“Una rondine non fa primavera”. E non è stato mai più vero di così. A causa del cambiamento climatico – dice una ricerca coordinata dall’università degli studi di Milano – gli uccelli stanno anticipando i tempi della loro migrazione primaverile verso i siti di nidificazione di circa 2-3 giorni ogni dieci anni. Un trend che si può osservare a partire dal 1811: calcolando a spanne, fa una differenza di almeno un mese e mezzo.
Lo studio coordinato da Andrea Romano, ricercatore del dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’ateneo milanese, ha raccolto dal 2017 oltre 5.500 serie storiche di dati fenologici (variazioni temporali di attività come la migrazione e la riproduzione) relativi a 684 specie di uccelli a livello mondiale. E il risultato è un dato importante per almeno due motivi.
Il primo. Perché gli uccelli sono buoni indicatori della biodiversità e dell’integrità degli ecosistemi, e studiare le informazioni sulla presenza e la diversità di specie possono darci notizie sulla salute del pianeta.
Il secondo. Anticipare attività come migrazione, nidificazione o riproduzione, quando le risorse (soprattutto nutritive, come gli insetti) sono al loro massimo livello, significa sapersi adattare al climate change e all’arrivo precoce della primavera. Certo. Ma non vale per tutte le specie. Come hanno dimostrato diversi studi, “queste risposte si dimostrano spesso insufficienti per tenere il passo del cambiamento climatico” ha spiegato Andrea Romano, “e molte popolazioni hanno manifestato profondi cali demografici, tanto che si stima che il cambiamento climatico possa rappresentare la principale fonte di estinzione locale nei prossimi decenni”.
Il valore della ricerca milanese, sta soprattutto nell’aver messo a sistema per la prima volta l’enorme mole di dati e serie storiche raccolte in tutto il mondo negli ultimi due secoli, categorizzando gli uccelli in base a caratteristiche ecologiche, come la dieta e la tipologia di migrazione. Riuscendo quindi a dimostrare a livello globale diversi modelli di variazione di abitudini che prima erano stati solo ipotizzati o verificati su scala locale.
I risultati raggiunti, potrebbero essere utili anche per identificare le specie più suscettibili agli effetti futuri del riscaldamento globale per eventuali interventi di tutela e conservazione: “Specie migratrici a lungo raggio, molto specialiste dal punto di vista della dieta, e che nidificano in aree particolarmente soggette a cambiamenti climatici” spiega Andrea Romano, “possono essere le più esposte a rischio”.