Dall’Elba all’Ebro, i grandi fiumi europei invasi dalle microplastiche

Alcune galleggiano, altre si depositano nel letto dei corsi d’acqua: le microplastiche hanno invaso i fiumi europei, dall’Elba in Germania all’Ebro in Spagna, passando per la Senna o il Tamigi, rivelano 14 studi pubblicati contemporaneamente sulla rivista ‘Environmental Science and Pollution Research’. “L’inquinamento è presente in tutti i fiumi europei” studiati, afferma Jean-François Ghiglione, ricercatore del CNRS in ecotossicologia microbica marina, che nel 2019 ha coordinato una campagna su larga scala su nove grandi fiumi del Vecchio Continente. La spedizione Tara Microplastiques ha coinvolto 40 chimici, biologi e fisici di 19 laboratori di ricerca e numerosi dottorandi e post-dottorandi, con il sostegno della fondazione Tara Océan.

Nell’Elba, nell’Ebro, nella Garonna, nella Loira, nel Rodano, nel Reno, nella Senna, nel Tamigi e nel Tevere, viene applicato lo stesso metodo, con un lavoro meticoloso di raccolta e analisi di campioni prelevati alla foce dei fiumi, per poi risalire i corsi d’acqua fino alla prima grande città di ogni fiume. “Le microplastiche sono più piccole di un chicco di riso”, spiega Alexandra Ter Halle, fisico-chimica del CNRS di Tolosa che ha effettuato le analisi: si tratta di particelle inferiori a 5 millimetri, le più piccole sono invisibili ad occhio nudo. Ci sono fibre di tessuti sintetici provenienti dal lavaggio, microparticelle che fuoriescono sotto i pneumatici delle auto o quando si svita il tappo di una bottiglia d’acqua, o granuli vergini dell’industria della plastica.

Secondo gli scienziati, l’inquinamento “allarmante” osservato è in media “di tre microplastiche per metro cubo d’acqua” nei nove fiumi studiati. Certo, siamo lontani dai 40 microplastici per m3 rilevati nei 10 fiumi più inquinati del mondo (Fiume Giallo, Yang Tse, Mekong, Gange, Nilo, Niger, Indo, Amur, Pearl, Hai He) che irrorano i paesi in cui si produce più plastica o si trattano più rifiuti. Ma considerando i volumi di acqua che scorrono, “a Valence, nel Rodano, abbiamo una portata di 1.000 metri cubi al secondo, il che significa che abbiamo 3.000 particelle di plastica al secondo”, osserva Jean-François Ghiglione. Sulla Senna sono 900 al secondo.

Gli scienziati hanno scoperto una “novità” che li ha “sorpresi”, grazie a un progresso nei metodi di analisi sviluppati nel corso dello studio: “la massa delle piccole microplastiche, quelle che non si vedono ad occhio nudo, è maggiore di quella di quelle che si vedono”, osserva Ghiglione. Tuttavia, “le grandi microplastiche galleggiano e vengono raccolte in superficie, mentre quelle invisibili sono distribuite su tutta la colonna d’acqua e vengono ingerite da molti animali e organismi”.

Uno degli studi ha identificato un batterio virulento su una microplastica nella Loira, in grado di scatenare infezioni nell’uomo.

Altro risultato inaspettato: un quarto delle microplastiche scoperte nei fiumi non proviene da rifiuti, ma da plastica industriale primaria. Questi granuli, chiamati anche “lacrime di sirena”, si trovano talvolta anche sulle spiagge infestate dopo un incidente marittimo. Questo risultato, che riguarda la Francia, è stato possibile grazie a un’ampia operazione di scienza partecipativa chiamata “Plastica alla lente d’ingrandimento”, unica al mondo, che coinvolge 350 classi di scuole medie e superiori francesi, ovvero circa 15.000 studenti ogni anno che prelevano campioni dalle rive dei fiumi.

Ma gli scienziati hanno rinunciato a stilare una classifica dei fiumi europei in base al grado di inquinamento: secondo Ghiglione, le cifre sono globalmente “equivalenti” e i dati insufficienti. Lo stesso vale per l’impatto delle città: “Non è stato dimostrato un legame diretto tra la presenza di microplastiche e quella di una grande città, i risultati a monte e a valle di una città non sono molto diversi”, dice Ghiglione. “Ciò che vediamo è un inquinamento diffuso e installato” che ‘arriva da ogni parte’ nei fiumi.

“La coalizione scientifica internazionale di cui facciamo parte (nell’ambito dei negoziati internazionali delle Nazioni Unite sulla riduzione dell’inquinamento da plastica, ndr) chiede una riduzione significativa della produzione di plastica primaria, perché sappiamo che la produzione di plastica è completamente legata all’inquinamento”, conclude.

Allarme gomme da masticare: rilasciano microplastiche nella saliva

La plastica è ovunque. E molti prodotti che usiamo nella vita quotidiana, come taglieri, indumenti e spugne per la pulizia, possono esporre le persone a minuscole particelle di plastica larghe un micrometro chiamate microplastiche. Ora, anche le gomme da masticare potrebbero essere aggiunte alla lista. In uno studio pilota, i ricercatori hanno scoperto, infatti, che possono rilasciare nella saliva da centinaia a migliaia di microplastiche per pezzo e potenzialmente essere ingerite. Lo studio è stato presentato in occasione del meeting primaverile dell’American Chemical Society (ACS).

“Il nostro obiettivo non è quello di allarmare nessuno”, afferma Sanjay Mohanty, il principale ricercatore del progetto e professore di ingegneria presso l’Università della California, Los Angeles (UCLA). “Gli scienziati non sanno se le microplastiche siano pericolose o meno per noi. Non ci sono studi sull’uomo. Ma sappiamo che siamo esposti alla plastica nella vita di tutti i giorni, ed è questo che volevamo esaminare”. Le ricerche sugli animali e quelli sulle cellule umane dimostrano che le microplastiche potrebbero causare danni, quindi, in attesa di risposte più definitive da parte della comunità scientifica, i singoli possono adottare misure per ridurre la loro esposizione a queste sostanze.

Gli scienziati stimano che gli esseri umani consumino decine di migliaia di microplastiche (tra 1 micrometro e 5 millimetri di larghezza) ogni anno attraverso cibi, bevande, imballaggi, rivestimenti e processi di produzione o fabbricazione. Tuttavia, la gomma da masticare come potenziale fonte di microplastiche non è stata ampiamente studiata, nonostante la popolarità mondiale di questo dolciume. Così, Mohanty e Lisa Lowe, una studentessa laureata nel suo laboratorio, hanno voluto identificare quante microplastiche una persona potrebbe potenzialmente ingerire masticando gomme naturali e sintetiche.

I chewing-gum sono fatte da una base gommosa, dolcificante, aromi e altri ingredienti. “La nostra ipotesi iniziale era che le gomme sintetiche avrebbero avuto molte più microplastiche perché la base è un tipo di plastica”, dice Lowe, che ha testato cinque marche di gomme sintetiche e cinque naturali, tutte disponibili in commercio. Sono state misurate una media di 100 microplastiche rilasciate per grammo di gomma, anche se alcuni singoli pezzi ne hanno rilasciate fino a 600 per grammo. Un tipico pezzo di chewing-gum pesa tra i 2 e i 6 grammi, il che significa che un grosso pezzo potrebbe rilasciare fino a 3.000 particelle di plastica. Se una persona media mastica da 160 a 180 gomme all’anno, i ricercatori hanno stimato che ciò potrebbe comportare l’ingestione di circa 30.000 microplastiche.

“Sorprendentemente, sia le gomme sintetiche sia quelle naturali rilasciavano quantità simili di microplastiche quando le masticavamo”, afferma Lowe. La maggior parte si staccava dalla gomma entro i primi 2 minuti di masticazione e dopo 8 minuti, il 94% delle particelle era stato rilasciato. È probabile, dice Mohanty, che le particelle di plastica più piccole non siano state rilevate nella saliva e che siano necessarie ulteriori ricerche per valutare il potenziale rilascio di plastiche di dimensioni nanometriche dalle gomme da masticare.

Le microplastiche possono alimentare la resistenza agli antibiotici

Le microplastiche, che si sono fatte strada nelle catene alimentari, si sono accumulate negli oceani e sono state trovate all’interno del corpo umano in quantità preoccupanti, potrebbero avere un nuovo devastante effetto, cioè quello di alimentare la resistenza agli antibiotici.

Un team di ricercatori dell’Università di Boston ha scoperto che i batteri esposti alle microplastiche diventano resistenti a diversi tipi di antibiotici comunemente usati per curare le infezioni. Un elemento, questo, particolarmente preoccupante per le persone che vivono in aree impoverite ad alta densità di popolazione, come gli insediamenti di rifugiati, dove la plastica scartata si accumula e le infezioni batteriche si diffondono facilmente. Lo studio è pubblicato su Applied and Environmental Microbiology.

“Il fatto che ci siano microplastiche intorno a noi, e ancora di più nei luoghi poveri dove i servizi igienici possono essere limitati, è una parte sorprendente di questa osservazione”, afferma Muhammad Zaman, professore di ingegneria biomedica al Boston University College of Engineering che studia la resistenza antimicrobica e la salute dei rifugiati e dei migranti. “C’è sicuramente la preoccupazione che questo possa rappresentare un rischio maggiore nelle comunità svantaggiate, e ciò non fa che sottolineare la necessità di una maggiore vigilanza e di una comprensione più approfondita delle interazioni” tra microplastiche e batteri.

Si stima che ogni anno ci siano 4,95 milioni di decessi associati a infezioni resistenti agli antimicrobici. I batteri diventano resistenti agli antibiotici per molte ragioni diverse, tra cui l’uso improprio e la prescrizione eccessiva di farmaci, ma un fattore enorme che alimenta la resistenza è il microambiente – cioè l’ambiente circostante di un microbo – dove batteri e virus si replicano. Nel laboratorio Zaman della BU, i ricercatori hanno testato rigorosamente come un batterio comune, l’Escherichia coli (E. coli), reagisce alla presenza di microplastiche in un ambiente chiuso.

“La plastica fornisce una superficie a cui i batteri si attaccano e colonizzano”, afferma Neila Gross, dottoranda in scienza e ingegneria dei materiali presso la BU e autrice principale dello studio. Una volta attaccati a qualsiasi superficie, i batteri creano un biofilm, una sostanza appiccicosa che funge da scudo, proteggendo i batteri dagli invasori e mantenendoli saldamente attaccati. La microplastica ha potenziato i biofilm batterici a tal punto che quando gli antibiotici sono stati aggiunti alla miscela, il farmaco non è stato in grado di penetrare lo scudo.

“Abbiamo scoperto che i biofilm sulle microplastiche, rispetto ad altre superfici come il vetro, sono molto più forti e spessi, come una casa con un isolamento termico molto efficace”, afferma Gross, ed “è stato sconcertante”. Il tasso di resistenza agli antibiotici sulla microplastica era così alto rispetto ad altri materiali, che ha eseguito gli esperimenti più volte, testando diverse combinazioni di antibiotici e tipi di materiale plastico. Ogni volta, i risultati sono rimasti coerenti.

“Stiamo dimostrando che la presenza della plastica non si limita a fornire una superficie su cui i batteri possono aderire, ma sta effettivamente portando allo sviluppo di organismi resistenti”, afferma Zaman. Ricerche precedenti hanno dimostrato che i rifugiati, i richiedenti asilo e le popolazioni sfollate con la forza sono a maggior rischio di contrarre infezioni resistenti ai farmaci, a causa della vita in campi sovraffollati e delle maggiori difficoltà nell’ottenere assistenza sanitaria.

Nel 2024, si stima che ci fossero 122 milioni di sfollati in tutto il mondo. Secondo Zaman, la prevalenza di microplastiche potrebbe aggiungere un altro elemento di rischio ai sistemi sanitari già sottofinanziati e poco studiati che servono i rifugiati. Gross e Zaman affermano che il prossimo passo nella loro ricerca è capire se i risultati ottenuti in laboratorio si traducono nel mondo esterno.

Piccole e pericolose: arriva l’app per sapere quante microplastiche ingeriamo

Le micro e le nanoplastiche sono presenti nel nostro cibo, nell’acqua e nell’aria che respiriamo e ne sono state trovate tracce anche nei polmoni e nella materia cerebrale. Ora i ricercatori della University of British Columbia hanno sviluppato uno strumento portatile e a basso costo per misurare con precisione la plastica rilasciata da fonti quotidiane come tazze e bottiglie d’acqua usa e getta.

Il dispositivo, abbinato a un’app, utilizza un’etichettatura fluorescente per rilevare particelle di plastica di dimensioni comprese tra 50 nanometri e 10 micron – troppo piccole per essere rilevate a occhio nudo – e fornisce risultati in pochi minuti. Il metodo e i risultati sono illustrati nel sito ACS Sensors.

“La scomposizione dei pezzi di plastica più grandi in microplastiche e nanoplastiche rappresenta una minaccia significativa per i sistemi alimentari, gli ecosistemi e la salute umana”, spiega Tianxi Yang, professoressa assistente presso la facoltà di Scienze del territorio e dei sistemi alimentari, che ha sviluppato lo strumento. “Questa nuova tecnica consente di rilevare queste plastiche in modo rapido ed economico, contribuendo così a proteggere la nostra salute e gli ecosistemi”.

Le nano e microplastiche sono sottoprodotti della degradazione di materiali plastici come contenitori per il pranzo, tazze e utensili. Essendo particelle molto piccole con un’ampia superficie, le nanoplastiche sono particolarmente preoccupanti per la salute umana a causa della loro maggiore capacità di assorbire tossine e penetrare le barriere biologiche all’interno del corpo umano.

Il rilevamento di queste materie plastiche richiede in genere personale specializzato e attrezzature costose. Il team di Yang voleva rendere il rilevamento più rapido, accessibile e affidabile. Per questo ha creato una piccola scatola biodegradabile stampata in 3D contenente un microscopio digitale wireless, una luce led verde e un filtro di eccitazione. Per misurare le plastiche, hanno personalizzato il software Matlab con algoritmi di apprendimento automatico e lo hanno combinato con il software di acquisizione delle immagini.

Il risultato è uno strumento portatile che funziona con uno smartphone o un altro dispositivo mobile per rivelare il numero di particelle di plastica in un campione. Lo strumento necessita solo di un minuscolo campione di liquido (meno di una goccia d’acqua) e fa brillare le particelle di plastica sotto la luce led verde del microscopio per visualizzarle e misurarle. I risultati sono di facile comprensione, sia per un tecnico di un laboratorio di trasformazione alimentare sia per un semplice curioso della sua tazza di caffè mattutina.

Per lo studio, il team ha testato tazze di polistirene monouso. Gli scienziati hanno riempito le tazze con 50 ml di acqua distillata e bollente e le hanno lasciate raffreddare per 30 minuti. I risultati hanno mostrato che le tazze rilasciavano centinaia di milioni di particelle di plastica di dimensioni nanometriche, più o meno un centesimo della larghezza di un capello umano.

“Una volta che il microscopio nella scatola cattura l’immagine fluorescente, l’applicazione abbina l’area dei pixel dell’immagine con il numero di plastiche”, dice il co-autore Haoming (Peter) Yang, studente di master presso la facoltà di sistemi territoriali e alimentari. “La lettura mostra se la plastica è presente e in che quantità. Ogni test costa solo 1,5 centesimi”.

Lo strumento è attualmente calibrato per misurare il polistirene, ma l’algoritmo di apprendimento automatico potrebbe essere modificato per misurare diversi tipi di plastica come il polietilene o il polipropilene. I ricercatori intendono poi commercializzare il dispositivo per analizzare le particelle di plastica in altre applicazioni reali. Gli impatti a lungo termine dell’ingestione di plastica dalle bevande, dagli alimenti e persino dalle particelle di plastica trasportate dall’aria sono ancora in fase di studio, ma destano preoccupazione. “Per ridurre l’ingestione di plastica, è importante evitare i prodotti a base di petrolio, optando per alternative come il vetro o l’acciaio inossidabile per i contenitori degli alimenti. Anche lo sviluppo di materiali di imballaggio biodegradabili è importante per sostituire la plastica tradizionale e progredire verso un mondo più sostenibile”, conclude Yang.

Le spugne ‘magiche’ cancella-tutto rilasciano microplastiche

Se possedete un paio di scarpe bianche o avete mai provato a rimuovere una macchia di pastello da un muro, probabilmente siete grati alle spugne di melamina. La buona notizia è che questi prodotti cancellano praticamente le macchie e i graffi più difficili grazie alla loro particolare abrasività e senza l’uso di altri prodotti per la pulizia. La cattiva è che pur essendo “magiche” rilasciano fibre di microplastica quando si consumano. Lo rivela una ricerca pubblicata su ACS’ Environmental Science & Technology, secondo la quale a livello mondiale, le spugne di melamina potrebbero rilasciare oltre mille miliardi di fibre microplastiche ogni mese.

La schiuma di melamina è fatta di polimero di poli(melamina-formaldeide), una rete di fili di plastica dura assemblati in una schiuma morbida e leggera, sorprendentemente abrasiva, che la rende il materiale perfetto per ‘cancellare’ (quasi) tutto. Tuttavia, quando le spugne si consumano con l’uso, la schiuma si rompe in pezzi più piccoli che possono rilasciare fibre di microplastica che si riversano nei sistemi fognari. Una volta rilasciate nell’ambiente, le fibre possono essere consumate dalla fauna selvatica ed entrare nella catena alimentare.

Il team di ricerca ha acquistato diverse spugne di tre marche popolari, poi le ha strofinate ripetutamente contro superfici metalliche strutturate, provocando l’usura della schiuma. Hanno scoperto che le spugne fatte di schiuma più densa si consumavano più lentamente e producevano meno fibre di microplastica rispetto a quelle meno dense. Il team ha poi determinato che una singola spugna rilascia circa 6,5 milioni di fibre per grammo usurato e ha ipotizzato che tutte le spugne vendute, in media, siano usurate del 10%. Per avere un’idea approssimativa di quante fibre potrebbero essere rilasciate al mese, hanno esaminato le vendite mensili di Amazon per l’agosto 2023. Supponendo che questi numeri rimangano costanti, il team ha calcolato che ogni mese potrebbero essere rilasciati 1,55 trilioni di fibre dalle spugne di melamina. Tuttavia, questo numero tiene conto di un solo rivenditore online, quindi la quantità reale potrebbe essere ancora più alta.

Per ridurre al minimo l’emissione di fibre di microplastica, i ricercatori raccomandano ai produttori di creare spugne più dense e resistenti all’usura. Inoltre, suggeriscono ai consumatori di optare per prodotti per la pulizia naturali che non utilizzano plastica e raccomandano l’installazione di sistemi di filtraggio per catturare le fibre di microplastica rimosse in casa o negli impianti di trattamento delle acque reflue.

I contenitori per alimenti scaldati al microonde possono rilasciare microplastiche

Portarsi in ufficio il pranzo nella ‘schiscetta’ e scaldarlo al microonde in maniera non appropriata può contribuire al rilascio di microplastiche nell’ambiente. È quanto emerge da uno studio coordinato dall’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca e svolto presso EOS, un’azienda che sviluppa una tecnologia per la caratterizzazione ottica di polveri ideata nei laboratori di Fisica dell’Università Statale di Milano, chiamata SPES (Single Particle Extinction and Scattering).

L’idea di verificare se i contenitori alimentari in plastica scaldati al microonde rilasciassero micro e nanoplastiche è partita da EOS, che ha utilizzato la tecnologia SPES evidenziando la formazione sistematica di nano e micro-sfere di plastica durante il riscaldamento di acqua pura, un esperimento controllato volto a simulare quanto avviene durante il riscaldamento del cibo.
SPES è un metodo innovativo che permette di classificare nano e micro particelle in maniera molto precisa e completa, spiega Marco Pallavera, Direttore Ricerca e sviluppo della EOS, ideatore del protocollo di misura utilizzato nello studio e primo autore dell’articolo. “Lo studio, iniziato quasi per curiosità, ha subito mostrato l’adeguatezza del nostro metodo a costruire un protocollo solido e affidabile per il problema in studio”, continua Tiziano Sanvito che amministra l’azienda fin dalla sua fondazione nel 2014.

I dati presi da EOS hanno mostrato subito una forte solidità, fondamentale per approcciare un problema delicato come questo” aggiunge Marco Potenza, docente di Ottica del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano, inventore della tecnica utilizzata nello studio e commercializzata da EOS, oltre che responsabile del Laboratorio di Strumentazione Ottica e Direttore del Centro di Eccellenza CIMAINA (Centro Interdipartimentale Materiali e Interfacce Nanostrutturati).

Dopo molti controlli incrociati sulle procedure sperimentali, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che, in effetti, riscaldando acqua pura nei contenitori alimentari si liberano nano e microsfere composte del materiale di cui è costituito il contenitore stesso: il polipropilene, un materiale biocompatibile che ha la caratteristica di fondere tra i 90 e i 110 gradi. Portando l’acqua a ebollizione, quindi, una piccola parte di polipropilene si fonde per poi solidificare nuovamente in acqua. Lo stesso processo, d’altra parte, che si utilizza per produrre industrialmente nanosfere di materiali polimerici, utilizzate in molti settori industriali dalla cosmetica allo sviluppo di materiali innovativi.

I risultati sono stati analizzati e studiati in dettaglio anche da Llorenç Cremonesi e Claudio Artoni del laboratorio EuroCold, presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università Milano-Bicocca e corredati di immagini al microscopio elettronico prese da Andrea Falqui, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano.
È interessante – sottolinea Savio – notare che diversi produttori specificano di non portare i contenitori oltre i 90 °C, oppure di non riscaldarli per troppo tempo nel microonde, oppure ancora di non usare l’apparecchio alla massima potenza. Quindi, seguendo queste indicazioni, l’effetto non si verifica”. “Viceversa, le nano e micro-particelle prodotte andranno a contribuire alla dispersione di plastica in ambiente che caratterizza il mondo moderno”, conclude Potenza.

Il ‘viaggio’ delle microplastiche nel nostro respiro: ecco dove finiscono

E’ ormai chiaro che nel sistema respiratorio di persone animali si trovano tracce di microplastica. Ma dove finiscono queste particelle? Se l’è chiesto un team di ricerca della University of Technology Sydney, guidato da Suvash Saha, docente senior di ingegneria meccanica, che ha studiato il trasferimento e il deposito di particelle di dimensioni e forme diverse a seconda della velocità di respirazione. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Environmental Advances, hanno individuato i punti caldi del sistema respiratorio umano in cui le particelle di plastica possono accumularsi, dalla cavità nasale e dalla laringe fino ai polmoni.

“Le prove sperimentali suggeriscono con forza che queste particelle di plastica amplificano la suscettibilità umana a uno spettro di disturbi polmonari, tra cui la broncopneumopatia cronica ostruttiva, la fibrosi, la dispnea (mancanza di respiro), l’asma e la formazione di quelli che vengono chiamati noduli di vetro smerigliato”, dice Saha. “L’inquinamento atmosferico da particelle di plastica – aggiunge – è ormai pervasivo e l’inalazione è la seconda via di esposizione più probabile per l’uomo”.
Le microplastiche penetrano nel corpo attraverso, ad esempio, un’ampia gamma di cosmetici e prodotti per la cura personale come i dentifrici o tramite la degradazione di prodotti di plastica più grandi, come bottiglie d’acqua, contenitori per alimenti e vestiti. Ma non solo: come spiega l’esperto “indagini più approfondite hanno identificato i tessuti sintetici come fonte principale di particelle di plastica nell’aria interna”, mentre l’ambiente esterno presenta una moltitudine di fonti che comprendono “le particelle provenienti dal trattamento delle acque reflue”.

Lo studio rivela che la velocità di respirazione, insieme alle dimensioni e alla forma delle particelle, determina la posizione delle microplastiche nel sistema respiratorio. Chi respira più velocemente accumulerà particelle più grandi nel tratto superiore, mentre una respirazione più lenta facilita una penetrazione più profonda e la deposizione di particelle nanoplastiche più piccole. Anche la forma delle particelle ne guida ‘il viaggio’ attraverso il nostro corpo: “quelle non sferiche hanno una propensione alla penetrazione polmonare più profonda rispetto alle microplastiche e alle nanoplastiche sferiche, portando potenzialmente a esiti diversi per la salute”.

La pelle può assorbire le sostanze tossiche delle microplastiche attraverso il sudore

Le sostanze chimiche tossiche utilizzate per i materiali plastici ignifughi possono essere assorbite dal corpo attraverso la pelle, a causa del contatto con le microplastiche. Lo rivela uno studio della University of Birmingham, che offre la prima prova sperimentale che le sostanze chimiche presenti come additivi nelle microplastiche possono penetrare nel sudore umano e quindi essere assorbite dal flusso sanguigno attraverso la pelle.

Molte sostanze chimiche utilizzate come ritardanti di fiamma e plastificanti sono già state vietate, a causa dell’evidenza di effetti negativi sulla salute, tra cui danni al fegato o al sistema nervoso, cancro e rischi per la salute riproduttiva. Tuttavia, sono ancora presenti nell’ambiente in vecchi apparecchi elettronici, mobili, tappeti e materiali da costruzione.

Sebbene i danni causati dalle microplastiche non siano ancora del tutto noti, cresce la preoccupazione per il loro ruolo di ‘vettori’ nell’esposizione umana a sostanze chimiche tossiche. In uno studio pubblicato l’anno scorso, il team di ricerca ha dimostrato che le sostanze chimiche sono rilasciate dalle microplastiche nel sudore umano. Lo studio attuale dimostra ora che queste sostanze chimiche possono essere assorbite anche dal sudore attraverso la barriera cutanea fino all’organismo.

Nei loro esperimenti, il team ha utilizzato innovativi modelli di pelle umana in 3D in alternativa agli animali da laboratorio e ai tessuti umani prelevati. I modelli sono stati esposti per un periodo di 24 ore a due forme comuni di microplastiche contenenti eteri di difenile polibromurato (PBDE), un gruppo chimico comunemente usato per ritardare la fiamma delle plastiche. I risultati, pubblicati su Environment International, hanno mostrato che fino all’8% della sostanza chimica esposta poteva essere assorbita dalla pelle, soprattutto se molto sudata. Lo studio fornisce la prima prova sperimentale di come questo processo contribuisca ai livelli di sostanze chimiche tossiche presenti nell’organismo.

Come spiega Ovokeroye Abafe, che ha condotto la ricerca, “le microplastiche sono ovunque nell’ambiente eppure sappiamo ancora relativamente poco dei problemi di salute che possono causare. La nostra ricerca dimostra che esse svolgono il ruolo di ‘vettori’ di sostanze chimiche nocive, che possono entrare nel nostro flusso sanguigno attraverso la pelle. Queste sostanze chimiche sono persistenti, quindi con un’esposizione continua o regolare ad esse, ci sarà un accumulo graduale fino al punto in cui inizieranno a causare danni”.

Allarme degli scienziati: “Le microplastiche favoriscono le metastasi dei tumori”

Il tratto gastrointestinale è già noto ai ricercatori come un importante sito di ‘stoccaggio’ di particelle micro e nanoplastiche (MNP) nel corpo umano. E ora un consorzio di ricerca composto dall’Università di Vienna, dall’Università di Medicina di Vienna e da altri partner, sotto la guida di CBmed GmbH di Graz, ha studiato gli effetti delle minuscole particelle di plastica sulle cellule tumorali del tratto gastrointestinale umano. Lo studio ha dimostrato che le MNP rimangono nella cellula molto più a lungo di quanto si pensasse in precedenza, poiché vengono trasmesse alla cellula di nuova formazione durante la divisione. Sono state, inoltre, scoperte le prime indicazioni che le particelle di plastica potrebbero promuovere le metastasi dei tumori. I risultati dello studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Chemospheres.

Oltre alla respirazione, l’ingestione è la via più importante per l’ingresso delle MNP nell’organismo. Ogni settimana entrano nel tratto gastrointestinale particelle di plastica del peso di una carta di credito (circa cinque grammi). Il team guidato da Verena Pichler (Università di Vienna, CBmed) e Lukas Kenner (MedUni Vienna, CBmed, Vetmeduni Vienna) ha studiato le interazioni tra le MNP e varie cellule tumorali del colon.

Nelle loro analisi, non solo sono riusciti a dimostrare come le MNP entrano nella cellula e dove si depositano esattamente, ma hanno anche osservato i loro effetti diretti: vengono assorbite nei lisosomi come altri “prodotti di scarto” dell’organismo. I lisosomi sono organelli cellulari noti anche come lo “stomaco della cellula” e scompongono i corpi estranei presenti nella cellula. Tuttavia, i ricercatori hanno osservato che, a differenza dei corpi estranei di origine biologica, i MNP non vengono degradati a causa della loro composizione chimica.

A seconda di vari fattori, le MNP passano addirittura alla cellula di nuova formazione durante la divisione cellulare ed è quindi probabile che siano più persistenti nel corpo umano di quanto inizialmente ipotizzato. Inoltre, ci sono indicazioni che le MNP aumentIno la migrazione delle cellule tumorali in altre regioni del corpo e quindi potrebbero promuovere le metastasi dei tumori. Questo effetto verrà ora approfondito in uno studio successivo.

Il comportamento alterato delle cellule tumorali del colon-retto in relazione alla migrazione cellulare è stato osservato principalmente in seguito all’interazione con particelle di plastica di dimensioni inferiori a un micrometro (1 µm = 0,001 mm). Le particelle di queste dimensioni sono solitamente definite nanoplastiche, che si trovano da 10 a 100 volte più frequentemente delle microplastiche in una bottiglia d’acqua, ad esempio. È indiscutibile che più le particelle di plastica sono piccole, più sono dannose. “Questo è ancora una volta coerente con i risultati delle nostre analisi”, sottolinea Verena Pichler. “Il nostro studio conferma anche le recenti scoperte che indicano che le MNP possono influenzare il comportamento delle cellule ed eventualmente contribuire alla progressione delle malattie”, aggiunge Lukas Kenner.
“Data l’ubiquità della plastica nell’ambiente e l’esposizione persistente anche degli esseri umani alle più piccole particelle, sono urgentemente necessari ulteriori studi per indagare in particolare gli effetti a lungo termine”, afferma Kenner. “Si può presumere che le MNP causino una tossicità cronica”, teme Pichler. Gli ultimi risultati e gli studi precedenti mostrano un elevato assorbimento e una lunga ritenzione nei tessuti e nelle cellule. Le particelle analizzate soddisfano quindi due delle tre caratteristiche tossicologiche utilizzate per classificare le sostanze come preoccupanti ai sensi del regolamento Ue sulle sostanze chimiche.

Cimiteri tossici e crimini contro umanità: il lato oscuro ‘ultra fast’

Migliaia di morti, centinaia di migliaia di schiavi, maxi-discariche, microplastiche negli oceani, emissioni di gas serra, spreco di acqua e abuso di petrolio. Il prezzo della moda a basso costo è altissimo. E il crollo della fabbrica Rana Plaza in Bangladesh, che ha fatto 1.138 vittime, è solo la punta dell’iceberg del lato oscuro dell’industria tessile.

Il numero di discariche di abiti e scarpe usati cresce nel Sud del mondo in modo direttamente proporzionale alla produzione sempre più frenetica di moda a basso costo. Centinaia di migliaia di stivali da pioggia e doposci finiscono nel bel mezzo del deserto di Atacama, in Cile. Secondo la Changing Markets Foundation, la discarica di Dandora, alle porte di Nairobi, riceve ogni giorno 4mila tonnellate di rifiuti, in gran parte tessili provenienti dai Paesi occidentali.

I marchi di “ultra fast fashion” (come Boohoo, Emmiol, SheIn) con t-shirt da 5 euro e vestiti da 8 euro stanno superando ogni limite del low cost, producendo ancora di più dei giganti del fast fashion come H&M o Zara. Gli “articoli a basso costo terminano la loro breve vita, gettati via e bruciati in enormi discariche a cielo aperto, lungo i fiumi o il mare, con conseguenze gravissime per la popolazione locale e l’ambiente“, denuncia Greenpeace. Secondo il rapporto 2020 della ONG Climate Chance, l’industria tessile è responsabile di un terzo degli scarichi di microplastica negli oceani e del 4% delle emissioni globali di gas serra. La moda è il terzo settore a più alto consumo idrico e il 70% delle fibre sintetiche prodotte nel mondo proviene dal petrolio.

Altrettanto grave è la totale mancanza di sostenibilità sociale del fast fashion. I rapporti delle ONG e dei think tank continuano a denunciare lo sfruttamento dei membri della minoranza musulmana uigura nei campi dello Xinjiang, nelle officine e nelle fabbriche che forniscono materie prime o prodotti finiti. Le autorità cinesi sono accusate dai Paesi occidentali di aver rinchiuso massicciamente gli uiguri nei campi di rieducazione, dopo i sanguinosi attacchi subiti in questa regione. Le Nazioni Unite sollevano l’ipotesi di “crimini contro l’umanità“, accuse fermamente respinte da Pechino.

I grandi nomi dell’industria tessile (Adidas, Lacoste, Gap, Nike, Puma, H&M, ecc.) sono stati accusati di trarre profitto da questo “lavoro forzato“. Da allora, alcuni marchi si sono impegnati a non utilizzare il cotone proveniente dallo Xinjiang (un quinto della produzione mondiale). Quattro multinazionali dell’abbigliamento, tra cui Uniqlo France e Inditex (Zara, Bershka, Massimo Duti), sono sotto inchiesta in Francia dal 2021 per “occultamento di crimini contro l’umanità“.

I salari dei lavoratori del settore in India sono regolarmente oggetto di critiche. Ma non serve andare così lontano. Anche nel Regno Unito, nel 2020, l’ONG ‘Labour behind the label’ ha rivelato che i laboratori che riforniscono la fast fashion hanno fatto ricorso a pratiche di semi-schiavitù. Secondo testimonianze confermate da diversi media britannici, i salari oscillavano tra le 2 e le 3 sterline all’ora, ben al di sotto del salario minimo di 8,72 sterline (9,66 euro). Da Haiti alla Cambogia, passando per la Birmania, i lavoratori del settore tessile chiedono regolarmente salari più alti, anche con scioperi e proteste, alcuni dei quali vengono repressi nella violenza.