David (Candriam): Investitori stanno diventando più attenti al greenwashing

La finanza green in Europa vive quasi due vite. Da una parte il patrimonio gestito dei fondi cosiddetti ‘verdi’ raggiunge il record di 5.200 miliardi di euro, dall’altra continua il deflusso di denaro dagli stessi fondi soprattutto nell’ultimo trimestre 2023. Matthieu David, Branch General Manager per l’Italia di Candriam, prova a fare chiarezza.

Come si spiega questo doppio andamento?
“Negli ultimi due decenni, gli investimenti sostenibili si sono evoluti da investimenti di nicchia a opportunità mainstream. La forte domanda per le strategie di investimento sostenibili è stata spinta in particolare dal riconoscimento che l’inclusione di fattori Esg consente una gestione del rischio più completa e permette di individuare interessanti aree di crescita. Siamo fermamente convinti che l’interesse verso questo tipo di investimenti continuerà nel lungo termine. Guardando in generale al settore, i deflussi devono essere analizzati da diversi punti di vista. In primo luogo, come qualsiasi altro strumento finanziario, i fondi Esg sono influenzati dai movimenti a breve termine dei mercati e dall’evoluzione delle tendenze. Gli investitori poi stanno diventando più attenti al greenwashing. Infine, sebbene vi siano state alcune critiche nei confronti dell’Esg, queste non riguardano il loro valore; piuttosto, sono dovute principalmente a confusione e dubbi degli investitori su terminologia e dati”.

Il maggior deflusso nell’ultimo trimestre 2023 è riferito ai fondi verde chiaro, art. 8, mentre iniziano i prelievi anche i verde scuro, art. 9. Ecco, quanto incidono le preoccupazioni di greenwashing e il contesto normativo in continua evoluzione?
“Gli investitori stanno diventando più attenti e riescono a identificare meglio ciò che è veramente sostenibile. I timori di greenwashing sono legittimi in alcuni casi ed è importante che si faccia una due diligence approfondita sulle metodologie Esg, sui rating, sui dati. Tuttavia, è importante assicurarsi che le aspettative siano allineate con approcci diversi alla sostenibilità, ovvero cosa ci si aspetta da un’azienda completamente sostenibile rispetto a cosa significa investire per sostenere la transizione. In Candriam guardiamo con favore agli sforzi normativi volti a creare maggiore trasparenza e chiarezza in materia di Esg”.

Cosa chiedete ai regolatori?
“C’è ancora un po’ di confusione sui requisiti di disclosure, sulla disponibilità di dati e standard comuni. Se da un lato i quadri normativi possono essere molto utili, dall’altro è importante che gli investitori non esitino a fare un’ulteriore due diligence e a comprendere veramente gli approcci sottostanti, le metodologie, le fonti di dati. In qualità di gestore patrimoniale leader in questo ambito e impegnato negli investimenti sostenibili da oltre 25 anni, abbiamo sviluppato metodologie, analisi e processi proprietari per integrare la sostenibilità in tutte le nostre attività”.

Quanto incidono gli alti tassi di interesse, l’inflazione, i timori di recessione tra alcune delle principali economie mondiali e i rischi geopolitici sulla scelta di investimento e soprattutto sulla redditività?
“Le complesse prospettive globali per il 2024 richiedono un approccio paziente agli investimenti. Nell’obbligazionario raccogliamo carry attraverso il credito investment grade e il debito dei mercati emergenti. Nell’azionario, la resistenza del mercato, unita all’approccio paziente della Fed, suggerisce una strategia selettiva a favore dei settori che potrebbero beneficiare di una crescita economica sostenuta e di un’inflazione gestibile. La tecnologia, in particolare l’intelligenza artificiale, e l’healthcare possono offrire valide opportunità. Infine, vediamo opportunità nei titoli che hanno sofferto di vendite forzate e talvolta indiscriminate, come le small cap e i titoli legati al clima, ma per una loro sovraperformance serve nel primo caso che gli indicatori di business registrino una ripresa più decisa, nel secondo che i tassi si stabilizzino”.

Il mercato sembra più inebriato dall’intelligenza artificiale che dalla transizione? In America c’è stato un forte ridimensionamento degli investimenti Esg. Quanto è un problema anche per l’Europa?
“In termini di approcci Esg, ci sono differenze fondamentali tra Usa ed Europa. Mentre negli Stati Uniti si tende a guardare il tema principalmente attraverso lenti di materialità finanziaria/dovere fiduciario, l’Europa si è concentrata sulla doppia materialità. L’Ue ha sviluppato direttive e standard normativi per sostenere i flussi finanziari verso attività sostenibili, definendo al contempo standard per il numero sempre crescente di prodotti di investimento sostenibili. Tra questi, la Sfdr (Sustainable Finance Disclosure Regulation, ndr) è stata introdotta per aumentare e armonizzare le informazioni fornite dagli operatori sui prodotti di investimento e sulle loro stesse operazioni, sostenendo così la trasparenza e rendendo più facile per gli investitori comprendere, valutare e confrontare i prodotti. Il suo nucleo principale è il concetto di doppia materialità. In Candriam riteniamo che l’interesse verso gli investimenti sostenibili sia ancora presente e destinato a rimanere nel lungo termine, un aspetto fortemente riconosciuto anche dagli investitori europei. Siamo fermamente convinti che nel lungo periodo questa tendenza sarà riconosciuta anche dagli investitori di altre regioni del mondo”.

H&M ci riprova: Giù emissioni, più riciclo e nuova Water strategy

H&M ci riprova. Dopo essere stato citato in giudizio per greenwashing, marketing ingannevole e dati falsi e fuorvianti e aver incassato una denuncia della Consumer Authority norvegese per possibili violazioni alla normativa sulla pubblicità ingannevole per la collezione ‘H&M conscious‘, il colosso del fast fashion svedese promette un cambio di rotta.

I marchi che hanno come obiettivo principale la sostenibilità “saranno meglio preparati a soddisfare il crescente interesse dei consumatori e le richieste dei legislatori“, spiega Leyla Ertur, responsabile della Sostenibilità del gruppo, nell’ultimo rapporto annuale. Contribuire a un futuro migliore, “per le persone e il pianeta“, questo è l’obiettivo del gigante della moda. “Siamo aperti al dialogo e alla collaborazione per affrontare le numerose sfide comuni del nostro settore e del nostro mondo“, assicura.

Quest’anno, l’utilizzo di materiali riciclati ha subito un’accelerazione, raggiungendo il 23% (dal 18%) e contribuendo a un totale dell’84% di materiali riciclati o provenienti da fonti più sostenibili nelle collezioni del marchio.

C’è stata una riduzione delle emissioni assolute del 7% in riferimento allo Scope 3 (le emissioni indirette prodotte nella catena del valore) e dell’8% delle emissioni degli Scope 1 e 2 (le emissioni dirette generate dall’azienda e quelle indirette generate dall’energia acquistata e consumata dalla società), rispetto al valore di riferimento del 2019. L’obiettivo a lungo raggio è ridurre le emissioni assolute degli Scope 1, 2 e 3 del 56% entro il 2030.

Bene anche sul lato imballaggi in plastica: -44% rispetto al valore di riferimento del 2018. Non solo: il gruppo ha lanciato una nuova Water Strategy per il 2030 e ha ridotto il consumo
relativo di acqua per prodotto del 38% rispetto al valore di riferimento del 2017, grazie a miglioramenti dell’efficienza e a un maggiore riciclo delle acque reflue.

Quanto alla sostenibilità sociale, nell’ultimo anno la rappresentanza sindacale nelle fabbriche dei fornitori di livello 1 è passata dal 37% al 42% e il 34% ha stipulato contratti collettivi di lavoro (rispetto al 27% del 2021). Il 63% dei rappresentanti dei lavoratori nelle fabbriche dei fornitori di Tier 1 è composto da donne e la percentuale di donne che ricoprono posizioni di supervisione è del 27%.

“E’ stato un anno turbolento, segnato dalla guerra in Ucraina”, osserva la Ceo, Helena Helmersson. “In tempi esterni difficili, la sostenibilità rimane parte integrante della nostra attività”, assicura.

E, in effetti, l’obiettivo 2030 combina gli obiettivi di crescita aziendale e di profitto con la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.” Per raggiungere i nostri ambiziosi obiettivi climatici di dimezzare le emissioni di gas serra del Gruppo entro il 2030 e di arrivare a zero entro il 2040, investiamo in progetti per ridurre le emissioni di gas serra lungo tutta la nostra catena del valore”, ribadisce Helmersson. Nel corso dell’anno, gli obiettivi climatici del gruppo sono stati verificati dall’iniziativa Science Based Targets ed è stata istituita la Green Fashion Initiative per sostenere i fornitori nella sostituzione dei combustibili fossili.

Gli investimenti nella sostenibilità offrono al Gruppo opportunità di business a lungo termine. Costruendo partnership strategiche con i principali stakeholder e crescendo in vari modi innovativi, H&M sostiene di riuscire a far crescere l’attività in modo da disaccoppiare la crescita finanziaria e la redditività dall’uso di risorse naturali limitate. Un buon esempio è Sellpy, società di maggioranza del gruppo, che è già uno dei maggiori operatori nel settore della Moda di seconda mano in Europa.

“Continueremo a investire in nuovi modelli di business, materiali e tecnologie che hanno il potenziale per cambiare radicalmente il modo in cui realizziamo i nostri prodotti e in cui i nostri clienti possono vivere la Moda”, garantisce Helmersson. “Nonostante il mondo turbolento che ci circonda – rivendica la Ceo -, il Gruppo H&M è forte di un’ampia base di clienti, di una solida posizione finanziaria, di un sano flusso di cassa e di un inventario ben bilanciato. Tutto questo grazie all’impegno dei colleghi di tutto il mondo, che continuano a costruire la nostra azienda, a rimanere fedeli ai nostri valori e a garantire che realizziamo sempre l’idea commerciale che il nostro fondatore ha gettato le basi 75 anni fa: offrire ai nostri clienti un valore imbattibile con la migliore combinazione di Moda, qualità, prezzo e sostenibilità”.

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Greenpeace, la petizione contro il greenwashing tra i traguardi 2022

La fine di ogni anno porta in sé, quasi in maniera fisiologica, il tempo dei bilanci. Così è anche per l’associazione Greenpeace che, alla vigilia del 2023, rende note “quattro importanti vittorie per il Pianeta ottenute negli ultimi dodici mesi”, delle quali si è fatta – insieme con altri movimenti e organizzazioni ambientaliste – promotrice.
Il primo traguardo raggiunto è datato 6 dicembre, quando i rappresentanti del Parlamento europeo e dei governi nazionali hanno finalizzato la nuova legge che impone alle aziende di controllare che la filiera di produzione – partendo dal singolo appezzamento di terra – non causi deforestazione, pena l’applicazione di multe. In altre parole, per la prima volta al mondo, le aziende che vendono soia, carne bovina, olio di palma, legno, gomma, cacao e caffè, e derivati come cuoio, cioccolato e mobili dovranno dimostrare che la produzione di materie prime e derivati non ha contribuito alla deforestazione.

La seconda vittoria, seppur parziale, è legata alla Coca-Cola. Il colosso – che produce oltre 120 miliardi di bottiglie di plastica all’anno – ha infatti annunciato che renderà riutilizzabile il 25% degli imballaggi per bevande entro il 2030. Greenpeace lo ritiene un “obiettivo ancora troppo basso: è necessario andare oltre e arrivare all’obiettivo del 50% di packaging ricaricabile e riutilizzabile entro il 2030”. E ricorda che la multinazionale da anni si trova al primo posto della classifica stilata dalla coalizione Break Free From Plastic (di cui Greenpeace fa parte), che monitora i rifiuti di plastica che invadono città, coste, mari e ogni angolo del Pianeta.

Il terzo obiettivo raggiunto affonda le proprie radici nel 2015, quando la Commissione per i diritti umani delle Filippine ha avviato un’indagine condotta su 47 società, accusate di provocare cambiamenti climatici catastrofici rei di violare i diritti umani. L’indagine – che ha dimostrato il nesso – è stata avviata su impulso dei sopravvissuti ai violentissimi tifoni che si erano abbattuti sull’arcipelago delle Filippine, i quali avevano presentato, insieme a diversi esponenti della società civile (tra cui, appunto, Greenpeace South Asia), una denuncia alla CHR contro i grandi inquinatori.

Infine, la petizione lanciata da Greenpeace e altre realtà ambientaliste per vietare le pubblicità delle aziende dell’industria fossile ha registrato, in un anno, l’adesione di 353.103 firme in tutta Europa. Non è stato raggiunto il milione di firme, ma le 54.369 firme raccolte in Italia dimostrano invece che il Paese è pronto per un divieto delle pubblicità inquinanti, cosiddette ‘finte green’.

 

 

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Decarbonizzazione, tante promesse ‘facili’ e i casi di India e Cina

Secondo un’analisi gli Stati, le autorità locali e le aziende stanno moltiplicando gli impegni per la “neutralità delle emissioni di carbonio, ma molti di essi presentano “gravi difetti“. Tra i grandi inquinatori, la maggior parte dei Paesi sviluppati ha assunto l’impegno di essere neutrale dal punto di vista delle emissioni di carbonio entro il 2050. Cina e India puntano rispettivamente al 2060 e al 2070. “L’uso di questo concetto è esploso“, afferma Frederic Hans, esperto di politica climatica presso l’ONG NewClimate Institute e autore principale di questa analisi per il Net Zero Tracker. “Ma se si fissa un obiettivo senza comunicare le riduzioni di emissioni che esso comporta, non si può essere ritenuti responsabili delle proprie azioni“, afferma.

Lo studio analizza i dati relativi a 4.000 governi, città, regioni e grandi aziende, concentrandosi sulla qualità degli obiettivi e sul fatto che siano accompagnati da una chiara tabella di marcia. Gli impegni degli Stati coprono circa il 90% del Pil globale, sei volte di più rispetto a tre anni fa. E 235 grandi città hanno ora il loro. Anche un terzo delle maggiori società quotate in Borsa nel mondo ha assunto impegni di carbon neutrality (702 rispetto a 417 nel dicembre 2020). “Siamo in un momento decisivo in cui la pressione dei pari a prendere impegni rapidamente, in particolare nel mondo degli affari, potrebbe portare o a un greenwashing di massa o a un cambiamento fondamentale verso la decarbonizzazione” dell’economia, analizza un altro autore dello studio, Takeshi Kuramochi, anch’egli del NewClimate Institute.

Per quanto riguarda i governi, il 65% degli impegni nazionali è ora oggetto di una legislazione o di documenti ufficiali, rispetto a solo il 10% alla fine del 2020. Ma delle 702 aziende intervistate, solo la metà ha obiettivi intermedi, un livello “inaccettabilmente basso“, secondo lo studio. E solo il 38% delle aziende include tutte le emissioni, sia dirette (produzione) che indirette (fornitori e utilizzo), nei propri impegni di neutralità. Il rapporto osserva anche che i maggiori inquinatori privati, in particolare nel settore dei combustibili fossili, sono tra quelli che hanno più probabilità di avere obiettivi: “Questo riflette senza dubbio la pressione sociale su questi settori, ma è forse più simbolico, o addirittura puro greenwashing, che una vera leadership sulle questioni climatiche“.

Ma l’effetto potrebbe anche essere virtuoso, incoraggiando “le aziende ad aumentare le proprie ambizioni e anche i regolatori“, sostiene Frederic Hans. A marzo, l’Onu ha investito un gruppo di esperti per sviluppare standard e una valutazione degli impegni di carbon neutrality degli attori non statali, in particolare delle aziende. Secondo gli esperti climatici delle Nazioni Unite, le emissioni devono raggiungere il picco entro il 2025 e dimezzarsi entro il 2030 rispetto al 2010 per avere una possibilità di raggiungere l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi.

Greenwashing, il diritto della verità per i consumatori

Le istituzioni comunitarie scavano sotto lo strato dell’ambientalismo di facciata per mettere al bando il greenwashing. All’interno dell’ampio pacchetto sull’economia circolare presentato dalla Commissione europea lo scorso 30 marzo, il gabinetto guidato da Ursula von der Leyen ha proposto una serie di linee-guida per la tutela dei consumatori e della transizione verde. I concetti-chiave sono due: diritto di fare scelte informate al momento dell’acquisto e rispetto dell’ambiente, anche per quanto riguarda i messaggi che vengono veicolati dalle pubblicità delle aziende e dal confezionamento dei beni di consumo.

Non è un caso se il greenwashing – la strategia di comunicazione finalizzata a costruire un’immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo ambientale, per nascondere gli effetti negativi delle pratiche e delle attività industriali – viene classificato come “pratica commerciale sleale” dall’esecutivo UE, che ha promesso di condurre una lotta senza quartiere per la sua estirpazione. A questo proposito, la proposta di direttiva mette nero su bianco che un commerciante o un produttore non può ingannare il consumatore con dichiarazioni ambientali “senza impegni e obiettivi chiari, oggettivi e verificabili, e senza un sistema di monitoraggio indipendente”. L’obiettivo è stato tracciato con particolare chiarezza dal commissario europeo per la Giustizia, Didier Reynders. “Se non iniziamo a consumare in modo più sostenibile, non raggiungeremo gli obiettivi del Green Deal europeo”, ha avvertito il commissario, sottolineando però che il problema sta a monte: “La maggior parte dei consumatori è disposta a contribuire in modo significativo, ma in questi anni abbiamo anche assistito a un aumento del greenwashing”. È per questo motivo che “serve protezione contro le pratiche commerciali sleali che abusano dell’interesse a comprare verde”, ha puntualizzato il titolare della Giustizia.

Nella pratica, tutto ciò avrà un impatto concreto sulle abitudini di acquisto dei consumatori dell’Unione, se la proposta della Commissione sulla sostenibilità dei prodotti sarà approvata e adottata integralmente durante la fase di negoziati tra i co-legislatori del Consiglio dell’UE e del Parlamento Europeo: la direttiva recepita nella legislazione nazionale di ciascuno Stato membro metterà al bando affermazioni ambientali generiche come “ecologico”, “eco” o “verde” sulle etichette dei prodotti e nelle pubblicità, qualora non possano essere dimostrate con evidenze scientifiche. Si andranno così a colpire sia i messaggi che “suggeriscono erroneamente o creano l’impressione di eccellenti prestazioni ambientali”, sia quelli che estendono l’affermazione all’intero prodotto, quando in realtà riguarda uno solo dei suoi aspetti. Allo stesso modo, non potranno essere esposte etichette di “sostenibilità volontaria” che non siano certificate da autorità pubbliche o indipendenti.

La proposta da Bruxelles arriva a pochi mesi dalla relazione sulla Finanza sostenibile pubblicata dalla Corte dei conti europea, che ha rilevato come – nonostante gli impegni e le premesse – l’UE non faccia ancora abbastanza per indirizzare i fondi disponibili verso attività realmente “sostenibili” che possano guidare la transizione verde verso un’economia a zero emissioni. La criticità maggiore nell’indirizzare gli investitori verso le opportunità di investimento più sostenibili risiede proprio nel fatto che per il momento manca un’azione specifica per definire con chiarezza e trasparenza cosa è sostenibile e cosa non lo è sul piano ambientale e sociale. Come conseguenza, “ancora troppi fondi finiscono in attività da considerare non sostenibili”, ha commentato Eva Lindström, responsabile della relazione della Corte dei conti pubblicata il 20 settembre 2021. “Esistono troppe interpretazioni diverse sulla sostenibilità e questo crea un vero ostacolo nel cambiare l’atteggiamento degli investitori”, ha aggiunto, ribadendo che l’assenza di un quadro comune “alimenta l’ambientalismo di facciata di molte aziende”, che spacciano per sostenibile ciò che non lo è “perché mancano criteri scientifici per definirlo”. Scavando sotto lo strato del finto verde del greenwashing, le istituzioni comunitarie sono chiamate ora a proteggere la transizione verde anche da chi ne sfrutta l’attrattività per continuare a mettere in pericolo l’ambiente.

Armando testa

Mariani (Armando Testa) svela la strategia pubblicitaria green da adottare

Sostenibilità è una parola inflazionata molto presente nella gran parte delle campagne marketing, in pubblicità, nei messaggi promozionali. Accanto ai casi virtuosi che costruiscono una comunicazione basata su buone pratiche e riduzioni degli impatti, non mancano le storture e le operazioni poco trasparenti che sfruttano il vettore sostenibile come un’ulteriore leva di mero marketing. ‘Acts not Ads’ dovrebbe, invece, essere il nuovo codice di comunicazione secondo Michele Mariani, direttore creativo esecutivo di Armando Testa, tra i più grandi gruppi pubblicitari italiani, con sedi in Italia, in America e nei principali mercati europei.

Quali sono le principali sfide della comunicazione green?
“Oggi nei consumatori c’è una nuova sensibilità, una sensibilità aumentata. La pandemia ha innescato profondi cambiamenti che hanno avuto un impatto su ognuno di noi, e ovviamente anche sul modo di comunicare. I nuovi consumatori non ammettono sbavature, hanno un nuovo senso critico, soprattutto scelgono le marche in base a criteri molto diversi dal passato. Chiedono qualcosa in più di prodotti fatti bene. Chiedono sostenibilità, etica, rispetto, coerenza, trasparenza. E scelgono le marche in base a questi criteri valoriali. I nuovi consumatori, soprattutto quelli più giovani non comprano prodotti, ma scelgono quali marche portare nella loro vita. E sono vicini alle marche che hanno una coscienza, una consapevolezza e attenzione a tutte le sfumature della sostenibilità. La parola sostenibilità è però una parola abusata in comunicazione, che giorno dopo giorno rischia di svuotarsi, e di perdere efficacia. La grande sfida per i brand è cercare di riempirla con intelligenza, con argomenti e comportamenti concreti, in linea con la propria filosofia, evitando facili scorciatoie o grossolane operazioni di greenwashing”.

Qual è il codice di comunicazione più funzionale al marketing sostenibile?
“Chi fa il nostro lavoro sa benissimo che di fronte a questa nuova consapevolezza, dobbiamo imparare ad essere rilevanti, abbandonando le scorciatoie. Non è più il tempo del ‘purché se ne parli’, bisogna che se ne parli per ragioni credibili e pertinenti. La cosa più importante è essere autentici, onesti e impostare strategie di comunicazione che si traducano con un impegno costante nel tempo. Non si costruisce una reputazione sostenibile in pochi giorni o con una sola campagna. È un percorso che va costruito nel tempo passo dopo passo”.

Come si costruisce un messaggio sostenibile efficace?
“Andando a fondo del ‘purpose’ aziendale, cioè del vero senso di esistere delle marche, cercando di trasmettere i suoi valori, comunicando tutte le azioni virtuose che le marche fanno in questa direzione. Più della retorica della sostenibilità fine a se stessa, oggi emergono in comunicazione le marche che sanno raccontare fatti concreti, ‘Acts not Ads’ potrebbe essere il nuovo codice di comunicazione. Passare dalla consapevolezza all’azione. Il pianeta sta collassando. Abbiamo capito tutti l’urgenza, adesso è il momento di fare qualcosa di concreto per cambiare”.

Cosa chiedono le aziende clienti?
“Chiedono strategie articolate, in grado di parlare al pubblico in tutte le piattaforme, e su tutti i touch points. Le aziende sanno come noi che è sempre più difficile catturare l’attenzione delle persone, drogate dai social, bombardate da milioni di stimoli, con la soglia di attenzione che è diventata più bassa di quella di un pesce rosso. In questo senso continuano a vincere le idee che hanno impatto e che sono capaci di ispirare il pubblico, idee che provano a migliorare la società, idee o esperienze che provano a cambiare il modo di pensare delle persone, e possibilmente il modo di agire”.

I consumatori sono sempre più consapevoli e penalizzano le campagne di mero greenwashing. Come si rende distintiva la credibilità green di un’azienda?
“Oggi serve coraggio. Il coraggio di idee forti. E il coraggio da parte delle aziende di prendere posizioni forti. Oggi i consumatori chiedono ai brand di assumersi la responsabilità di agire per un futuro più sostenibile e sono disposti a sostenerli nel farlo. Le marche possono diventare fonte di ispirazione. Nuove bussole per orientarci. Perché ciò che conta più di tutto sono le visioni del mondo, anche su temi fortemente controversi. Le aziende che fanno sentire i clienti ispirati, sono quelle che si guadagnano la loro fiducia e fedeltà a lungo termine, sono quelle che li fanno sentire più di semplici clienti, li fanno sentire parte di un progetto più grande. Questo perché le marche sono come le persone. Ci fidiamo di loro se ci piace quello che dicono e come lo dicono, se riconosciamo coerenza e autenticità. E soprattutto le aziende hanno scoperto che i clienti acquistano più volentieri prodotti delle aziende ritenute più responsabili. E che la responsabilità sociale produce effetti positivi sul business. Le aziende hanno scoperto il valore enorme delle community e scoperto il valore dell’aggregazione intorno alle ideologie. Quindi chi può prenda posizione, ma lo faccia davvero”.

Cingolani: “Contento di come stiamo gestendo la crisi del gas”

Non sono settimane facili per Roberto Cingolani, il ministro della Transizione Ecologica, costretto dal conflitto tra Russia e Ucraina a gestire situazioni inimmaginabili e di estrema delicatezza. “Se rifarei il ministro? E chi se lo immaginava un anno fa, quando mi ha chiamato il presidente Draghi, che sarebbe scoppiata una guerra? Ma quando uno dà la sua parola e presta questo servizio non si può tirare indietro perché è troppo difficile”, dice con un filo di voce. Aggiungendo che “la vita non è giusta, ma la vita è quella e va affrontata. Bisogna andare avanti e tenere la barra dritta”. Anche perché la congiuntura geopolitica non consente alternative.

Ministro Cingolani, saremo banali ma cominciamo dal gas. Kadri Simson, commissaria europea per l’Energia, sostiene che il gas sarà comunque imprescindibile nel futuro. Gas che noi italiani stiamo cercando di acquistare da nuovi interlocutori per liberarci dal giogo russo. Così, però, invece che da Mosca dipenderemo da altri.

“Noi intanto dobbiamo rimpiazzare al più presto 29 miliardi di metri cubi di gas che ci fornisce ogni anno la Russia per questioni umanitarie e politiche. Adesso ci stiamo occupando di questo a tempo pieno, siamo molto avanti, c’è un percorso di differenziazione che procede speditamente. Anche perché stiamo accelerando le rinnovabili e possiamo mantenere la nostra road map -55%. Sono già contento di poter dire che con questa catastrofe bellica, a differenza di altri Paesi, non abbiamo alcun piano con sorgenti sporche, lo scenario peggiore è che rimaniamo sul track attuale”.

Sì ma la dipendenza?

“Sono vent’anni che questo paese dice no a tutto… Vent’anni fa producevamo tra i 15 e i 20 miliardi di metri cubi di gas nostro, da nostri giacimenti, Si è deciso di andare sostanzialmente a zero. Oggi ne produciamo tre. Questa cosa avrebbe avuto senso se avessimo ridotto di altrettanto la quota di consumo globale. Invece abbiamo ferito gravemente l’industria del nostro gas andando a comprare il gas fuori e facendo esattamente lo stesso danno ambientale. Allora: dopo 20 anni in cui nessuno ammette l’errore, adesso ci lamentiamo di dipendere dagli altri pagando Iva e trasporti, chiudendo le nostre aziende? In un mese questo problema non si risolve. La differenziazione che stiamo portando avanti sfrutta il fatto che l’Italia ha la fortuna di avere 5 gasdotti, siamo connessi a Sud a Nord e a Est, e questo ci consente anche di differenziare geograficamente. Poi avremo due rigassificatori nuovi, non permanenti. Già il fatto di poter distribuire la pressione su 4-5 Paesi, per quanto instabili, è diverso che aver un unico interlocutore, che è la Russia. Comunque la colpa è legata agli errori del passato, per non aver sfruttato le nostre risorse naturali ma anche per aver detto no a qualunque tipo di alternativa energetica. Speriamo che questa lezione ci serva per allargare il portafoglio energetico“.

A proposito di fonti alternative. Lei ha accennato una volta al nucleare ed è scoppiato il finimondo…

“Io ho detto quello che pensavo sul nucleare e l’Europa ha dimostrato che avevo ragione al di là delle ideologie. Molti Paesi hanno reagito a Chernobyl e Fukushima con una chiusura, noi avevamo già i referendum che stabilivano qualcosa e io non posso che rispettare la volontà popolare. In questo momento non mi imbarcherei nella costruzione di una centrale di seconda o terza generazione, quelle francesi per essere chiari. Credo che iniziare oggi con questa tecnologia significa che quando potrà essere utilizzabile sarà vecchia. Io penso sia giusto spingere sull’innovazione. La quarta generazione, che poi sono motori di rompighiaccio nucleari, sono progetti piccoli modulari che si assemblano e possono anche essere messi sotto terra. Un energy mix ampio deve avere tutto”.

In tutto questo, con il ritorno al carbone per colpa della guerra, la transizione ecologica rallenterà? Greta direbbe blablabla…

“Non ritengo che Greta sia un riferimento dal punto di vista delle competenze. Il blablabla è una semplificazione di chi non ha mai fatto nulla e proclamarsi primi della classe è una semplificazione di chi è presuntuoso. Noi abbiamo gas e rinnovabili, paghiamo un energy mix stretto, un portafogli di energia non molto ampio, però il nostro phase out del carbone va avanti rapidamente. Direi anche che sulle rinnovabili ora c’è un’accelerazione impressionante. Non sono fautore di una nazione che va tutta a rinnovabili, tecnicamente in questo momento non è possibile per un problema di rete, di distribuzione regionale delle capacità di spostamento della rete e anche per un problema di accumuli. Quindi è troppo semplicistico dire installiamo in fretta grandissime quantità di rinnovabili perché tanto la rete non gestirebbe bene e gli accumuli sarebbero un problema”.

L’idrogeno affascina ma costa

“Costa quello verde, perché quanto più sei pulito tanto più costi. Ricordiamoci che l’idrogeno è un ottimo accumulatore”.

Come si pone il greenwashing? È diventata una necessità?

“Greenwashing mi sembra un neologismo che serva in queste infinite battaglie da tastiera. Quando una azienda o uno Stato ha un piano di decarbonizzazione o di recupero acqua, queste sono azioni che hanno ‘kpi’ misurabili, per cui al netto delle chiacchiere se io riesco a ridurre in un processo la Co2 o lo spreco di acqua, queste sono cose che si misurano, non c’è greenwash che tiene. Che poi qualcuno in nome del green dica cosa gli pare, ci sta anche, ma non condannerei per il gusto di condannare”.

Come vede l’Italia tra 8 anni, nel 2030?

“Prima della guerra avevo un’idea, adesso vorrei capire come va a finire. Due mesi fa, sembra due ere fa, vedevo un’Italia che aveva 5 anni per mettersi in una traiettoria virtuso a livello ambientale, tecnologico e sociale. Che poi avrebbe vissuto 25 anni sulle sue forze. Speriamo che questa guerra, finisca perché la decarbonizzazione è andata in secondo piano e si devono recuperare gli interessi generali per i grandi temi”.