Giusto, sbagliato, ideologico, poco sociale. Il Green Deal è il filo rosso, anzi, verde, di una campagna elettorale europea che fa dell’agenda di sostenibilità della Commissione europea uscente l’oggetto principale di qualunque partito politico. Ppe, Pse, Verdi, Re, Ecr, Sinistra: tutti hanno qualcosa da dire su un insieme di provvedimenti che si vorrebbe riconsiderare. Le elezioni europee di inizio giugno si identificano dunque in un vero e proprio referendum sulla transizione.
PPE: NO A IDEOLOGIA FUORVIANTE. L’ingrediente principale della ricetta economica dei popolari europei (Ppe) è la rimodulazione del Green Deal. Nel suo Manifesto per le elezioni europee 2024, il Ppe pone l’accento sul “bisogno di una politica che non sia offuscata da un’ideologia fuorviante, ma che fondi piuttosto su solide basi motivi di fatto e responsabilità sociale”. In altri termini, “dobbiamo bilanciare i diversi interessi nella nostra economia, società e ambiente, riconoscendo le sfide dell’economia globale, del cambiamento climatico e delle mutevoli realtà demografiche del nostro continente”. Il partito che in questi cinque anni ha sostenuto la Ursula von der Leyen nella veste di presidente della Commissione Ue è lo stesso che fa campagna elettorale contro di lei in versione candidata al secondo mandato.
Il programma economico di quello che sembra essere destinato a confermarsi primo partito nell’Ue prevede politica di tassazione amica delle imprese, tuttavia non specificata. “L’Europa a sostegno delle imprese e fiscalmente equa” potrebbe prendere diverse forme, lasciate al post-voto di inizio giugno. C’è poi la promessa a migliorare e rilanciare il mercato unico europeo, visto che “il rendimento economico dell’Europa dipende dal suo successo”. Centrali nell’impegno del Ppe, la strategia di competitività per l’Europa e il piano di investimenti per lavori di qualità. La prima intende ridare slancio allo spirito imprenditoriale a dodici stelle, la seconda investire nel settore ricerca e sviluppo. Per la prima si intende stabilire un sistema di verifica delle proposte legislative prima della loro presentazione, per la seconda convincere i governi a combinare investimenti pubblico-privati per un importo pari al 4 per cento del Pil. Il vero nodo centrale è però la riorganizzazione del collegio dei commissari, con un commissario specifico per le Pmi e la riduzione della burocrazia.
PSE: POLITICHE SOCIALI INSIEME A QUELLE EOCLOGICHE. I socialisti (Pse) sono chiari e concisi nel loro Manifesto programmatico. “Diciamo no all’austerità”, recita il documento. “Diciamo sì alla protezione dei lavoratori dalle crisi, alla regolamentazione dei mercati finanziari, alla lotta alla speculazione”. Tutto questo si declina nella proposta di un meccanismo permanente europeo di sostegno alla disoccupazione, sulla scia del programma anti-pandemico Sure che i suoi risultati li ha ottenuti. Un impegno che marca il solco con il Ppe di Ursula von der Leyen presidente della Commissione Ue e candidata, che al varo di un simile meccanismo ‘salva posti di lavoro’ ha detto ‘no’ in tempi non sospetti. Il Green Deal non è in discussione, ma l’agenda verde intende essere tinta di rosso allineando le politiche sociali a quelle ecologiche. Il che vuol dire principalmente contrasto alla povertà energetica e al caro-bollette, approvvigionamento ai più vulnerabili, e impegno per la riforma del mercato energetico per garantire la stabilità dei prezzi e l’accessibilità economica.
Infine, i socialisti intendono interpretare il ruolo di contemporaneo Robin Hood tassando i ricchi proteggendo così i meni abbienti per una giustizia fiscale funzionale all’equità sociale. Da programma, “le grandi aziende, i grandi inquinatori e gli ultra-ricchi devono pagare la loro giusta quota in Europa e nel mondo, attraverso tasse efficaci sulle società, sui profitti straordinari, sui capitali, sulle transazioni finanziarie e sugli individui più ricchi”.
RENEW EUROPA PUNTA SUGLI INVESTIMENTI. Quando si parla di economia e agenda economica i liberali europei (Re, Renew Europe) costruiscono la propria campagna elettorale sugli investimenti per rilanciare il motore economico a dodici stelle. “La prossima Commissione deve essere ‘la Commissione degli investimenti”, il passaggio e l’impegno chiave del programma di partito. Vuol dire attenzione a spesa in ricerca, sviluppo, innovazione e formazione del capitale umani, ma vuol dire anche creazione delle giuste condizioni per attrarre investimenti privati. La chiave per una rinnovata competitività passa per attrazione dei talenti e posti di lavoro di qualità.
Guardando al settore primario, i liberali strizzano l’occhiolino agli agricoltori promettendo loro una revisione del Green Deal in senso più a misura di esigenze di operatori del comparto. Tra queste, la riduzione delle accise sui combustibili rinnovabili, come il biogas, e aumentare la soglia ‘de minimis’ per gli aiuti di Stato all’agricoltura. Per il medio-lungo periodo, invece, votare Renew alle prossime elezioni vorrebbe dire avere chi spingerà per fare in modo che la prossima Commissione presenti un’analisi dei costi e dei benefici dei requisiti cumulativi per il settore agricolo dell’UE derivanti dalla legislazione ambientale e sanitaria, oltre a elaborare “un importante piano finanziario” per la transizione verso un sistema agricolo e alimentare sostenibile e competitivo, individuando le lacune di finanziamento e mobilitando i necessari finanziamenti pubblici e privati.
VERDI: PIU’ GREEN BOND EUROPEI. Verde, perché comunque il Green Deal non si tocca. Ma anche rosso, perché i riferimenti di base delle regole comuni di bilancio sono obsolete e vanno cambiate. I Verdi europei presentano ai cittadini-elettori un Manifesto che spinge anche più esplicitamente a sinistra dei socialisti. “Rivedremo i limiti dei Criteri di Maastricht e del Patto di Stabilità e Crescita”, si legge. Un impegno con cui tentare una spallata al Ppe, che su quei criteri ha costruito la riforma del Patto, e al Pse che non ha saputo modificare il tutto. I criteri di Maastricht fissano i limiti di spesa pubblica, che non può eccedere la soglia del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil e la soglia del 60 per cento nel rapporto debito/Pil. La promessa dei Greens è di quelle che possono acchiappare consensi, ma allo stesso tempo di quelle difficili da realizzare, poiché i parametri in questioni sono incardinati nei trattati sul funzionamento dell’Ue, la cui modifica richiede l’unanimità degli Stati membri e un percorso lungo e tortuoso.
I Verdi propongono una nuova governance macroeconomica “che dia priorità agli investimenti di qualità nei beni pubblici e alla transizione verde rispetto all’obsoleto paradigma della crescita ad ogni costo per evitare ulteriori crisi e le loro conseguenze sociali”. Spazio poi alla green-economy. Qui si intende spingere per un Fondo per la transizione verde e sociale equivalente ad almeno l’1 per cento annuo del PIL dell’Ue, finanziato principalmente da prestiti congiunti a livello dell’Unione. Spazio ai Green bond europei, ma pure al completamento dell’unione bancaria. I verdi spingono per il varo di uno schema di garanzia dei depositi, in stallo da anni.
ECR: FOCUS SU POLITICA INDUSTRIALE. I conservatori europei (Ecr) non si nascondono: “Rimaniamo fermi nella nostra convinzione che il motore a combustione interna, testimonianza della potenza della creatività e dell’ingegno europeo, possa rimanere commercialmente sostenibile negli anni a venire adottando tecnologie all’avanguardia e investendo nella ricerca innovativa su carburanti alternativi a basse emissioni”. Un estratto del Manifesto del partito che è una chiara presa di distanza da un Green Deal che si vuole rivedere in nome quanto meno di un determinato settore industriale. Si cerca un patto europeo con l’industria, a cui si promette che l’Ecr “sosterrà la ricerca e l’innovazione tecnologica e proporrà strategie in accordo con le imprese e non contro di esse”.
Più in generale l’obiettivo primario dell’Ecr nella sfera economica è “rivitalizzare la politica industriale” attraverso maggiore centralità alle piccole e medie imprese e più attenzione ai settori tecnologici (intelligenza artificiale) e di telecomunicazioni (reti 5G e 6G). Il tutto attraverso “libertà d’impresa per ogni cittadino, preservando nel contempo l’autonomia fiscale degli Stati membri e la non interferenza nelle questioni relative alla tassazione”. Non da ultimo, il modello nazionale non può non difende il ‘made in’. Recita il Manifesto Ecr: “Vogliamo anche salvaguardare e promuovere la nostra identità unica in un mondo globalizzato preservando e promuovendo abilità e metodi artigianali tradizionali”.
LA SINISTRA PER UN RECOVERY PERMANENTE. Il programma economico del partito de La Sinistra propone il ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (Mes, o Esm) per finanziare la ristrutturazione delle abitazioni e misure di efficienza energetica nel rispetto degli obiettivi del Green Deal, così da scaricare i costi dalle famiglie. A proposito di oneri, ecco la proposta di abolizione del patto di stabilità con il suo rigore, per un nuovo ‘patto di ristrutturazione sociale e ambientale’. Altro punto centrale: il Recovery Fund dovrebbe essere trasformato in meccanismo permanente per stimolare crescita e investimenti.
Nel Manifesto del partito c’è un programma fiscale molto chiaro, e molto a sinistra. Si propone l’introduzione di una ritenuta alla fonte sugli utili di multinazionali e banche, e di riprendere il lavoro per una tassa sulle transazioni finanziarie. Prevista inoltra una doppia azione contemporanea contro i giganti del web e la politica, con la proposta di una ‘tassa cloud’ progressiva sui ricavi delle piattaforme digitali, che copra la spesa delle aziende e dei partiti politici sui social media. Non finisce qui. Perché il programma spinge per una direttiva che un introduca obbligatoriamente un reddito minimo che “copra i bisogni fondamentali per una vita dignitosa” quali cibo, alloggio, energia, previdenza, accesso alla cultura, fondi per le emergenze. Sempre in ambito di politiche del lavoro, si chiede una riduzione delle ore lavorative e l’inclusione degli immigrati “a pari condizioni” salariali e di lavoro. Mentre in materia di spesa, si intende destinare il 7 per cento del Pil per istruzione e un 2 per cento di Pil in cultura.