Scoperto colorante ecologico per tingere di blu il jeans

Ridurre l’impatto ambientale della tintura dei jeans e tutelare la sicurezza dei lavoratori. Arriva da uno studio pubblicato su Nature Communications un nuovo metodo per rendere più sostenibile il settore della tintura tessile, che potrebbe ridurre del 92% il danno ambientale, a fronte di un modesto aumento dei costi. La produzione di denim blu, un’industria da miliardi di dollari, attualmente utilizza un colorante chiamato indaco, l’unica molecola conosciuta in grado di fornire questo colore unico. Il processo genera notevoli emissioni di CO2 e comporta l’utilizzo di grandi quantità di sostanze chimiche tossiche, che possono causare inquinamento ambientale e avere un impatto sulla salute dei lavoratori del settore tessile e delle comunità locali.

L’Indican, un precursore incolore dell’indaco, offre un’alternativa ecologicamente interessante alla tintura del denim, poiché non richiede l’uso di sostanze chimiche aggressive e può essere convertito in indaco direttamente sul filato. Tuttavia, per adottare questo approccio, sono necessari metodi per produrre grandi quantità di questa sostanza.

Ditte Welner, Katrine Qvortrup e colleghi della Technical University of Denmark, hanno ingegnerizzato una variante migliorata di un enzima chiamato indoxil glicosiltransferasi, presente nella pianta Polygonum tinctorium, in grado di produrre indican in modo economico su scala industriale. Hanno inoltre dimostrato processi di tintura economicamente fattibili e a basso impatto per convertire l’indican in indaco e tingere il denim, tra cui un approccio che utilizza gli enzimi e un altro guidato dalla luce. In quest’ultimo caso, è stato dimostrato che varie fonti di luce aiutano a tingere il denim in soluzione con il tessuto, tra cui Led ad alta efficienza energetica, luce naturale e persino una lampadina domestica. La tintura guidata dalla luce può potenzialmente ridurre l’impatto ambientale della tintura del jeans del 73%, rispetto a una riduzione del 92% con quella enzimatica. Gli autori suggeriscono che questi metodi potrebbero ridurre la produzione di rifiuti tossici e diminuire le emissioni globali annue di CO2 di 3.500.000 tonnellate, dal momento che, secondo le analisi di mercato, ogni anno vengono commercializzati 4 miliardi di paia di jeans.

Gli autori suggeriscono che un impatto ambientale ridotto potrebbe fornire un incentivo per una produzione più localizzata nel mercato occidentale del denim, che potrebbe migliorare la trasparenza della catena di approvvigionamento e la sostenibilità dell’industria tessile.

‘Unraveled’ di Maxine Bédat in Italia: viaggio dentro il lato oscuro della moda

Viaggio nell’inferno degli stabilimenti nel Guandong, in Cina, e ritorno. Passando per la discarica di Kpone in Ghana.

Il 13 giugno esce anche in Italia Unraveled (Penguin 2021) di Maxine Bédat, con il titolo ‘Il lato oscuro della moda- Viaggio negli abusi ambientali (e non solo) del fast fashion’.

L’imprenditrice, ricercatrice e attivista segue per il mondo intero la vita di un paio di jeans. Da una fattoria di cotone in Texas, alle fabbriche di tintura e tessitura in Cina, passando per la filatura in Bangladesh e Sri Lanka, torna negli Stati Uniti per i magazzini, finisce in Africa per lo smaltimento. Così rivela le ricadute del nostro guardaroba sull’ambiente. Un tour-de-force provocatorio nel fast fashion, che parla di economia globale e di come tutti noi possiamo orientarla.

Bédat osserva e descrive lavoratori costretti a “produrre capi con la stessa efficienza delle macchine” e a spedire gli articoli “con la stessa velocità dei robot pronti a sostituirli“.  Ma affronta anche il grande tema dei rifiuti, problema sul quale l’industria della moda sta riflettendo collettivamente, soprattutto aumentando la circolarità. Nel fast fashion i jeans finiscono in discarica o vengono spediti nei Paesi in via di sviluppo dove, scrive l’autrice, “sono venduti per pochi centesimi nei mercati di seconda mano o sepolti e bruciati in montagne di rifiuti“.

Il volume è stato tra i finalisti dei Book of the Year 2021 del Financial Times. Un libro denuncia di un modello che si rivela totalmente insostenibile non solo dal punto di vista ambientale ma anche sociale. Destinato ai consumatori che spesso preferiscono acquistare di più a un prezzo minore, senza pensare a cosa nasconde un certo tipo di consumismo.

In occasione dell’uscita del volume in Italia, Maxine Bédat sarà protagonista sabato 11 giugno al Festival della Green Economy di Parma, per discutere di nuovi modelli economici e produttivi sostenibili, dal punto di vista sia economico che sociale.

Levi’s: l’intramontabile guarda al futuro, il 501 diventa circolare

1985. Nick Kamen entra in una lavanderia a gettoni di una New York degli anni ’50, sfila t-shirt nera e jeans sulle note di ‘I Heard It Through the Grapevine’, infila tutto in lavatrice e resta in boxer, leggendo un quotidiano, in attesa di poterli re-indossare. ‘Levi’s 501 or nothing’, recitava lo slogan.

Se il jeans è il capo “circolare” per eccellenza – indossato fino al cedimento, accorciato, trasformato in borse, toppe, accessori d’ogni tipo -, il 501 è probabilmente il modello più conosciuto della storia. Intramontabile, fedele a se stesso per 149 anni (tanti ne ha compiuti a maggio) eppure capace di stare al passo con i tempi.

Era necessario, perché l’industria dei jeans è tra le più insostenibili del mondo della moda.

Per crearne un paio tradizionali occorrono circa 7.500 litri di acqua, tra la produzione del cotone e le lavorazioni di finissaggio. Il ‘mea culpa’ pubblico di Levi’s è una delle operazioni di comunicazione aziendale più riuscite: “Lo confessiamo – ammette l’azienda – Non siamo sempre andati nella direzione giusta. Essere un marchio di abbigliamento estremamente sostenibile è un obiettivo che ci sta a cuore, e ci stiamo ancora lavorando. Abbiamo fatto passi da gigante in diversi ambiti e ci sforziamo di migliorare in altri, ma la strada è ancora lunga”.

Nasce così, quest’anno, il 501 Designed for Circularity, un modello realizzato con cotone organico riciclato al 100%. Nei processi di lavorazione del capo vengono eliminati tutti gli elementi inquinanti, per evitare di interrompere il processo di riciclo del cotone.

Anche lo slogan ora sposta il focus dalla creazione del mito alla consapevolezza del cliente: ‘Buy better, wear longer’ (‘Compra meglio, indossa più a lungo’).

L’azienda fa ricerca su innovazioni che allunghino la vita dei prodotti: canapa cotonizzata, Levi’s WellThread, Water<Less, con cui si riducono il consumo di acqua e gli sprechi in generale. “La nostra concezione di durevolezza va ben oltre il semplice uso quotidiano. I prodotti sono concepiti per essere vissuti e per diventare ancora più belli con gli anni”, spiegano.

Dall’introduzione del progetto Water<Less, lanciato nel 2011, il risparmio di acqua è stato di oltre 4,2 miliardi di litri. Sono stati riutilizzati e riciclati 9,6 miliardi di litri d’acqua. Il 75% del cotone usato al momento proviene da fonti più sostenibili (l’obiettivo del 100% è stato fissato per il 2025, anno in cui si prevede di alimentare con il 100% di energia rinnovabile gli impianti di proprietà), e circa l’80% dei prodotti è confezionato in stabilimenti che applicano programmi Worker Well-Being, a tutela dei lavoratori. La strada da fare è ancora lunga, ma il sentiero è quello giusto.