Dagli scarti alimentari arriva il fertilizzante bio e green

L'esperimento dell'Università Cattolica mira a ridurre del 30% l'uso dei fertilizzanti chimici e a un calo del 40% delle emissioni di gas serra, senza compromettere la produzione.

Per Edoardo Puglisi, professore all’Università Cattolica, la microbiologia ha tutte le carte in regola per cambiare il modo di fare agricoltura. Settore che in effetti si trova a dover rispondere in tempi brevi alle contingenze della guerra e agli obiettivi del Green Deal: riducendo, per esempio, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti azotati. E ad attrezzarsi per soddisfare in maniera sostenibile il sostentamento di una popolazione che nel mondo ha appena superato gli 8 miliardi.

E la rivoluzione in corso non è soltanto “in teoria”. I ricercatori del campus universitario di Piacenza, per esempio, hanno sviluppato un nuovo fertilizzante “bio e green” dagli scarti della filiera alimentare. In particolare, grazie alla collaborazione con l’azienda Sacco srl di Cadorago, dai residui della produzione di batteri lattici.

Si tratta di tonnellate di scarti prodotti ogni anno, e rappresentano il 90% del brodo di fermentazione in cui vengono normalmente riprodotte e moltiplicate le cellule. I batteri lattici vanno all’industria alimentare, per produrre – per esempio – formaggi, prodotti freschi, bevande fermentate. “Il resto della parte organica, invece, è a tutti gli effetti uno scarto, che viene inserita in cicli di smaltimento” spiega Francesco Vuolo, Agro R&D manager di Sacco. “Almeno finché non abbiamo deciso di investigare potenzialità in altri settori”.

L’Università Cattolica ha testato l’utilizzo del fertilizzante sperimentale nella coltivazione in serra di pomodoro e lattuga. “Abbiamo misurato le rese, i parametri fisiologici, e abbiamo visto miglioramenti importanti della diversità microbica nella rizosfera” spiega Edoardo Puglisi, “con l’effetto di promuovere la crescita della pianta”. Un booster, insomma.

Nella configurazione più efficace, il fertilizzante viene applicato al suolo. Con l’effetto di nutrire allo stesso tempo la pianta, la comunità batterica e la percentuale di umidificazione del suolo stesso.

I risultati della ricerca indicano la potenziale riduzione del 30% dell’uso di fertilizzanti chimici azotati, senza compromettere la produzione e migliorando alcune caratteristiche fisiologiche della pianta. E si stima un possibile calo del 40% delle emissioni di gas serra associati oggi alla produzione dei fertilizzanti chimici.

I test hanno messo in evidenza il valore produttivo del fertilizzante. Ora dovrà raggiungere gli end user. E proprio per questo si sta inserendo nel frame regolatorio europeo. Mentre l’azienda coinvolta nel progetto ha già iniziato a valorizzare con questo approccio residui del processo produttivo pari a oltre 700 tonnellate l’anno. L’impressione è che davvero per il settore ci siano interessanti prospettive di cambiamento.