L’idrofobina, la proteina che aiuta a bonificare ‘la marea nera’

Lo studio del Politecnico di Milano, in un lavoro durato 3 anni insieme alle università di Helsinki e Oxford

Quando nel 2010 la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon si incendia fino ad affondare nel Golfo del Messico, dalla testa del pozzo continueranno a fuoriuscire milioni di barili di petrolio per 86 giorni. Il disastro ambientale più grave della storia americana. Per tamponare la “marea nera”, aerei e navi, ma anche robot guidati a 1.500 metri di profondità, rilasciano quasi 7 milioni di litri di emulsionante chimico. L’idea è quella di scomporre l’olio in piccole particelle per poterle disperdere più facilmente: serve per evitare che la massa di petrolio raggiunga le coste e per rendere i contaminanti più degradabili dai microrganismi dell’oceano. Nell’incidente della petroliera Exxon Valdez, 21 anni prima, ne erano già stati utilizzati, per lo stesso scopo, circa 15mila litri. Con un grande compromesso, certo: la stima degli effetti negativi dei disperdenti sugli ecosistemi oceanici è tuttora oggetto di studio e di dibattito.

Oggi lo studio di una proteina, l’idrofobina – naturale, edibile, estratta da un fungo – può aiutare a immaginare la bonifica di fuoriuscite di inquinanti liquidi senza utilizzo di disperdenti tossici. “L’idrofobina è un surfattante naturale, che solubilizza quindi l’olio nell’acqua, e lo disperde come farebbe un sapone” spiega Pierangelo Metrangolo, del dipartimento di Chimica, materiali e ingegneria chimica del Politecnico di Milano. Un “sapone” del tutto compatibile ambientalmente, che ha la caratteristica di saper incapsulare in un involucro sostanze idrofobiche come l’olio, cambiando le caratteristiche di bagnabilità della superficie.
Questa capacità dell’idrofobina (che si può immaginare come una proteina dalla testa idrofilica ma dalla coda idrofobica) non è una scoperta recente. Lo stesso Metrangolo lavora con questa particolare molecola da dieci anni. Ma mai prima d’ora era stato studiato il modello matematico che consente di capire “come” e “perché” questo avviene. A descrivere il modello è stato il Politecnico di Milano, in un lavoro durato 3 anni insieme alle università di Helsinki e Oxford. E l’ha fatto studiando il processo di evaporazione di gocce di una soluzione di acqua e idrofobina in diverse condizioni di gravità. “Gocce che – spiega Pierangelo Metrangolo, – durante l’evaporazione iniziano ad autoassemblarsi in forme non più sferiche ma trapezoidali”.

Saper controllare la forma di una goccia è una scoperta che può portare alla fabbricazione di dispositivi a tecnologia liquida per diverse applicazioni. Primo dei quali, probabilmente, il rilascio controllato di farmaci. Ma la possibilità di produrre un disperdente del tutto inerte potrebbe aiutare a immaginare compromessi meno impattanti quando costretti a rispondere a disastri ecologici, come i quasi trenta episodi che dal 2000 ad oggi hanno riversato non meno di 100 tonnellate di greggio in mare. “Oltre alla scomposizione dell’olio in particelle più piccole” conclude Metrangolo, “andrebbe studiato se un involucro di proteina biologica possa rendere più semplice anche l’attacco di agenti biologici”, e arrivare così a una ripristino più efficace degli ecosistemi.