M5S non vota fiducia, Draghi si dimette. Ma Mattarella respinge

Per il premier "la maggioranza di unità nazionale che sosteneva il governo non c’è più", ma il capo dello Stato vuole un voto parlamentare: mercoledì comunicazioni alle Camere

La maggioranza di unità nazionale che sosteneva Mario Draghi “non c’è più”, il governo Draghi invece ha ancora una chance. E’ il risultato di una giornata frenetica, rocambolesca, frutto di giorni di tribolazioni, soprattutto nel campo del Movimento 5 Stelle, che non partecipando al voto di fiducia, in Senato, sul decreto Energia 2, innesca di fatto la crisi che porta alle dimissioni del presidente del Consiglio, respinte dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che rimanda il premier alle Camere (mercoledì prossimo) per verificare se c’è ancora una maggioranza o certificare la fine dell’esecutivo. E con molta probabilità della legislatura. Letta tutta d’un fiato, la situazione appare quasi indecifrabile, proprio come è accaduto ai mercati: le principali piazze europee, infatti, chiudono tutte in ribasso (Francoforte -1,86%, Parigi -1,41%, Londra -1,63%). Ma è la Borsa di Milano a farne maggiormente le spese, con un calo del 3,44%. Meglio riavvolgere il nastro, quindi.

Che i pentastellati non avrebbero mai votato la fiducia sul decreto Energia 2 era ormai chiaro sin dalla tarda serata di mercoledì. Giuseppe Conte e i suoi confermano la linea seguita in Cdm, non votando il dl, e alla Camera, votando la fiducia ma non lo scrutinio finale, protestando contro la norma che autorizza il termovalorizzatore a Roma e – a loro giudizio – la scarsità di fondi per i bonus alle famiglie contro il rincaro delle bollette. Il problema è che a Montecitorio il voto disgiunto è possibile, mentre a Palazzo Madama coincide con la fiducia. Dunque, anche l’astensione è un fatto politico. Eppure il ministro per i rapporti con il Parlamento, il Cinquestelle Federico D’Incà, ci prova fino alla fine a evitare lo strappo, tentando un accordo con le forze di maggioranza per un voto ordinario. La verifica si infrange nella scelta di Draghi, che giudica però la questione di fiducia l’unica via percorribile.

In aula la tensione si taglia con il coltello. I partiti di centrodestra affondano colpi su colpi sul M5S, anche il Pd è in evidente imbarazzo, costretto all’equilibrio tra il totale dissenso rispetto alle scelte dell’alleato del campo largo e la responsabilità di non avallare la caduta del governo in una fase di crisi economica e geopolitica mondiale. Tutte le mediazioni falliscono: il risultato è che il decreto viene trasformato in legge dal Senato (172 sì e 39 no), ma Draghi trae la conclusione che “è venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”. Così dopo il via libera di Palazzo Madama sale al Colle per un’ora di colloquio con il presidente della Repubblica, dal quale non esce nemmeno la minima indiscrezione. Nel tardo pomeriggio, quando si riunisce il Cdm, convocato e poi spostato a chiusura dei mercati, si capisce il perché. Draghi infatti annuncia ai suoi ministri le dimissioni, spiegando “le votazioni di oggi sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico“, nonostante “in questi giorni da parte mia c’è stato il massimo impegno per proseguire nel cammino comune, anche cercando di venire incontro alle esigenze che mi sono state avanzate dalle forze politiche“. Alla fine prende atto che “come è evidente dal dibattito e dal voto in Parlamento questo sforzo non è stato sufficiente“.

Le parole sono dure ma non pietre tombali. “Dal mio discorso di insediamento in Parlamento ho sempre detto che questo esecutivo sarebbe andato avanti soltanto se ci fosse stata la chiara prospettiva di poter realizzare il programma di governo su cui le forze politiche avevano votato la fiducia – dice ancora in Cdm -. Questa compattezza è stata fondamentale per affrontare le sfide di questi mesi. Queste condizioni oggi non ci sono più“. Poi, dopo aver ringraziato i colleghi, invitandoli a “essere orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto“, il premier è salito al Quirinale. Mentre i siti mondiali rilanciano la notizia, che arriva anche a Mosca, dove l’ex premier russo, Dmitri Medvedev, esulta su Telegram: “Dopo le dimissioni di Boris Johnson e Draghi, chi sarà il prossimo?“.

E’ quasi calato il sole su Roma quando Mattarella scrive ancora un nuovo capitolo di questa giornata, respingendo le dimissioni. E invitando l’ex Bce “a presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata a seguito degli esiti della seduta svoltasi oggi presso il Senato della Repubblica“. Comunicazioni e non informativa, dunque con voto. In pratica quella verifica invocata anche dagli altri partiti della maggioranza. Alla quale non è escluso che possa partecipare anche il Movimento 5 Stelle. Del resto, già il 18-19 luglio l’Italia è attesa a un appuntamento internazionale importante, il vertice intergovernativo con l’Algeria, in programma ad Algeri. Dove si discuterà di prospettive con il nostro nuovo principale partner-fornitore di gas. Presentarsi con un governo debole, di scopo elettorale o, peggio ancora, non presentarsi proprio sarebbe un passo falso grave. Sono tante le ragioni, dunque, che spingono la situazione politica a restare estremamente fluida. Nonostante il caldo e la confusione che regna nel panorama italiano