L’idrogeno verde, almeno sulla carta, è una buona soluzione per rendere stabili le fonti di energia rinnovabile: collegare un elettrolizzatore a una pala eolica, per fare un esempio, permette di utilizzare l’energia in eccesso per produrre in modo pulito idrogeno dall’acqua. Sì, ma, una volta prodotto, come fare a immagazzinarlo e trasportarlo?
Lo si può comprimere in forma gassosa o liquida. Con problemi di spazio nel primo caso. E con la necessità di mantenere bassissime temperature nel secondo. In entrambe le situazioni: con costi elevati.
C’è poi una terza via (e, fino a qui, non è una novità), ovvero stoccarlo allo stato solido. In particolare, in una delle tecnologie oggi studiate, è possibile far reagire le molecole di idrogeno a contatto con una polvere di lega metallica, in modo che vengano assorbite. Tecnicamente, viene così a prodursi un nuovo composto, un idruro, che potrà quindi essere immagazzinato all’interno di speciali contenitori e quindi trasportato come un solido.
Anche qui, però, con un limite importante: la reazione chimica che porta all’assorbimento dell’idrogeno genera calore. Che viene disperso. Mentre per ri-estrarre poi l’idrogeno dal composto, e poterlo quindi impiegare come combustibile, deve essere immesso nel sistema del nuovo calore. Con una gestione termica tutt’altro che efficiente.
L’università di Torino, nell’ambito del progetto Hycare (finanziato da Horizon 2020) ha appena dimostrato sul campo una soluzione a questo problema, con la possibilità di accoppiare al sistema di immagazzinamento dell’idrogeno, anche una tecnologia per conservare il calore generato. E poterlo poi riutilizzare senza sprechi. Il tutto con un esperimento su larga scala, che ha testato 40 kg di idrogeno – abbastanza per fare il pieno a 13 automobili, o per fornire energia a una casa per una settimana.
In questa dimostrazione, il calore generato dalla reazione idrogeno-metallo viene accumulato in una batteria termica. All’interno della batteria è presente infatti un materiale “a cambiamento di fase”. Sostanza, cioè, capace di ricevere e conservare energia termica passando da stato solido a stato liquido. E di tornare poi allo stato solido svuotandosi del calore accumulato per permettere all’idruro di liberare idrogeno pronto all’uso. “Il progetto dimostra per la prima volta che la combinazione di idruri metallici con i materiali a cambiamento di fase per la gestione termica di un sistema di stoccaggio a idrogeno è una realtà”, spiega Marcello Baricco, professore all’università di Torino e coordinatore del progetto. Un passo avanti, insomma, “per migliorare l’efficienza energetica del processo e ridurre l’impatto ambientale dell’intero sistema”.
Ora sarà il mercato a premiare o meno l’applicazione di questa innovazione. Che sconta – va detto – il limite di essere un sistema di stoccaggio particolarmente pesante (la differenza di peso fra il serbatoio pieno e vuoto di idrogeno è dell’1%). Ma che proprio per questo potrebbe trovare impiego in applicazioni fisse: stazioni di rifornimento, condomini. Oppure dove una zavorra è addirittura utile, come nel caso di navi o yacht.