“Nel decreto energia si introduce un contributo che diventerà voce di spesa importante per chi si accingerà a sviluppare un progetto rinnovabile, che avrà un impatto anche sui modelli di business e di finanziamento i quali dovranno essere discussi con le banche. Tanto più grande sarà l’impianto, tanto più grande sarò il contributo”. Lo dice a GEA Luca Amicarelli, Counsel e responsabile del team italiano di diritto amministrativo e ambientale di Allen & Overy, studio legale internazionale con una presenza in oltre 40 Paesi. Parliamo del contributo che i produttori dovranno versare al Gse per incentivare le regioni a ospitare impianti a fonti rinnovabili: 10mila euro per ogni megawatt di potenza dell’impianto nei primi tre anni dalla data di entrata in esercizio.
Avvocato, è solo l’ennesima tassa o qualcosa di incentivante?
“La norma, come tante altre iniziative, porta ‘in nuce’ un intento che vuole essere positivo o propositivo che però si scontra col muro dell’implementazione. Ad oggi rimangono una serie di incertezze, per entrare a regime serviranno un decreto ministeriale che andrà a regolare le modalità di contribuzione e di riparto tra le regione e una convenzione che il Gse dovrà sottoscrivere col Mase”.
Tempi lunghi?
“Il provvedimento in via prioritaria è in favore delle regioni che però stanno già conseguendo gli obiettivi di potenza e hanno già stabilito un documento con le aree idonee per nuove rinnovabili, tuttavia il decreto ministeriale recante i criteri per tale individuazione non è ancora stato approvato. Per cui la norma contenuta nel decreto energia è del tutto programmatica di fatto, perché appunto servirà implementazione”.
Intanto si paga.
“La norma dovrebbe incentivare le regioni ad approvare più velocemente progetti rinnovabili, mentre la realtà vede un proliferare di pareri delle sovrintendenze, ricorsi al Tar e regioni che spesso non sono amiche di eolico e fotovoltaico anche in zone dove c’è molto vento o molto sole. Il governo prova così a dire: ‘Cara Regione, se tu acconsenti a far installare questi impianti, lo Stato ti conferirà un contributo pagato da produttori e Stato nella misura dei profitti delle aste’. A oggi non è ancora stato esplicitato come verranno raccolti questi soldi. E’ vero, il produttore non deve pagare nulla oggi, ma quelli che teoricamente acquisiranno autorizzazione per costruzione impianto da gennaio 2024 a dicembre 2030 dovranno versare questi 10 euro/kw”.
Non c’erano altri metodi veloci e semplici per velocizzare la transizione?
“Ci sono limiti costituzionali, l’energia è una materia concorrente tra stato centrale e regioni. Queste ultime devono definire i siti idonei dove concentrare impianti rinnovabili. C’è anche una sostanziale lentezza per interessi di natura politica locale. Insomma, l’intento incentivante della norma è per gli enti locali e non per i produttori. Il privato non è incentivato, ma si incentivano le regioni a non fare muro”.
Le cifre in ballo non sembrano tuttavia essere così incentivanti per le regioni.
“Sono circa 10 milioni di euro l’anno a Regione, non un grande incentivo. Ma visto che è previsto un riparto fra regioni si rischia una competizione fra di loro, che potrebbero non aiutare l’aumento di produzione rinnovabile allargando invece le disparità tra i vari territori”.
Se c’è questo effetto ‘Nimby’ per le rinnovabili, un tema comunque ampiamente digerito a livello socio-mediatico, cosa potrà succedere eventualmente col nucleare? Soprattutto: ripartirà effettivamente il nucleare in Italia?
“Avrebbe rappresentato una grande opportunità per l’Italia, e ci auguriamo che possa esserlo in futuro grazie alle nuove tecnologie. La Francia ha profuso sforzi enormi affinché il nucleare fosse incluso tra le fonti green: il nucleare è alla base dell’idrogeno verde, che sarà un volano per la transizione francese. Anche l’Inghilterra però, molto attiva nell’eolico off shore, ha riavviato il programma nucleare”.
La Germania invece l’ha spento.
“La Germania ha lasciato il nucleare ma ha una cultura diffusa nelle rinnovabili e nel finanziamento o nelle autorizzazioni di impianti fotovoltaici ed eolici. Passa meno di un anno tra la richiesta di autorizzazione e l’inizio dell’attività. E i via libera saranno ancora più celeri dopo l’introduzione di nuove norme per velocizzare le pratiche”.
Da noi invece quanto tempo passa dall’autorizzazione all’avvio della produzione rinnovabile?
“Per legge si parla di poco più di un anno, nella pratica sono due anni. E’ una questione di fissazione degli obiettivi: la normativa statale spesso impone dei termini che, di fatto, non sono rispettati a causa delle molte questioni che, nella pratica, tendono a rallentare il procedimento.
Per un investitore in rinnovabili in questo momento fanno più paura i tassi o la burocrazia?
“La burocrazia, il credito comunque è favorevole. La transizione rinnovabile è un business profittevole e in trend, le banche difficilmente si tirano indietro nei finanziamenti. E poi con la tematica Esg sono le banche stesse che collocano bond con obiettivi specifici ambientali. Ci sono istituti internazionali che si stanno dotando addirittura di società controllate al 100% le quali hanno come ragione sociale quella di sviluppare impianti. Il trend sono i contratti Ppa o le cessione di energia alla rete. Cercano terreni e ingegneri, anche in Italia”.