei batteri. “Non vediamo l’ora di collaborare con l’industria della moda per rendere più ecologici gli abiti che indossiamo lungo tutta la linea di produzione”, dice Ellis. Gli autori hanno lavorato a stretto contatto con Modern Synthesis, un’azienda londinese di biodesign e materiali, specializzata in prodotti innovativi a base di cellulosa microbica.

Arrivano i pannolini plastic free creati con gli scarti alimentari

(Photo credit: Athanasios Latras)

Una volta gettati via, gli articoli usa e getta come pannolini e assorbenti possono impiegare centinaia di anni per decomporsi, perché contengono plastica e altri polimeri sintetici. Ma ora i ricercatori stanno sostituendo questi materiali con componenti porosi realizzati con biomasse proteiche spesso scartate dall’industria alimentare e agricola. Questi componenti sono sostenibili e biodegradabili e potrebbero consentire in futuro di gettare i pannolini e gli assorbenti nel water o di utilizzarli come fertilizzanti. Il ricercatore Antonio Capezza presenta i risultati oggi al meeting di primavera dell’American Chemical Society (ACS). Come ricorda lo scienziato, in Europa le normative scoraggiano l’uso di alcune plastiche a base di petrolio nei prodotti monouso. Tuttavia, non esistono linee guida o regolamenti chiari per vietare l’uso di queste plastiche nei pannolini o in altri articoli sanitari, perché non è ancora disponibile un valido sostituto. “Ma speriamo di cambiare questa situazione con i nostri materiali a base di proteine”, dice.

Naturalmente, i pannolini lavabili evitano del tutto il problema della plastica, ma secondo l’esperto sono pochi i caregiver che vogliono usarli. Il suo obiettivo è fornire un altro tipo di soluzione sostenibile e non inquinante alle persone che vogliono continuare a usare prodotti sanitari usa e getta.

Ironia della sorte, il progetto ha avuto origine da una dimostrazione volta a insegnare agli studenti cosa può andare storto in laboratorio. Capezza stava mostrando loro come realizzare filamenti di bioplastica utilizzando le proteine. Per simulare l’impatto dell’umidità indesiderata, ha aggiunto del cotone bagnato, che ha fatto schiumare la miscela. Una volta che il prodotto si è asciugato, si è reso conto che il materiale era diventato super poroso, cioè in grado di assorbire i liquidi come una spugna.

Alcune alternative ai prodotti sanitari in plastica sono già presenti sul mercato, ma si basano su cotone vergine e possono richiedere lo sbiancamento o altri trattamenti chimici per la loro produzione. Alla ricerca di una fonte di materiale più sostenibile, l’équipe di Capezza ha individuato proteine e altre molecole naturali che di fatto sono scarti della produzione alimentare e agricola e che altrimenti dovrebbero essere smaltiti in discarica o incenerite: per esempio, la zeina del mais, il glutine del grano e gli estratti naturali di antiossidanti.

I ricercatori hanno mescolato le proteine in proporzioni diverse e hanno aggiunto acqua e bicarbonati, come agenti schiumogeni; il dolcificante glicerolo come plastificante e gli estratti naturali come conservanti. Il team ha poi utilizzato attrezzature e tecniche di lavorazione dell’industria della plastica, tra cui l’estrusione, per produrre vari componenti che si trovano comunemente negli assorbenti e nei pannolini. Con questo sistema, i ricercatori hanno prodotto un materiale poroso e soffice con proprietà superassorbenti che cattura i liquidi.

Secondo Capezza, con ulteriori sviluppi si potrebbe arrivare a prodotti sanitari monouso che possono essere lavati. In alternativa, dopo l’uso, questi prodotti (o i rifiuti prodotti nella fase di fabbricazione) potrebbero essere compostati per fertilizzare colture, come mais e grano, che a loro volta fornirebbero i materiali di partenza per la produzione di nuovi prodotti sanitari. “Si tratta quindi di un progetto completamente circolare”, precisa l’esperto. I ricercatori hanno già dimostrato che le piante crescono con foglie e radici più lunghe quando sono esposte a questo compost.

L’équipe si sta ora preparando a condurre studi pilota per verificare la fattibilità di un aumento della produzione. Prima che questi prodotti possano essere immessi sul mercato, dovranno essere effettuate ulteriori valutazioni, tra cui test sulla cute umana.

Il viaggio mortale della plastica: nella pancia di una tartaruga il dito di una strega di Halloween

(Photo credit: University of Exeter)

Un viaggio lunghissimo, partito chissà dove e finito nel peggiore dei modi. C’era anche il dito di una strega – parte di un travestimento di Halloween – tra le centinaia di oggetti di plastica trovati nelle viscere di una delle decine di tartarughe morte nel Mediterraneo e analizzate dagli scienziati.

Il team di ricerca, guidato dall’Università di Exeter e dalla Società per la protezione delle tartarughe di Cipro Nord (SPOT), ha esaminato 135 tartarughe marine spiaggiate o uccise come “bycatch” (catture accidentali) nelle reti da pesca al largo di Cipro settentrionale. Oltre il 40% delle tartarughe conteneva macroplastiche (pezzi più grandi di 5 mm), tra cui tappi di bottiglia e un dito di gomma da strega.

Per i ricercatori le tartarughe marine sono una potenziale specie “bioindicatrice” che potrebbe aiutare a comprendere la portata e l’impatto dell’inquinamento da plastica. “Il viaggio di quel giocattolo di Halloween – dal costume di un bambino all’interno di una tartaruga marina – è uno sguardo affascinante sul ciclo di vita della plastica”, spiega Emily Duncan, del Centre for Ecology and Conservation del Penryn Campus di Exeter, in Cornovaglia. “Queste tartarughe si nutrono di prede gelatinose come le meduse e di prede del fondo marino come i crostacei, ed è facile capire come questo oggetto possa assomigliare a una chela di granchio”.

Lo studio ha trovato un totale di 492 pezzi di macroplastica, di cui 67 all’interno di una sola tartaruga. Le tartarughe hanno mostrato una “forte selettività” verso alcuni tipi, colori e forme di plastica.

“Quella che abbiamo trovato era in gran parte simile a fogli (62%), trasparente (41%) o bianca (25%) e i polimeri più comuni identificati erano il polipropilene (37%) e il polietilene (35%)”, riferisce Duncan. È probabile, quindi, che le tartarughe ingeriscano le plastiche più simili ai loro alimenti.

Le tartarughe oggetto dello studio sono state trovate in un periodo di 10 anni (2012-22) e l’incidenza dell’ingestione di macroplastica non è aumentata nel corso di questo periodo, ma è rimasta stabile. Lo studio fornisce informazioni fondamentali sull’inquinamento da plastica nel Mediterraneo orientale, ma sono necessarie ulteriori ricerche.

Fine dei negoziati sull’inquinamento da plastica: in Kenya regna il disaccordo

I negoziati internazionali per ridurre la proliferazione dei rifiuti di plastica si sono conclusi domenica in Kenya, in un contesto di disaccordo sulla portata del trattato e di frustrazione delle Ong ambientaliste per la mancanza di progressi concreti. I negoziatori provenienti da 175 Paesi hanno trascorso una settimana presso la sede del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) a Nairobi, cercando di trovare un terreno comune su una bozza di trattato volta a risolvere il crescente problema dell’inquinamento da plastica.

La posta in gioco in questi negoziati era alta, perché la plastica, un sottoprodotto dei prodotti petrolchimici, è ovunque: rifiuti di tutte le dimensioni si trovano già sul fondo degli oceani e sulle cime delle montagne. Microplastiche sono state rilevate anche nel sangue e nel latte materno. Sebbene le varie parti siano d’accordo sulla necessità di un trattato, ci sono divergenze di opinione sulla sostanza, con le Ong che chiedono una riduzione del 75% della produzione entro il 2040 e i Paesi produttori di petrolio e le lobby dell’industria della plastica che sostengono maggiormente il riciclo.

Al termine delle discussioni, l’Unep ha espresso soddisfazione per i progressi “sostanziali” compiuti grazie alla presenza di quasi 2.000 delegati. Durante questa settimana di negoziati, le delegazioni hanno messo sul tavolo “più idee, colmando le lacune (…) ora abbiamo un documento, una bozza di testo, che comprende molte più idee“, ha dichiarato all’AFP Stewart Harris, portavoce del Consiglio internazionale delle associazioni chimiche, un importante gruppo di pressione che difende gli interessi dell’industria della plastica. “Penso che sia stata una settimana utile“, ha dichiarato.

Diverse Ong ambientaliste hanno invece accusato alcuni Paesi, in particolare Iran, Arabia Saudita e Russia, di “ostruzionismo“. “Non sorprende che alcuni Paesi stiano bloccando i progressi, ricorrendo a manovre ostruzionistiche e procedurali”, ha dichiarato all’AFP Carroll Muffett, direttore del Center for International Environmental Law (CIEL). L’alleanza della società civile GAIA, da parte sua, ha accusato l’Unep di aver supervisionato “una riunione indisciplinata e tortuosa” che ha permesso a una minoranza di tenere “in ostaggio” i dibattiti. “Compromettere le esigenze di coloro che sono più colpiti per soddisfare i desideri di coloro che traggono profitto dal problema non è una strategia fattibile“, ha deplorato Graham Forbes di Greenpeace. Per le Ong, il tempo sta per scadere ed è necessario un trattato vincolante perché l’inquinamento da plastica è destinato a peggiorare: la produzione annuale è più che raddoppiata in vent’anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% della plastica viene riciclata. La plastica ha anche un ruolo nel riscaldamento globale: nel 2019 è stata responsabile del 3,4% delle emissioni globali, una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse.

Prima dei colloqui, circa 60 Paesi – guidati da Ruanda, Norvegia e Unione Europea – hanno espresso la loro preoccupazione per questa tendenza e hanno chiesto “disposizioni vincolanti nel trattato per limitare e ridurre il consumo e la produzione” di plastica. Ma durante le sessioni pubbliche, diversi Paesi si sono mostrati riluttanti a sostenere una riduzione della produzione di plastica e sono emerse divisioni anche sulla questione se il trattato debba essere vincolante o volontario. “Non siamo qui per porre fine alla plastica, ma per porre fine all’inquinamento da plastica“, ha dichiarato domenica dopo la sua elezione Luis Vayas Valdivieso dell’Ecuador, nuovo presidente del Comitato internazionale di negoziazione (INC), deplorando lo “spaventoso impatto” della plastica sull’ambiente.

La riunione di Nairobi è la terza di cinque sessioni di un processo accelerato volto a concludere i negoziati il prossimo anno. Dopo la capitale keniota, i negoziati proseguiranno nell’aprile 2024 in Canada, per poi concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. I negoziati di Nairobi precedono di poche settimane l’inizio della conferenza sul clima Cop 28 negli Emirati Arabi Uniti, che mira a ridurre le emissioni di gas serra e ad aiutare i Paesi in via di sviluppo a far fronte alle conseguenze del cambiamento climatico, dopo un anno segnato da eventi meteorologici devastanti.

In Kenya riprendono i negoziati sulla lotta all’inquinamento da plastica

Verso la fine dell’inquinamento da plastica? I rappresentanti di 175 Paesi si riuniscono da oggi in Kenya per negoziare per la prima volta misure concrete da includere in un trattato globale vincolante per porre fine ai rifiuti di plastica. I Paesi hanno concordato lo scorso anno di finalizzare un primo trattato globale per combattere il flagello della plastica entro la fine del 2024. La posta in gioco è alta, perché le plastiche petrolchimiche sono ovunque: rifiuti di tutte le dimensioni si trovano già sul fondo degli oceani e sulle cime delle montagne. Le microplastiche sono state rilevate nel sangue e nel latte materno. I negoziatori si sono già incontrati due volte, ma la riunione che si terrà dal 13 al 19 novembre a Nairobi, sede del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), è la prima occasione per discutere una bozza di trattato pubblicata a settembre che delinea i molti modi in cui il problema della plastica può essere risolto.

Esiste un ampio consenso sulla necessità di un trattato. Ma tra le politiche difese dai diversi Paesi, dagli ambientalisti e dall’industria della plastica, le posizioni divergono. “Questa è la grande battaglia a cui assisteremo“, spiega Eirik Lindebjerg dell’Ong Wwf, che sarà tra le migliaia di partecipanti ai negoziati. Diversi Paesi e Ong ambientaliste chiedono di vietare i prodotti di plastica monouso e di introdurre regole più severe, oltre ad altre misure “ambiziose“. Da parte loro, i produttori e i principali Paesi produttori si battono per il riciclaggio e una migliore gestione dei rifiuti.

La “bozza zero” mette sul tavolo tutte le opzioni. A seconda della direzione che prenderanno i negoziati, il trattato potrebbe essere un patto per la natura o “un accordo di comodo con l’industria della plastica“, ha avvertito in ottobre l’inviato speciale delle Nazioni Unite per gli oceani, Peter Thomson. L’inquinamento da plastica è destinato a peggiorare: la produzione annuale è più che raddoppiata in 20 anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate. Se non si interviene, potrebbe triplicare entro il 2060. Eppure solo il 9% viene riciclato. La plastica svolge anche un ruolo nel riscaldamento globale, rappresentando il 3,4% delle emissioni globali nel 2019, una cifra che potrebbe più che raddoppiare entro il 2060, secondo l’Ocse.

Prima delle discussioni a Nairobi, circa sessanta Paesi hanno espresso la loro preoccupazione per questa tendenza e hanno chiesto “disposizioni vincolanti nel trattato per limitare e ridurre il consumo e la produzione” di plastica. Graham Forbes, responsabile di Greenpeace, sostiene che il trattato avrà successo o fallirà “a seconda di come limiterà la produzione di plastica a monte”: “Non si può impedire che la vasca da bagno trabocchi finché non si chiude il rubinetto“, sostiene.

D’altra parte, molti Paesi – in particolare Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita e membri dell’Opec – sono riluttanti a prendere in considerazione un taglio della produzione. L’EPS Industry Alliance, un’associazione nordamericana che difende le aziende produttrici di polistirene espanso (spesso utilizzato negli Stati Uniti per i bicchieri da asporto), sostiene che non vi sia stata una sufficiente “revisione scientifica indipendente” del trattato, mettendo in guardia dalle “conseguenze indesiderate” di alcune proposte. “C’è un’enorme quantità di retorica intorno alla plastica che è infarcita dall’ideologia dell’emozione“, sostiene il direttore esecutivo dell’associazione, Betsy Bowers, che parteciperà ai negoziati in qualità di osservatore.

L’incontro di Nairobi è la terza di cinque sessioni di un processo accelerato volto a concludere i negoziati il prossimo anno. Dopo la capitale keniota, i negoziati proseguiranno nell’aprile 2024 in Canada, prima di concludersi in Corea del Sud alla fine del 2024. A ottobre, le Figi hanno esortato le nazioni ad agire per concludere il trattato, affermando che le piccole nazioni insulari hanno bisogno di un’azione più rapida. Durante gli ultimi negoziati a Parigi, a giugno, gli ambientalisti hanno accusato i principali Paesi produttori di plastica di trascinare i colloqui. Questa volta, le sessioni sono state prolungate di due giorni. Ma sarà sufficiente? “Se non riusciranno a fare progressi qui (a Nairobi, ndr), il 2024 sarà molto intenso se si vuole raggiungere un trattato significativo entro la fine dell’anno“, afferma Eirik Lindebjerg.

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La plastica riciclata? Uno studio rivela: E’ piena di sostanze chimiche tossiche

Non tutto è oro quello che luccica. Esaminando i pellet di plastica riciclata raccolti in 13 Paesi, un gruppo di scienziati dell’Università di Göteborg ha trovato centinaia di sostanze chimiche tossiche, tra cui pesticidi e farmaci. Ecco perché la giudicano inadatta alla maggior parte degli usi e un ostacolo ai tentativi di creare un’economia circolare.

I rappresentanti di 175 Paesi si riuniranno da lunedì in Kenya per negoziare per la prima volta misure concrete da includere in un trattato globale vincolante per porre fine ai rifiuti di plastica. Gli scienziati esorteranno i delegati a prestare attenzione alle ultime scoperte scientifiche che dimostrano che non esistono plastiche che possano essere considerate sicure o circolari, poiché per la produzione vengono utilizzate sostanze chimiche tossiche e visto che ne assorbono altre durante l’uso.

Il riciclo è stato propagandato come soluzione alla crisi dell’inquinamento da plastica, ma le sostanze chimiche tossiche presenti al suo interno ne complicano il riutilizzo e lo smaltimento e ostacolano il recupero“, afferma la professoressa Bethanie Carney Almroth, dell’Università di Göteborg.

Nello studio recentemente pubblicato su Data in Brief via ScienceDirect, guidato da Carney Almroth, si è scoperto che i pellet di plastica provenienti da impianti di riciclo di 13 Paesi diversi in Africa, Sud America, Asia ed Europa orientale contengono centinaia di sostanze chimiche, tra cui numerosi pesticidi altamente tossici. In totale, sono stati rilevati e quantificati 491 composti organici nei pellet, con altri 170 composti provvisoriamente annotati. Questi composti appartengono a varie classi, tra cui pesticidi, prodotti farmaceutici, prodotti chimici industriali e additivi per la plastica.

Esistono pochi regolamenti sulle sostanze chimiche presenti nella plastica e il commercio internazionale di rifiuti plastici complica la questione. In una corrispondenza pubblicata questo mese sulla prestigiosa rivista Science i ricercatori dell’Università di Göteborg, dell’IPEN, dell’Università di Aarhus e dell’Università di Exeter hanno osservato che “le sostanze chimiche pericolose presentano rischi per i lavoratori del riciclo e per i consumatori, oltre che per la società e l’ambiente in generale“. Prima che il riciclo possa contribuire ad affrontare la crisi dell’inquinamento da plastica, l’industria “deve limitare le sostanze chimiche pericolose“. Sono oltre 13.000 le sostanze chimiche utilizzate, il 25% delle quali classificate come pericolose.

Bethanie Carney Almroth porterà un messaggio chiaro all’incontro della prossima settimana a Nairobi. “Numerosi studi – dice – dimostrano che le sostanze chimiche pericolose possono accumularsi anche nei sistemi di riciclo della plastica. Dobbiamo eliminarle rapidamente perché possono causare danni alla salute umana e all’ambiente“.

L’Onu premia soluzioni innovative per sconfiggere inquinamento da plastica

Il Programma Ambientale delle Nazioni Unite (Unep) ha annunciato oggi i Campioni della Terra 2023, premiando un sindaco di città, una fondazione senza scopo di lucro, un’impresa sociale, un’iniziativa governativa e un consiglio di ricerca per le loro soluzioni innovative e l’azione trasformativa per affrontare l’inquinamento da plastica. Sin dalla sua istituzione nel 2005, il premio annuale Champions of the Earth è stato assegnato a pionieri in prima linea negli sforzi per proteggere le persone e il pianeta. Si tratta della più alta onorificenza ambientale delle Nazioni Unite. Compresi i cinque Campioni di quest’anno, il premio ha riconosciuto 116 vincitori: 27 leader mondiali, 70 individui e 19 organizzazioni. L’Unep ha ricevuto un numero record di 2.500 candidature in questo ciclo, segnando il terzo anno consecutivo in cui le candidature hanno raggiunto il massimo storico.

L’inquinamento da plastica è un aspetto molto preoccupante della tripla crisi planetaria. Per il bene della nostra salute e del pianeta, dobbiamo porre fine all’inquinamento da plastica. Ciò richiederà niente di meno che una trasformazione completa, per ridurre la quantità di plastica prodotta ed eliminare la plastica monouso; e per passare a sistemi di riutilizzo e ad alternative che evitino gli impatti ambientali e sociali negativi di cui siamo testimoni con l’inquinamento da plastica“, ha dichiarato Inger Andersen, Direttore Esecutivo dell’Unep. “Mentre procedono i negoziati per lo sviluppo di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica, i Campioni della Terra di quest’anno dimostrano che sono disponibili soluzioni innovative che possono ispirarci a ripensare il nostro rapporto con la plastica“.

I Campioni della Terra 2023 dell’UNEP sono i seguenti.

Il sindaco Josefina Belmonte di Quezon City, Filippine, premiata nella categoria Leadership politica, sta guidando l’azione ambientale e sociale attraverso una serie di politiche per combattere la crisi climatica, porre fine all’inquinamento da plastica e rendere più verde l’enclave urbana. Le sue iniziative comprendono il divieto di utilizzare la plastica monouso, un programma di commercio per l’inquinamento da plastica, stazioni di rifornimento per i prodotti di prima necessità e la difesa di una politica globale forte in materia di plastica.

La Ellen MacArthur Foundation (Regno Unito), premiata nella categoria Ispirazione e Azione, ha svolto un ruolo di primo piano nell’integrazione di un approccio al ciclo di vita, anche per la plastica. La Fondazione ha pubblicato rapporti e creato reti di decisori del settore pubblico e privato, oltre che del mondo accademico, per sviluppare iniziative e soluzioni del ciclo di vita alla crisi climatica, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento da plastica e altro ancora. Guida l’Impegno Globale con l’Unep.

Blue Circle (Cina), premiata nella categoria Visione imprenditoriale, utilizza la tecnologia blockchain e l’Internet delle cose per tracciare e monitorare l’intero ciclo di vita dell’inquinamento da plastica, dalla raccolta alla rigenerazione, alla rifabbricazione e alla rivendita. Ha raccolto oltre 10.700 tonnellate di detriti marini, diventando il più grande programma di rifiuti plastici marini della Cina.

José Manuel Moller (Cile), anch’egli premiato nella categoria Visione imprenditoriale, è il fondatore di Algramo, un’impresa sociale dedicata alla fornitura di servizi di ricarica che riducono l’inquinamento da plastica e abbassano i costi dei beni di prima necessità. Moller lavora anche per prevenire, ridurre e gestire in modo sostenibile i rifiuti attraverso il suo ruolo di Vice Presidente del Comitato consultivo delle Nazioni Unite di personalità eminenti sui rifiuti zero, un’iniziativa istituita nel marzo 2023.

Il Council for Scientific and Industrial Research (Sudafrica), premiato nella categoria Scienza e Innovazione, utilizza una tecnologia all’avanguardia e una ricerca multidisciplinare per sviluppare innovazioni per affrontare l’inquinamento da plastica e altri problemi. È un pioniere nell’identificare alternative sostenibili alle plastiche convenzionali, nello stabilire opportunità per la produzione locale e lo sviluppo economico e nel testare la biodegradabilità della plastica.

La plastica ha trasformato la vita quotidiana e ha prodotto molti benefici per la società. Ma l’umanità produce circa 430 milioni di tonnellate di plastica ogni anno, due terzi delle quali diventano rapidamente rifiuti. La dipendenza dalla plastica a vita breve ha creato quello che gli esperti definiscono un incubo ambientale. Ogni anno, fino a 23 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica si riversano negli ecosistemi acquatici, inquinando laghi, fiumi e mari. Entro il 2040, le emissioni di carbonio associate alla produzione, all’uso e allo smaltimento della plastica convenzionale basata sui combustibili fossili potrebbero rappresentare quasi un quinto delle emissioni globali di gas serra, secondo gli obiettivi più ambiziosi dell’accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Le sostanze chimiche presenti nella plastica possono anche causare problemi di salute negli esseri umani. Per sconfiggere l’inquinamento da plastica, gli esperti dicono che l’umanità deve ridurre ed eliminare le plastiche inutili e problematiche, trovare alternative ecologiche al materiale, sviluppare modelli innovativi per il riutilizzo della plastica e adottare il cosiddetto approccio al ciclo di vita dell’inquinamento da plastica.