Conflitto in Israele pesa sui costi energetici: schizzano petrolio e gas

Urso: "Bisogna essere vigili, uniti e coesi in Europa per fronteggiare questa situazione di emergenza"

I prezzi del petrolio sono saliti di oltre il 4% e il prezzo del gas sul mercato di Amsterdam è arrivato a oltre 41 euro euro al megawattora. A pesare sono i timori per il conflitto in Israele, dopo che il movimento islamista palestinese Hamas ha lanciato un’offensiva a sorpresa contro Israele nel fine settimana, sollevando preoccupazioni sulle conseguenze per le forniture alla regione ricca di petrolio. Il Brent è balzato del 4,7% a 86,65 dollari e il West Texas Intermediate è salito del 4,5% a 88,39 dollari nei primi scambi asiatici. Preoccupazioni che raccoglie anche il ministro della Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, secondo il quale “bisogna essere vigili, uniti e coesi in Europa per fronteggiare questa situazione di emergenza che rischia di far esplodere altre problematiche. Mi riferisco per esempio a quella dell’energia, come accaduto per la guerra della Russia in Ucraina, per l’approvvigionamento di gas e petrolio. Da quei Paesi giungono altre risorse alla nostra Europa. Dobbiamo capire e comprendere anche se dobbiamo pensare all’autonomia strategica del nostro continente“.

L’attacco a sorpresa contro Israele e la dichiarazione di guerra al movimento islamista palestinese di domenica hanno già provocato più di 1.100 vittime e si teme un ulteriore aumento delle tensioni in Medio Oriente. “Per i mercati è decisivo se il conflitto rimarrà contenuto o si estenderà ad altre regioni, in particolare all’Arabia Saudita“, hanno dichiarato Brian Martin e Daniel Hynes, analisti dell’ANZ. “Almeno inizialmente, i mercati sembrano pensare che la situazione rimarrà limitata in termini di portata, durata e impatto sui prezzi del petrolio. Ma possiamo aspettarci una maggiore volatilità“. Questa crisi arriva in un momento in cui i prezzi del petrolio sono già alti a causa delle preoccupazioni per i tagli alla produzione da parte di Russia e Arabia Saudita. Inoltre, sta sollevando timori per il suo impatto sull’inflazione. L’aumento dei costi energetici è una delle cause principali dell’attuale impennata dei prezzi.

Il WTI e il Brent, i due benchmark globali, sono saliti brevemente di oltre il 5% sui mercati asiatici, prima di tornare al di sotto di questa soglia. Tuttavia, Stephen Innes di SPI Asset Management ha avvertito che “la storia ha dimostrato che i prezzi del petrolio tendono a guadagnare in modo sostenuto dopo le crisi in Medio Oriente“.

Venerdì i prezzi del petrolio hanno chiuso in leggero rialzo a New York, beneficiando solo marginalmente del ritorno della propensione al rischio, compensata dalle persistenti preoccupazioni sulla domanda globale e dalla parziale revoca delle restrizioni imposte dalla Russia sulle esportazioni di gasolio. Inoltre, la scorsa settimana un gruppo di lavoro dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e dei loro alleati (OPEC+) ha raccomandato di mantenere l’attuale strategia di taglio della produzione, rafforzata dai tagli sauditi e russi, al fine di sostenere i prezzi. Ha inoltre elogiato “gli sforzi dell’Arabia Saudita“, leader del gruppo, che da luglio sta tagliando volontariamente la produzione di un milione di barili al giorno. Il ministero dell’Energia saudita ha confermato che questa misura continuerà fino alla fine del 2023. La produzione del regno dovrebbe quindi attestarsi intorno ai 9 milioni di barili al giorno per i mesi di novembre e dicembre, ha aggiunto.

Anche la Russia, altro peso massimo dell’OPEC, manterrà i suoi tagli alle esportazioni di circa 300.000 barili al giorno fino a dicembre, secondo il vice primo ministro Alexander Novak. Queste decisioni si aggiungono ai tagli introdotti all’inizio di maggio e in vigore fino alla fine del 2024 da nove Paesi, tra cui Riyadh, Mosca, Baghdad e Dubai, per un totale di 1,6 milioni di barili al giorno.