Non è stata un successo, la Cop 29. E, onestamente, era facile immaginarlo. Pressappoco come le altre che l’hanno preceduta. Partito con la medaglietta di ‘Cop finanziaria’, l’appuntamento ‘verde’ più importante dell’anno ha registrato un rosario di defezioni importantissime (da Biden a Xi Jinping, da Macron a Lula, per finire con von der Leyen e con il premier australiano Anthony Albanese), distanze siderali tra la teoria e la pratica, cioè tra cosa si ipotizzava di raggiungere e gli accordi che sono stati messi su carta, una sostanziale insoddisfazione di fondo generata da uno scetticismo di base assai diffuso. Baku, insomma, non si è rivelato un punto di svolta e nemmeno un punto di raccolta fondi. Perché, in concreto, la bozza finale sui denari da investire di qui al 2035 ha scontentato tutti: i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Con una superficialità quasi imbarazzante si è parlato per giorni di 1000-1300 miliardi all’anno da destinare per la finanza climatica, tralasciando il dettaglio che non ci sono soldi. E, non a caso, il contraddittorio si è acceso fino a diventare scontro.
C’era una volta il temerario Frans Timmermars, c’era John Kerry e c’erano i pasdaran del green, ora lo scenario si è impoverito e al di là di allarmi plastificati lanciati a macchia di leopardo sul cattivissimo stato di salute del Pianeta, all’atto pratico si tratta sempre e solo di chiacchiere, idee e progetti che rimangono appesi nell’aria inquinata. Perché si scontrano con interessi di campanile e mancanza di fondi. Del resto, se l’incipit della Cop è stata la dichiarazione del presidente Ilham Alyev sui combustibili fossili “come dono di Dio”, a cascata pareva complicato ipotizzare passi avanti. Anche la premier Giorgia Meloni, immergendosi nel realismo più assoluto, ha ricordato nel suo intervento in presenza – almeno la presidente del Consiglio in Azerbaigian è andata – che di gas e petrolio dovremo ancora campare per anni, senza trascurare però la tutela della Terra. E quindi? Quindi ‘adelante ma con juicio’, soprattutto avanti con il nucleare. Ma pure su questo tema non c’è unanimità di vedute.
Liofilizzando il concetto, la Cop29 non rimarrà scolpita nella memoria collettiva. In fondo, è nata male fin da subito, cioè in concomitanza con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e si è incagliata nella recrudescenza dei conflitti e nelle ambasce finanziare degli Stati, America compresa. Appena eletto, il Tycoon ha annunciato che (ri)uscirà dagli accordi di Parigi e che riprenderà a trivellare in maniera forsennata per preservare gli interessi di patria. Non proprio un bello spot per i tavoli di discussione di Baku. Trump che, tra l’altro, all’ambiente ha designato un comprovato negazionista e sostenitore dei combustibili fossili, Christ Wright, giusto per fare capire a tutti quanto gli stia a cuore l’argomento.
Adesso l’orizzonte è quello della Cop 30 in Brasile. Lì il padrone di casa sarà Ignacio Lula da Silva che ha improntato la sua rielezione a presidente sulla salvaguardia dell’Amazzonia. Per evitare che anche le due settimane di Rio de Janeiro abbiano la consistenza di un pandoro, è indispensabile non ripetere Baku, Dubai, Sharm El Sheik. Alla ventinovesima edizione dell’appuntamento promosso dall’Onu, forse bisogna cambiare – come dire? – il format. Così è la fiera multietnica dell’inutilità, invece c’è bisogno di decarbonizzare, tutelare, coccolare il nostro Pianeta. Che non scoppia di salute. Magari è il caso di modificare approccio, di rovesciare la prospettiva visto che – ormai è conclamato – trovare un’intesa tra quasi 200 nazioni, ciascuna con ricadute diverse, è un esercizio impraticabile.