rifiuti smartphone

Gli smartphone inquinano quanto Paesi Bassi e Venezuela

Immaginiamo di riunire assieme tutti i 4,5 miliardi di smartphone presenti nel mondo e di misurarne in un anno l’impronta nociva sull’ambiente. Il risultato? Circa 146 milioni di tonnellate di CO2 (o CO2e, emissioni equivalenti), un quantitativo simile a quello generato da stati come i Paesi Bassi o il Venezuela. I numeri forniti da Deloitte nelle sue TMT Predictions 2022 fanno ben capire quanto operazioni all’apparenza innocue, come acquistare o utilizzare un telefonino (o un altro device elettronico), possano avere ripercussioni sull’ambiente.

Secondo il rapporto Digital Green Evolution di Deloitte, le emissioni sono collegate soprattutto alle prime fasi del ciclo di vita di uno smartphone. Ben l’83% del totale è collegato alla produzione, al trasporto e al primo anno di utilizzo. Solo l’11% delle emissioni riguarda l’utilizzo a partire dal secondo anno di vita, mentre risulta residuale l’impatto delle attività di ripristino di smartphone esistenti (4%) e i processi di fine-vita, riciclo incluso (1%). Questo scenario rende evidente che la strada maestra per ridurre l’impronta ambientale degli smartphone è quella di incidere sulla produzione, favorendo soprattutto l’utilizzo di materiali riciclati che limitino le attività di estrazione delle terre rare, particolarmente inquinanti. Fondamentale anche allungare il ciclo di vita dei prodotti, rendendo maggiormente vantaggiosa la riparazione rispetto alla sostituzione del dispositivi. E in tal senso potrà giocare un ruolo chiave l’eventuale estensione del diritto alla riparazione che attualmente non include gli smartphone e altri device quali tablet e pc portatili.

Diritto riparazione

Anche i consumatori però possono fare la loro parte, adottando comportamenti maggiormente consapevoli. Oggi la vita media degli smartphone è stimata tra i 2 e i 5 anni, ma la tendenza sembra essere quella di ritardare sempre più la sostituzione del device. Secondo Deloitte, nel 2016 due italiani su tre dichiaravano di aver acquistato nell’ultimo anno e mezzo uno smartphone, mentre nel 2021 questa quota si è abbassata a poco meno della metà. Trend simili sono stati rilevati anche in Paesi come Germania, Regno Unito, Austria e Belgio.

Questa tendenza è senza dubbio positiva per l’ambiente, anche se pare essere più legata a motivazioni di stampo economico che a un’effettiva coscienza green dei consumatori in fatto di smartphone. Sempre secondo la ricerca di Deloitte, solo il 14% di chi acquista uno smartphone considera la durata attesa del dispositivo come una caratteristica importante nella scelta del modello. Si bada molto più a caratteristiche tecniche come la durata della batteria (49%), la velocità del processore (32%), la qualità della fotocamera (27%) e la capacità della memoria (27%), piuttosto che al semplice richiamo del brand (24%). Inoltre, appena il 2% presta attenzione all’eventuale impiego di materiali riciclati. Stesse dinamiche anche per chi utilizza uno smartphone usato o ricondizionato, cioè appena il 7% dei partecipanti all’indagine Deloitte. Tra questi, solo il 9% afferma di aver compiuto questa scelta per la volontà di essere rispettosi dell’ambiente: la spinta principale invece arriva dalla maggior economicità rispetto a un cellulare nuovo e dalla possibilità di ‘ereditare’ il device da parenti o amici (41% per entrambe le motivazioni).

emissioni

Parlamento Ue al voto su otto dossier del ‘Fit for 55’

Tredici proposte legislative, di cui otto revisioni di leggi esistenti e cinque nuove proposte. Il ‘Fit for 55’ è stato presentato dalla Commissione Europea il 14 luglio dello scorso anno come il più grande pacchetto sul clima finora varato in Unione Europea, pensato con l’obiettivo di portare il Continente a tagliare le emissioni di gas serra del 55% (rispetto ai livelli registrati nel 1990) entro il 2030, come tappa intermedia per l’azzeramento delle emissioni entro il 2050 (la neutralità climatica).

Il Parlamento europeo riunito in plenaria a Strasburgo da lunedì 6 a giovedì 9 giugno dovrà finalizzare la sua posizione su otto proposte legislative del pacchetto: una revisione del sistema di scambio di quote di emissione dell’Ue la revisione dell’ETS per quanto riguarda l’aviazione e il CORSIA, il sistema di compensazione del carbonio per ridurre le emissioni di CO₂ per i voli internazionali), l’introduzione di una nuova tassa sul carbonio sulle importazioni (il CBAM, acronimo di carbon border adjustment mechanism), nuovi standard di emissione di per automobili e furgoni, nuovi obiettivi per l’uso del suolo e le foreste per assorbire più carbonio, modifiche agli obiettivi nazionali degli Stati membri per la riduzione delle emissioni e, infine, la creazione di un Fondo sociale per il clima per ammortizzare i costi della transizione.

Una discussione sugli otto fascicoli del pacchetto è prevista nella giornata di martedì 7 giugno, con risultati del voto mercoledì. Dopo il via libera dell’Eurocamera, potrà iniziare il negoziato dell’Eurocamera con i governi che la Commissione europea, spera di concludere prima della prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP27) in programma a Sharm el-Sheikh, in Egitto, a novembre (7-18 novembre 2022). Da quando il pacchetto è stato presentato, quasi un anno fa, l’aumento dei prezzi dell’energia e la guerra di aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina iniziata lo scorso 24 febbraio, hanno portato la Commissione a presentare il piano ‘REPowerEU’ per l’indipendenza energetica dell’UE dai combustibili fossili russi al più tardi entro il 2027, che avrà come conseguenza, tra le altre, anche una modifica di alcune proposte avanzate neanche un anno fa. Tra queste, andranno incontro a una modifica i target sull’efficienza e le energie rinnovabili che sono stati rivisti al rialzo ma anche l’anticipo di alcune quote della riserva di stabilità di mercato del sistema Ets, per mobilitare 20 miliardi di euro per finanziare il piano.

Alberto Cirio

Cirio a Versalis: “Aiutateci a creare una vera economia circolare”

Arriva da Crescentino, al confine tra le province di Torino e Vercelli, la proposta del governatore piemontese, Alberto Cirio, a Versalis, che nelle campagne del piccolo comune ha dato vita all’unico impianto italiano di produzione di bioetanolo ‘advanced’, cioè ottenuto da biomasse lignocellulosiche che non sono in competizione con la filiera alimentare. Impianto che per Versalis “ha una straordinaria importanza dal punto di vista strategico perché è il primo esempio al mondo di applicazione industriale della tecnologia Proesa (Produzione di etanolo da biomasse) per la produzione di energia rinnovabile“, ha ricordato il presidente Marco Petracchini, durante un incontro istituzionale organizzato per illustrare il ciclo produttivo del sito. Ed è proprio al termine delle spiegazioni ‘tecniche’ che il governatore piemontese ha invitato i vertici di Versalis – società di Eni impegnata nello sviluppo della chimica green – ad allargare il concetto di economia circolare al territorio piemontese, così da portare “benefici non solo all’ambiente, ma anche a tutti i ‘pezzi’ del circolo, a partire dalle aziende“.

L’impianto di Crescentino, acquisito dal gruppo nel 2018, è stato completamente riconfigurato e dall’inizio del 2022 produce bioetanolo partendo da biomasse di legno e cellulosa che, sostanzialmente, sono scarti di altre produzioni. L’obiettivo è trattare 200mila tonnellate all’anno di masse green, per una capacità massima di di circa 25mila tonnellate all’anno di bioetanolo. Lo stabilimento, inoltre, si basa sulla circolarità: si autosostiene dal punto di vista energetico, grazie alla produzione di energia elettrica rinnovabile e vapore dalla centrale termoelettrica che viene alimentata da biomasse a filiera corta e dalla lignina coprodotta dal processo.

Ed è proprio sul tema della circolarità che si è concentrato il presidente della Regione. La Pianura Padana, ha ricordato, è una delle zone più inquinate d’Europaa causa della sua geografia, con le Alpi che ‘chiudono’ Piemonte, Lombardia e Veneto e impediscono ai venti di spazzare via l’inquinamento. In queste Regioni ci sono restrizioni maggiori da parte di Bruxelles per quanto concerne gli scarti dell’agricoltura: ad esempio, è possibile bruciare i residui della potatura soltanto in un determinato periodo dell’anno, cioè dopo aprile. Ma le potature si fanno a ottobre e novembre. E cosa se ne fanno di tutto quel materiale se non possono smaltirlo?“. La Regione, ha spiegato, sta finanziando gli agricoltori affinché “si consorzino e acquistino dei cippatori” e allora “vi chiedo“, ha detto rivolgendosi ai vertici di Versalis, “perché non affiniamo meglio questo meccanismo? Se noi li sosteniamo in questa iniziativa, perché non vi attivate affinché il prodotto della cippatura trovi una destinazione sul territorio, cioè nel vostro impianto?

È un progetto che noi abbiamo già in mente – ha risposto Sergio Lombardini, responsabile BU Biochem Versalisma ci sono, al momento, ostacoli non di natura tecnica, quanto di partnership e normativa“. Ostacoli che, però, potrebbero essere superati “consorziandoci e creando, possibilmente, questa unità di cippatura con una municipalizzata“. “La sua proposta – ha rimarcato – incontra assolutamente una nostra idea“.

Il governatore piemontese, al termine del suo intervento, ha sottolineato quanto sia importante per la politica “progettare e avere una visione. Abbiamo un problema – ha ricordato – che è l’inquinamento. E allora dobbiamo trasformarlo in una opportunità, mettendo l’agricoltura al centro di un sistema di economia circolare. Ci sono molti soldi che arrivano dall’Europa e sono a disposizione per finanziare anche iniziative come queste. Mettiamo sempre un tappeto rosso a chi vuole investire in Piemonte“.

bioplastiche

Anche le bioplastiche si degradano lentamente nell’ambiente

Se disperse nell’ambiente, anche le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio. Lo dimostrano i risultati di un innovativo esperimento condotto congiuntamente da Consiglio nazionale delle ricerche – coinvolto con l’Istituto per i processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) e l’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar), Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) e Distretto ligure per le tecnologie marine (DLTM), con il supporto del polizia di Stato – Centro Nautico e Sommozzatori La Spezia (CNeS).

Lo studio, pubblicato sulla rivista open access Polymers, ha riguardato il comportamento a lungo termine di differenti tipologie di granuli di plastica vergine (resin pellet) utilizzati per realizzare oggetti di uso comune.

Sono stati comparati due polimeri tra i più impiegati negli oggetti di plastica -HDPE e PP- e due polimeri di plastica biodegradabile -PLA e PBAT-, verificandone il grado di invecchiamento e degradazione rispettivamente in acqua di mare e sabbia: in entrambi gli ambienti, nell’arco di sei mesi di osservazione, né i polimeri tradizionali né quelli bio hanno mostrato una degradazione significativa. L’osservazione dei campioni, unitamente all’esito di analisi chimiche, spettroscopiche e termiche condotte presso il laboratorio pisano del Cnr-Ipfc, coordinato dalla ricercatrice Simona Bronco, mostra che nell’ambiente naturale le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale.

Data l’altissima diffusione di questi materiali, è importante essere consapevoli dei rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento: è necessario informare correttamente”, spiega la ricercatrice Silvia Merlino del Cnr-Ismar di Lerici (La Spezia), coordinatrice del progetto.

Questo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile, soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”, aggiunge Marina Locritani, ricercatrice dell’INGV e co-coordinatrice dello studio.

L’esperimento, ad oggi il primo di questo tipo realizzato interamente in situ, ha utilizzato per il set up sperimentale la piattaforma multiparametrica di monitoraggio ambientale ‘Stazione Costiera del Lab Mare’ posta a 10 metri di profondità nella Baia di Santa Teresa nel Golfo della Spezia. Qui sono state alloggiate particolari ‘gabbie’ progettate per contenere i campioni di plastica; è stata inoltre predisposta una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici per simulare la superficie di una spiaggia. L’esperimento è tuttora in corso e si concluderà nel 2023.

Ulteriori esperimenti riguarderanno lo studio dei processi di degradazione in condizioni di maggiore profondità, grazie all’installazione di ulteriori gabbie contenenti plastiche e bioplastiche nella ‘Stazione profonda del Lab Mare’ a circa 400 metri di profondità, sempre in acque liguri. Inoltre, in collaborazione con l’Istituto zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta (IZTO), è già in corso un ulteriore studio che prevede l’analisi comparata dello stato di degradazione dei resin pellet in mare e della presenza di sostanze chimiche (IPA, PCB, pesticidi) ivi disciolti e da essi assorbiti, nonché il confronto con i processi di ritenzione di contaminanti da parte dei mitili, storicamente ritenuti le sentinelle dell’inquinamento.

I cotton fioc dalle case alle spiagge: l’assurdità della plastica usa e getta

I cotton fioc in plastica sono uno degli oggetti finiti nel mirino della Direttiva europea sulle plastiche monouso: per loro, le cannucce, i bastoncini per mescolare il caffè, le aste per palloncini e una serie di altri oggetti letali per l’ambiente e che possono facilmente essere prodotti in altri materiali – che magari non abbiano un ciclo di vita tendente all’infinito – è scattato da oltre un anno il divieto di vendita.

 

inquinamento

Diminuiscono le emissioni ma aumentano eventi meteo estremi

Il Rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) 2021 dell’Istat rivela un ritratto drammatico dell’Italia, con un aumento dei divari nella popolazione e l’arretramento del benessere soprattutto fra donne e giovani. Nel report un lungo capitolo è dedicato alle tematiche ambientali. Il cui quadro è ancora decisamente influenzato dalla pandemia, con la riduzione delle emissioni di CO2 a causa delle prolungate chiusure di attività economiche e l’attenuarsi dell’inquinamento da PM2,5, che rimane, tuttavia, elevato e senza miglioramenti apprezzabili. Dagli indicatori del Bes emerge che per effetto dei cambiamenti climatici aumentano gli eventi meteo-climatici estremi come periodi di caldo, assenza di pioggia e precipitazioni estreme. Fenomeni che, tra l’altro, acuiscono il rischio delle popolazioni esposte a frane e alluvioni. Sono ancora forti le criticità nella distribuzione dell’acqua potabile e nella raccolta e nel trattamento delle acque reflue urbane. La superficie delle aree terrestri protette, che ricopre oltre un quinto del territorio nazionale, e la disponibilità di verde pubblico pro capite nelle città italiane, non subiscono avanzamenti sostanziali negli ultimi anni. Seppur a un ritmo minore rispetto a quello degli anni passati, continua l’incremento del consumo di suolo prodotto dalle coperture artificiali impermeabili. Si riduce la produzione pro capite di rifiuti urbani per effetto del ciclo economico e prosegue la riduzione della quota ancora smaltita in discarica. Si conferma l’incremento degli ultimi anni della percentuale di energia elettrica da fonti rinnovabili.

INQUINAMENTO DA PM2,5

Per la qualità dell’aria, nel 2020 si rileva una diminuzione della percentuale dei superamenti di PM2,5 che si attestano al 77,4%, valore più basso dell’indicatore dal 2010, mentre nell’anno prepandemico (2019) risultavano l’81,9%. Questo andamento di attenuazione del fenomeno dell’inquinamento da PM2,5 non si riscontra nelle ripartizioni nord occidentale e orientale dove storicamente si osservano i valori più elevati dell’indicatore, che nel 2020 sono stabili rispetto all’anno precedente.

LE EMISSIONI DI CO2 E GAS EFFETTO SERRA

Diminuiscono nettamente nel 2020 le emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti (o gas effetto serra) generate dalle attività economiche e dalle famiglie, raggiungendo il valore di 6,6 tonnellate di CO2 equivalente per abitante, per effetto delle restrizioni imposte nel periodo del lockdown. Si conferma la flessione iniziata nel 2008, anno in cui le tonnellate pro capite emesse erano 9,8.

TEMPERATURE E PRECIPITAZIONI

Sono sempre più evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici in termini di temperature e precipitazioni. Nel 2021 le temperature minime e massime risultano maggiori rispetto alla media climatica (periodo di riferimento 1981-2010). L’intensità dei giorni di caldo negli anni 2011-2021 risulta sempre maggiore rispetto alla mediana del periodo di riferimento in tutte le ripartizioni. Nel 2021 i giorni di caldo risultano assenti nel Nord, stazionari al Centro (+18 giorni) e mostrano scarti positivi maggiori nel Sud (25 giorni) e nelle Isole per 13 giorni. Riguardo alle precipitazioni lo scarto rispetto alla mediana del periodo di riferimento a livello nazionale è pari a +2%, ma la situazione è più eterogenea e varia molto con la latitudine, passando da scarti negativi nel Nord (con punte superiori a -11% in Piemonte ed Emilia-Romagna) e in parte del Centro, fino ad anomalie positive diffuse nel Sud e molto elevate nelle Isole (+27,6%). Nel 2021 si osserva una riduzione dei giorni consecutivi non piovosi a scala nazionale, dovuta in particolare alle ripartizioni del Nord e delle Isole, mentre al Sud si osserva un aumento (+6 giorni). Nel 2020 si rileva una riduzione dei volumi di acqua movimentati nelle reti comunali dei capoluoghi rispetto al 2018. I volumi immessi in rete si contraggono di oltre il 4%, a fronte del -1,6% dei volumi erogati. Ne consegue una riduzione delle perdite totali di rete di circa 1 punto percentuale, proseguendo la tendenza degli anni precedenti. Anche la pandemia può aver generato delle modifiche nei volumi movimentati in distribuzione, infatti, in alcuni comuni a forte vocazione turistica, come Rimini e Venezia, si registra un’importante riduzione dei volumi erogati, -11,8% e -13,9% rispetto al 2018.

RIFIUTI URBANI

Nel 2020 la produzione di rifiuti urbani in Italia è scesa a 28,9 milioni di tonnellate (-3,6% dell’ammontare complessivo rispetto al 2019), pari a 487 chilogrammi per abitante (-16 chilogrammi pro capite) tornando quasi al valore pro capite più basso dal 2010, registrato nel 2015 (486,2). Nel 2020, sono stati conferiti in discarica il 20,1% del totale dei rifiuti urbani; era il 20,9% nel 2019 e il 46,3% nel 2010. La quota del Nord-ovest e del Nord-est risulta molto al di sotto della media, Centro e Sud hanno andamento e valori più prossimi alla media, mentre nelle Isole si osservano quote molto maggiori, si tratta di valori al lordo dei flussi in entrata e in uscita dalle regioni e delle ripartizioni e che non permettono quindi una valutazione sulla performance dei territori. Nel 2020 sono stati consumati 45.920 milioni di tonnellate di materia, circa l’8% in meno rispetto all’anno precedente e in controtendenza rispetto alla graduale crescita registrata nel periodo 2017-2019.

LA SENSIBILITÀ DELLE PERSONE AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Gli effetti dei cambiamenti climatici e dell’aumento dell’effetto serra rappresentano uno dei problemi ambientali che preoccupano maggiormente le persone. Tuttavia, se fino al 2019 la percentuale di persone di 14 anni e più che ritengono che questo sia uno dei problemi ambientali principali era in costante crescita, nel biennio 2020-2021 si registra un’inversione di tendenza che riguarda tutto il territorio (dal 71% del 2019 al 66,5% del 2021). Tale decremento e stato più significativo nel Nord-est, dal 73,6% al 68,2%, e nelle Isole, dove si riduce dal 72,8% al 64,1%. Nel 2021 il livello di interesse per queste tematiche torna a quello registrato nel 2018 (66,6%), evidenziando un aumento di attenzione in concomitanza con i movimenti di protesta a livello globale del 2019-2020. Inoltre, è ragionevole ipotizzare che le preoccupazioni per la pandemia e di conseguenza per la crisi economica siano state preponderanti.

inquinamento

Dal 2035 stop ai motori a combustione: i piani Ue per mobilità verde

Ridurre le emissioni di gas serra provenienti dal settore dei trasporti entro il 2030. La Commissione Europea – nel quadro del pacchetto sul clima ‘Fit for 55’ presentato a luglio 2021 – ha proposto di rivedere gli standard di emissione di CO2 per auto e furgoni, per arrivare a tagliare le emissioni del 55% entro il 2030 e azzerarle al 2035. Per questo, dal 2035 ha posto anche l’obiettivo, già molto discusso a livello di Stati membri, di vietare la produzione di veicoli con motori a combustione interna, come benzina e diesel.

I limiti sulle emissioni di CO2 di flotta a livello dell’Ue sono stati introdotti per la prima volta nel 2012 e prevedono oggi per le auto una riduzione del 15% a partire dal 2025 e riduzione del 37,5% dal 2030, mentre per i furgoncini del 15% dal 2025 e del 31% dal 2030. La Commissione Ue propone che dal primo gennaio 2030 i limite sia al 55% per le auto e 50% per i furgoni, mentre da gennaio 2035, 100% per le auto e i furgoni.

Su questo dossier del pacchetto climatico, mercoledì la commissione per l’Industria e l’energia (ITRE) del Parlamento europeo ha adottato con 40 voti favorevoli, 17 contrari e 19 astenuti il suo parere in vista del voto finale in plenaria, chiedendo però che non ci sia alcuna eliminazione graduale dei motori a combustione interna entro il 2035, solo una riduzione del 90% delle emissioni. Richiesto inoltre di accelerare la revisione dei requisiti a partire dal 2027, con tre anni di anticipo rispetto alla proposta della Commissione.

Nello stesso pacchetto sul clima di luglio, la Commissione Ue ha proposto un regolamento per espandere l’infrastruttura di ricarica per i combustibili alternativi (elettricità, idrogeno, biocarburanti, combustibili sintetici e GPL) con cui creare le basi per una mobilità più pulita e con meno emissioni, più diffusa a livello europeo dove fatica a espandersi. I trasporti sono per l’Ue uno dei settori più difficili da decarbonizzare. Complessivamente, nel 2018 il trasporto su strada è stato responsabile del 26% di tutte le emissioni di CO2 dell’Ue, con un aumento costante rispetto ai livelli del 1990.

La scelta di adottare un regolamento, in quanto obbligatorio, è dettata dalla necessità di rendere più veloce l’armonizzazione dei requisiti tra Stati membri. La Commissione ha proposto di introdurre un obiettivo basato sulla flotta per auto e camion per arrivare a installare circa 3,5 milioni di punti di ricarica nell’Ue entro il 2030: per cui, più veicoli elettrici ci sono in circolazione, più infrastrutture di ricarica devono essere installate. Questo significa che l’espansione dell’infrastruttura di ricarica per i veicoli elettrici deve sempre corrispondere al numero di veicoli elettrici immatricolati in ciascun Paese. La commissione ITRE dell’Europarlamento ha approvato sempre mercoledì con 59 voti a favore, 9 contrari e 8 astensioni il suo parere sulla proposta dell’Esecutivo, chiedendo di anticipare di cinque anni (al 2025) gli obiettivi per la creazione di stazioni di ricarica elettriche e di installare almeno un punto di ricarica rapida per le auto ogni cinque chilometri nelle città e almeno ogni 60 chilometri nelle aree rurali. Il voto in plenaria su entrambi i dossier è ora previsto durante la sessione plenaria di luglio, così da far iniziare i negoziati a tre con il Consiglio dopo l’estate.

covid

Con l’inquinamento il Covid diventa ancora più letale

Uno studio condotto dai ricercatori della Karolinska Institutet, pubblicato su JAMA network Open, stabilisce che l’esposizione residenziale agli inquinanti atmosferici è legata a un rischio elevato di infezione da SARS-CoV-2, come dimostra un’osservazione scientifica su giovani adulti di Stoccolma, in Svezia. Poiché gli inquinanti nell’aria esterna possono aumentare il rischio di infezioni respiratorie come l’influenza e la SARS, la pandemia di Covid-19 ha suscitato timori che potrebbero anche contribuire al rischio di infezione da SARS-CoV-2. Gli studi hanno anche dimostrato che le aree di scarsa qualità dell’aria hanno più casi di Covid-19.

I ricercatori del Karolinska Institutet hanno ora studiato questo aspetto più da vicino, esaminando il legame tra l’esposizione stimata agli inquinanti dell’aria negli indirizzi di casa e i test PCR positivi per la SARS-CoV-2 nei giovani adulti di Stoccolma. I risultati mostrano che l’esposizione a certi inquinanti atmosferici legati al traffico è associata a una maggiore probabilità di risultare positivi al test. “I nostri risultati si aggiungono al crescente corpo di prove che l’inquinamento atmosferico ha un ruolo nel Covid-19 e sostengono il potenziale beneficio di migliorare la qualità dell’aria”, dice Olena Gruzieva, professore associato presso l’Istituto di medicina ambientale al Karolinska Institutet e uno degli ultimi autori dello studio.

Lo studio si fonda sul progetto Bamse, basato sulla popolazione, che ha seguito regolarmente oltre 4.000 partecipanti a Stoccolma dalla nascita. Collegando questi dati al registro nazionale delle malattie trasmissibili (SmiNet), i ricercatori hanno identificato 425 individui che erano risultati positivi alla SARS-CoV-2 (test PCR) tra maggio 2020 e la fine di marzo 2021. L’età media dei partecipanti era di 26 anni e il 54% erano donne.

I ricercatori hanno studiato le associazioni tra l’infezione e l’esposizione agli inquinanti atmosferici nei giorni precedenti il test PCR positivo, il giorno del test e nei giorni successivi di controllo. I risultati mostrano associazioni tra il rischio di infezione e l’esposizione a PM10 e PM2.5 due giorni prima di un test positivo e l’esposizione al black carbon un giorno prima. Non hanno trovato alcun legame, invece, tra il rischio di infezione e gli ossidi di azoto.

L’aumento del rischio era intorno al sette per cento per ogni aumento di esposizione alle particelle equivalente all’intervallo interquartile, cioè tra il primo quartile (25%) e il terzo quartile (75%) delle concentrazioni di particelle stimate. “Il sette per cento non sembra molto, ma dato che tutti sono più o meno esposti agli inquinanti atmosferici, l’associazione può essere di grande importanza per la salute pubblica”, dice Erik Melén, professore di pediatria presso il Dipartimento di Scienze Cliniche e Formazione, Södersjukhuset, Karolinska Institutet, Bamse project leader e ultimo autore congiunto dello studio.

allevamento

Allevamenti ad alte emissioni. Quanto inquina la produzione di carne e latte?

Nella strategia Farm to fork, incentrata sull’intera filiera alimentare che va dal campo al piatto dei consumatori, l’Unione europea affronta il problema di come rendere più sostenibili le attività agricole, che in Europa sono la terza fonte di emissione di Gas a effetto serra (Ghg). Tra queste, l’allevamento è quella più impattante, responsabile dei quattro quinti delle emissioni agricole. La situazione non è però omogenea a livello mondiale. Vale quindi la pena di approfondire il tema per capire quanto in effetti inquini la produzione di carne, latte e altri alimenti di origine animale. Partiamo dal contesto globale, confrontando alcuni studi sull’impatto dell’attività zootecnica per comprendere l’entità delle emissioni climalteranti prodotte da questo comparto e valutarne il peso effettivo rispetto ad altre attività antropiche.

allevamenti

Al livello globale, secondo la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), tra il metano sprigionato dalla fermentazione enterica dei ruminanti e dalla gestione delle deiezioni animali che produce anche ossido di azoto, nel 2019 l’impatto degli allevamenti è stato di 3,7 Gigaton (Gt) di Co2 equivalente, unità di misura che prende in considerazione gli effetti delle diverse sostanze climalteranti rapportandoli a quelli dell’anidride carbonica, standardizzandone così la misurazione. Si tratta dei dati più recenti disponibili, pubblicati nel rapporto ‘FaoStat Analytical Brief 2021’ e riferiti al 2019, dai quali emerge che la zootecnia è responsabile del 51,4% delle emissioni derivanti dall’attività agricola, al netto di quelle prodotte dal cambio di destinazione d’uso del suolo. Rispetto al totale delle emissioni antropiche a livello globale, indicate nello studio ‘Emission gap report 2020’ dell’Unep (Programma delle Nazioni unite per l’ambiente) in 59,1 Gt di Co2 equivalente nel 2019, l’agricoltura nel complesso risulta responsabile del 12,2 per cento delle emissioni, mentre agli allevamenti in particolare è imputabile il 6,3 per cento del totale dei gas serra prodotti dall’uomo.

Per avere un’idea più chiara del peso della produzione di cibo sul riscaldamento globale, può essere utile un confronto con le altre attività produttive. Il riferimento è sempre il rapporto Unep 2020, che attribuisce il 24% delle emissioni totali prodotte nel 2019 alla sola produzione di elettricità e riscaldamento. Il settore dei trasporti, altro comparto critico per l’aumento delle temperature globali, è invece responsabile del 14% delle emissioni totali, prodotte principalmente dal trasporto su gomma. Nel settore dell’industria, il solo utilizzo di energia produce l’11 per cento dei Ghg globali, e un ulteriore 9 per cento è prodotto dai processi industriali.

pirolisi

Biocarburante dalle mascherine, cos’è la pirolisi

Come recuperare le mascherine già utilizzate? Uno studio pubblicato nel 2021 sulla National Library of Medicine ha stimato che a livello globale circa 3,4 miliardi di mascherine o visiere monouso vengano scartate ogni giorno a causa della pandemia. Ogni giorno. È necessario dunque elaborare una strategia efficace che riduca al minimo l’impatto ambientale del continuo flusso di rifiuti Covid-19 e alcuni scienziati pensano che trasformare i rifiuti in carburante possa essere un’opzione.

Diversi studi negli ultimi due anni hanno proposto come tecnica la pirolisi, un metodo efficace che non solo mitigherà l’inquinamento da plastica, ma che è anche capace di convertire i rifiuti in carburante bio. La pirolisi (dal greco pir – fuoco e lisi-sciogliere) è in estrema sintesi la decomposizione di un materiale attraverso il calore, ma senza ossigeno. Se ci fosse l’ossigeno, sarebbe combustione. Ad esempio la pirolisi della plastica è una tecnologia utilizzata per produrre oli dalla plastica. Questi oli possono poi essere utilizzati per produrre nuova plastica o combustibili. Mascherine e guanti chirurgici possono essere facilmente convertiti in carburante perché sono realizzati in polipropilene e cloruro di polivinile, che sono polimeri termoplastici ad alto contenuto di olio. L’olio ottenuto dalla pirolisi, riferisce lo studio, è paragonabile al combustibile commerciale perché le sue proprietà sono simili a quelle dei combustibili fossili. Uno studio del febbraio 2022 pubblicato su ‘Bioresource Technology’ riferisce di come le mascherine chirurgiche siano state trasformate in olio liquido e ha scoperto che il loro potere di calore più elevato è di 43,5 megajoule per chilogrammo, che è solo leggermente inferiore a quello del carburante diesel e della benzina rispettivamente a 45,8 e 46,3 MJ/kg .

LA PIROLISI HA UN IMPATTO AMBIENTALE SOSTENIBILE?

Sebbene la pirolisi sia un metodo promettente per trattare i dpi di scarto, valutarne la sostenibilità energetica e ambientale complessiva è ancora oggetto di studio. Una ricerca del 2022 pubblicata su ‘Renewable and Sustainable Energy Reviews’ ha proposto un sistema ottimale di trattamento dei rifiuti di dpi basato sulla pirolisi che potrebbe ridurre l’uso di combustibili fossili del 31,5% e produrre il 35,04% in meno di emissioni di gas serra rispetto al processo di incenerimento. Eviterebbe inoltre il 41,52% e il 47,64% dell’occupazione naturale totale del suolo dai processi di discarica e incenerimento dei dispositivi di protezione individuale.

 

GLI USA CHIEDONO UN’ACCELERAZIONE SULLE TECNOLOGIE

Lo scorso settembre, l’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti (Epa) ha sollecitato informazioni reali su costi, progettazione e tecnologie di pirolisi per un potenziale sviluppo di normative legate a questo processo, dato che il Paese è ancora alle prime fasi di sviluppo della tecnologia. L’Epa, sul suo sito, parla infatti di “potenziale sviluppo di normative per le unità di pirolisi e gassificazione utilizzate per convertire materie prime solide o semi-solide, compresi i rifiuti solidi (ad esempio rifiuti solidi urbani, rifiuti commerciali e industriali, rifiuti ospedalieri/medici/infettivi, fanghi di depurazione, altri rifiuti solidi), biomassa, plastica, pneumatici e contaminanti organici nel suolo e fanghi oleosi a prodotti utili come energia, combustibili e prodotti chimici”.