Nel 2023 impennata delle ecomafie: +15,6% i reati ambientali, 4 ogni ora. Mercato vale 8,8 miliardi

In Italia le ecomafie premono sempre di più sull’acceleratore e fanno affari d’oro. A dimostrarlo è l’aumento dei reati ambientali che nel 2023 salgono a 35.487, registrando +15,6% rispetto al 2022, con una media di 97,2 reati al giorno, 4 ogni ora. Illeciti che si concentrano soprattutto nel Mezzogiorno e in particolare nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa – Campania, Puglia, Sicilia e Calabria – dove si concentra il 43,5% deli illeciti penali, +3,8% rispetto al 2022. Tutto il mercato illegale nella Penisola è valso agli ecomafiosi nel 2023 ben 8,8 miliardi.

CICLO ILLEGALE DEL CEMENTO E DEI RIFIUTI. A tracciare un quadro di sintesi è il nuovo report di Legambiente ‘Ecomafia 2024. Le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia’ (edito da Edizioni Ambiente), nel 30esimo anno dalla sua prima pubblicazione, e i cui dati sono stati presentati oggi a Roma. Dati nel complesso “preoccupanti”: nel 2023 in Italia aumenta anche il numero delle persone denunciate (34.481, +30,6%), così come quello degli arresti (319, +43% rispetto al 2022) e quello dei sequestri (7.152, +19%). Tra gli illeciti, nella Penisola continua a salire la pressione del ciclo illegale del cemento (13.008 reati, +6,5%), che si conferma sempre al primo posto tra i reati ambientali; ma a preoccupare è soprattutto l’impennata degli illeciti penali nel ciclo dei rifiuti, 9.309, + 66,1% che salgono al secondo posto. Al terzo posto con 6.581 reati la filiera degli illeciti contro gli animali (dal bracconaggio alla pesca illegale, dai traffici di specie protette a quelli di animali da affezione fino agli allevamenti); seguita dagli incendi dolosi, colposi e generici con 3.691 illeciti. Crescono anche i numeri dell’aggressione al patrimonio culturale (642 i furti alle opere d’arte, +58,9% rispetto al 2022) e degli illeciti nelle filiere agroalimentari (45.067 illeciti amministrativi, + 9,1% rispetto al 2022), a cominciare dal caporalato. Sono inoltre 378 i clan mafiosi censiti.

CAMPANIA E NAPOLI IN TESTA ALLA CLASSIFICA PER NUMERO DI REATI. La Campania è la regione italiana al primo posto della classifica con più illeciti ambientali nel 2023. Si tratta di 4.952 reati, pari al 14% del totale nazionale, seguita da Sicilia (che sale di una posizione rispetto al 2022, con 3.922 reati, +35% rispetto al 2022), Puglia (scesa al terzo posto, con 3.643 illeciti penali, +19,2%) e Calabria (2.912 reati, +31,4%). La Toscana sale dal settimo al quinto posto, seguita dal Lazio. Balza dal quindicesimo al settimo posto la Sardegna. Tra le regioni del Nord, la Lombardia è sempre prima.

A livello provinciale, Napoli torna al primo posto, a quota con 1.494 reati, seguita da Avellino (in forte crescita con 1.203 reati, pari al +72,9%) e Bari. Roma scende al quarto posto, con 867 illeciti penali, seguita da Salerno, Palermo, Foggia e Cosenza. La prima provincia del Nord è quella di Venezia, con 662 reati, che si colloca al nono posto ed entra nella classifica delle prime venti province per illegalità ambientale.

CIAFANI: “DAL GOVERNO ASPETTIAMO UN SEGNALE”. “In questi tre decenni – spiega il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani – il Rapporto Ecomafia è diventato sempre più un’operaomnia per analizzare i fenomeni criminali legati al business ambientale, grazie anche a contributi istituzionali di rilievo, come dimostra l’edizione 2024. Dalla nostra analisi, emerge però che c’è ancora molto da fare nel nostro Paese, dove continuano a mancare norme importanti, come quelle che dovrebbero semplificare gli abbattimenti degli ecomostri – assegnando ad esempio ai Prefetti l’esecuzione delle ordinanze di demolizione mai eseguite nei decenni passati –, l’inserimento nel Codice penale dei delitti commessi dalle agromafie oppure l’approvazione dei decreti attuativi della legge istitutiva del SNPA per rendere più efficaci i controlli pubblici delle Agenzie regionali e provinciali per la protezione dell’ambiente”. “Dal Governo Meloni – aggiunge – ci aspettiamo un segnale di discontinuità. Serve approvare quanto prima le riforme necessarie per rafforzare le attività di prevenzione e di controllo. Ne gioverebbero molto la salute delle persone, degli ecosistemi, della biodiversità e quella delle imprese sane che continuano ad essere minacciate dalla concorrenza sleale praticata da ecofurbi, ecocriminali ed ecomafiosi”.

Arriva il cemento green: niente acqua e cinque volte meno CO2 di quello tradizionale

A 70 chilometri a sud di Nantes sorge un’alta torre circolare rossa e bianca in mezzo al verde del paesaggio: è quella del cementificio della start-up francese Hoffmann Green, che ha l’ambizione di diventare il faro di un’industria del cemento carbon free, dopo due secoli di massicce emissioni di CO2. Inaugurato venerdì, il nuovissimo stabilimento è l’espressione concreta della strategia di reindustrializzazione verde auspicata dal governo. Promette di emettere da tre a cinque volte meno gas serra rispetto ai grandi produttori tradizionali di cemento ed è stato sostenuto finanziariamente dai piani di risanamento e da Francia 2030.

Nei piani, ogni anno dovrebbe produrre 250.000 tonnellate di cemento a basse emissioni di carbonio. Una pagliuzza rispetto al fabbisogno del Paese che ne consuma 18 milioni di tonnellate all’anno. Ma una rivoluzione in un settore che, dall’invenzione del cemento 200 anni fa, non ha quasi cambiato i suoi metodi di produzione altamente inquinanti. Il processo tradizionale – la cottura della farina di materie prime per 18 ore consecutive a oltre 1.400°C per ottenere l’elemento essenziale del cemento, il clinker – richiede enormi volumi di gas naturale ed emette quasi una tonnellata di CO2 per ogni tonnellata di cemento prodotti. In pratica, inquina di più del settore aereo.

Il cemento della Vandea di Hoffmann Green “non ha clinker”, emette “in media 200 kg di CO2” per tonnellata, è prodotto “senza cottura”, “senza gas”, “senza acqua” e “a temperatura ambiente”, “mescolando polvere di rifiuti industriali”, spiega Julien Blanchard, presidente del consiglio di amministrazione e co-fondatore della start-up nata nel 2015. I tre ingredienti principali sono gli scarti di lavorazione dell’acciaio, “i fanghi argillosi” recuperati dalle cave e il “gesso” contenuto nei pannelli di cartongesso provenienti dalla demolizione degli edifici. Gli additivi interni innescano quindi una reazione a freddo che consente al cemento di amalgamarsi. La ricetta è stata sviluppata da David Hoffmann, ingegnere chimico minerario ed ex co-fondatore della start-up Séché Environnement.

In questa fabbrica verticale dal concept unico, la torre alta 70 metri mescola gli ingredienti di 19 silos alti diverse decine di metri. Altro elemento essenziale della decarbonizzazione del processo, è che l’energia pesa appena per il 2% dei costi complessivi dell’azienda “rispetto al 20% del settore tradizionale”, secondo Blanchard. Una serie di pannelli fotovoltaici su palafitte, come grandi alberi di metallo che seguono l’orientamento del sole durante tutta la giornata, generano il 50% del consumo elettrico del sito.

“Tutti questi elementi fanno sì che nel complesso il nostro cemento generi cinque volte meno emissioni di CO2 rispetto al cemento tradizionale”, riassume Blanchard. Naturalmente anche il prezzo è “il doppio”, ammette. “Ma più produciamo, più i prezzi scenderanno”, dice, scommettendo su un “incrocio delle curve dei costi” tra il suo cemento e quello tradizionale “nel 2026-2027”. L’industria del settore “ci vede come i cattivi che vogliono chiudere i cementifici tradizionali”, osserva Stéphane Pierronnet, direttore operativo dell’impianto. Eppure gli ultimi cinque anni sono stati una strada lunga e onerosa. Soprattutto per ottenere le certificazioni che consentono a questo prodotto di entrare nella corte dei cementi standardizzati e referenziati. Sono stati necessari “tra i 5 ei 10 milioni di euro” per finanziare gli accertamenti che hanno permesso di ottenere la garanzia che “i nostri cementi sono altrettanto solidi”, “con una durata così lunga, la stessa resistenza al fuoco, ai sali marini..” dei cementi tradizionali, spiega Blanchard. L’azienda, che impiega 55 persone, di cui il 20% in ricerca e sviluppo, sta progettando un secondo stabilimento a Dunkerque. Ha anche progetti in Svizzera, Belgio e Regno Unito.

 

(Photocredit: AFP)

Antonio Buzzi

Federbeton: “Valorizziamo i rifiuti con combustibili solidi secondari”

Aumento dei costi dell’energia, impatto ambientale, emissioni di CO2, economia circolare. Di fronte a uno scenario mondiale che – complice la guerra in Ucraina – ha necessariamente dovuto accelerare su questi temi, si è tornato a parlare dei cosiddetti Css, cioè i combustibili solidi secondari, quella frazione di rifiuti solidi urbani o industriali che, opportunamente trattata, potrebbe essere utilizzata come fonte di energia invece di finire nelle discariche o negli inceneritori. Un argomento, questo, su cui Federbeton – associata di Confindustria che rappresenta la filiera del cemento e del calcestruzzo – punta da tempo. La situazione del settore non è delle più rosee, perché, dice a GEA Antonio Buzzi, vicepresidente di Federbeton, “arriva da una situazione di lunghi anni di forte calo dei consumi e delle produzioni di cemento e calcestruzzo“.

IL PESO DELLA CRISI ENERGETICA

Una discesa iniziata a metà degli anni 2000, complice una crisi finanziaria globale senza precedenti. Poi, un periodo di stabilità con alti e bassi (e circa 19 milioni di tonnellate di consumi, a fronte dei 45 del decennio precedente) seguito dalla pandemia e, ora, dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze sia sul fronte della produzione sia su quello dell’energia. Qualcuno la chiama la ‘tempesta perfetta’. E l’energia pesa, pesa tantissimo sul settore. “Le componenti energetiche – dice Buzzi – sono quelle che impattano di più sui nostri costi di produzione, sia quelle elettriche sia quelle derivate dai combustibili fossili“, tra cui il pet-coke, combustibile fossile che soddisfa l’80% delle necessità energetiche caloriche. Le aziende del settore, in un simile contesto di forte inflazione da costi e non da domanda, spiega il vicepresidente Buzzi, “hanno necessità di riportare un po’ di marginalità“.

RISORSA ‘A CHILOMETRI ZERO’

Ed è qui che si inseriscono i combustibili solidi secondari, anche perché “in Italia il fattore energetico è estremamente penalizzante per la mancanza di risorse interne a cui fare ricorso“. I Css sono una risorsa “quasi a chilometro zero“, spiega Buzzi, che offre “benefici ambientali” e, al tempo stesso, dà “agli imprenditori la possibilità di produrre in modo più competitivo, con dei costi inferiori“.

IL POSSIBILE UTILIZZO DEI CSS

Ma facciamo un passo indietro e proviamo a capire in che modo potrebbero essere riutilizzati. I rifiuti solidi urbani e quelli speciali subiscono alcuni trattamenti prima di essere indirizzati ai diversi impianti di smaltimento o riciclati. Ciò che resta e che non può essere recuperato in alcun modo finisce in discarica o negli inceneritori. Ecco da dove parte l’idea della circolarità: invece di bruciare i rifiuti senza alcun altro fine se non quello di liberarsene – è il ragionamento di Federbeton – si potrebbero utilizzare per produrre combustibile per i forni che servono alla produzione di cemento, sostituendo almeno in parte i prodotti petroliferi. Il funzionamento di questi impianti, infatti, richiede grandi quantità di energia per raggiungere elevatissime temperature e, ad oggi, è difficile pensare di ottenere le stesse prestazioni da fonti completamente green. Con l’energia termica si soddisfa il processo a caldo, quello che serve a ‘cuocere’ la materia prima a temperature comprese tra i 950 e i 1450 gradi e, dice Buzzi, “con le fonti green sarebbe molto complesso perché i nostri processi sono continui, h24, e le rinnovabili – almeno per ora – sono discontinue“. L’energia elettrica, invece, serve prevalentemente alle operazioni di macinazione prima e dopo la cottura. In questo caso una parte può essere sostituita da fonti rinnovabili “ed è proprio in questa direzione che si stanno muovendo molti operatori del settore“, anche grazie alle recenti semplificazioni introdotte dal Governo.

IL PROBLEMA DELLE EMISSIONI

E gli effetti sul pianeta? Una delle obiezioni degli ambientalisti è che bruciare i rifiuti è in ogni caso dannoso. Ma l’utilizzo dei combustibili solidi secondari negli stabilimenti, spiega Buzzi, “non aumenta le emissioni. Anzi, per alcuni parametri si hanno lievi miglioramenti e si riducono significativamente le emissioni di CO2. E allora perché non possiamo usarli di più? Altri Paesi ne fanno un ampio utilizzo, specie laddove le politiche industriali sono più lungimiranti e perché forse c’è una maggiore comprensione di questa pratica“.

In effetti, è fuori Italia che i combustibili solidi secondari sono impiegati maggiormente nell’industria e, in particolare nei cementifici, raggiungendo un tasso del 60%, a volte anche dell’80%. La Germania, ad esempio, è al 70%. Nel nostro Paese la sostituzione dei prodotti petroliferi tramite Css è limitata a circa il 21%. Secondo la stima elaborata dal Laboratorio REF Ricerche, un tasso di sostituzione del 66% in Italia porterebbe al taglio di 6,8 mln di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera, grazie al mancato conferimento in discarica che verrebbe sostituito dalla valorizzazione energetica in cementeria. Non si tratta di negare le emissioni prodotte dalla combustione, è il ragionamento di Federbeton, ma di “riqualificare” ciò che comunque finirebbe in atmosfera senza portare alcun beneficio, restituendo, inoltre, competitività. Attraverso la sostituzione dei combustibili fossili con il Css, infatti, si annulla l’impatto emissivo della CO2 del combustibile fossile sostituito, sottraendo nello stesso tempo i rifiuti non riciclabili ad altri trattamenti che comunque darebbero luogo a emissioni di CO2. Come dire: finché non si trova una soluzione globale al problema della spazzatura non riciclabile, sfruttiamo ciò che abbiamo per ottenere benefici ambientali.

I LIMITI NORMATIVI

Dal punto di vista normativo, i limiti emissivi concessi agli inceneritori e alle cementerie sono simili per molti parametri. Differiscono unicamente per alcuni parametri in ragione del processo produttivo e sempre nel rispetto delle Bat (Best Available Techniques, ovvero migliori tecnologie di settore disponibili). Spesso poi, dove autorizzate all’impiego dei CSS “le cementerie hanno limiti più restrittivi rispetto a quanto non avrebbero con l’utilizzo del solo fossile“.

COME NASCE IL CSS

Oggi l’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti urbani e più di 150 milioni di rifiuti speciali, che vengono processati e trattati negli impianti gestiti prevalentemente dal settore pubblico. Una parte, poi, è convogliata in altre strutture che procedono alla loro biostabilizzazione per abbattere la carica batterica. Il materiale residuo viene poi triturato e declorurato trasformandosi in ‘coriandolato’. È il Css. Secondo le analisi di Federbeton, sarebbe possibile impiegare almeno 1 milione di tonnellate all’anno di questo materiale nelle cementerie, cioè circa il 10% dei rifiuti urbani indifferenziati. In realtà, come spiega Margherita Galli, referente Ambiente ed economia circolare Federbeton, “se ne usano appena 230mila tonnellate. Parlando, invece, di combustibili alternativi nel loro complesso siamo a circa 420mila tonnellate“. Ma quali sono gli altri combustibili alternativi utilizzati? Combustibili derivati da plastiche, gomme, pneumatici e fanghi di acque reflue.

LA VOLONTÀ POLITICA

Per aumentare il recupero dei Css nelle cementerie servono “una maggiore conoscenza di questa pratica – spiega Buzzi – più trasparenza nel raccontare l’impatto dei materiali nel ciclo produttivo, la condivisione delle informazioni con i portatori di interesse. Abbiamo tutti gli strumenti per poterlo fare, compresi quelli normativi. Gli enti autorizzativi conoscono molto bene questa possibilità, ma ci vuole la volontà politica e delle amministrazioni locali“.