Piccole e pericolose: arriva l’app per sapere quante microplastiche ingeriamo

Le micro e le nanoplastiche sono presenti nel nostro cibo, nell’acqua e nell’aria che respiriamo e ne sono state trovate tracce anche nei polmoni e nella materia cerebrale. Ora i ricercatori della University of British Columbia hanno sviluppato uno strumento portatile e a basso costo per misurare con precisione la plastica rilasciata da fonti quotidiane come tazze e bottiglie d’acqua usa e getta.

Il dispositivo, abbinato a un’app, utilizza un’etichettatura fluorescente per rilevare particelle di plastica di dimensioni comprese tra 50 nanometri e 10 micron – troppo piccole per essere rilevate a occhio nudo – e fornisce risultati in pochi minuti. Il metodo e i risultati sono illustrati nel sito ACS Sensors.

“La scomposizione dei pezzi di plastica più grandi in microplastiche e nanoplastiche rappresenta una minaccia significativa per i sistemi alimentari, gli ecosistemi e la salute umana”, spiega Tianxi Yang, professoressa assistente presso la facoltà di Scienze del territorio e dei sistemi alimentari, che ha sviluppato lo strumento. “Questa nuova tecnica consente di rilevare queste plastiche in modo rapido ed economico, contribuendo così a proteggere la nostra salute e gli ecosistemi”.

Le nano e microplastiche sono sottoprodotti della degradazione di materiali plastici come contenitori per il pranzo, tazze e utensili. Essendo particelle molto piccole con un’ampia superficie, le nanoplastiche sono particolarmente preoccupanti per la salute umana a causa della loro maggiore capacità di assorbire tossine e penetrare le barriere biologiche all’interno del corpo umano.

Il rilevamento di queste materie plastiche richiede in genere personale specializzato e attrezzature costose. Il team di Yang voleva rendere il rilevamento più rapido, accessibile e affidabile. Per questo ha creato una piccola scatola biodegradabile stampata in 3D contenente un microscopio digitale wireless, una luce led verde e un filtro di eccitazione. Per misurare le plastiche, hanno personalizzato il software Matlab con algoritmi di apprendimento automatico e lo hanno combinato con il software di acquisizione delle immagini.

Il risultato è uno strumento portatile che funziona con uno smartphone o un altro dispositivo mobile per rivelare il numero di particelle di plastica in un campione. Lo strumento necessita solo di un minuscolo campione di liquido (meno di una goccia d’acqua) e fa brillare le particelle di plastica sotto la luce led verde del microscopio per visualizzarle e misurarle. I risultati sono di facile comprensione, sia per un tecnico di un laboratorio di trasformazione alimentare sia per un semplice curioso della sua tazza di caffè mattutina.

Per lo studio, il team ha testato tazze di polistirene monouso. Gli scienziati hanno riempito le tazze con 50 ml di acqua distillata e bollente e le hanno lasciate raffreddare per 30 minuti. I risultati hanno mostrato che le tazze rilasciavano centinaia di milioni di particelle di plastica di dimensioni nanometriche, più o meno un centesimo della larghezza di un capello umano.

“Una volta che il microscopio nella scatola cattura l’immagine fluorescente, l’applicazione abbina l’area dei pixel dell’immagine con il numero di plastiche”, dice il co-autore Haoming (Peter) Yang, studente di master presso la facoltà di sistemi territoriali e alimentari. “La lettura mostra se la plastica è presente e in che quantità. Ogni test costa solo 1,5 centesimi”.

Lo strumento è attualmente calibrato per misurare il polistirene, ma l’algoritmo di apprendimento automatico potrebbe essere modificato per misurare diversi tipi di plastica come il polietilene o il polipropilene. I ricercatori intendono poi commercializzare il dispositivo per analizzare le particelle di plastica in altre applicazioni reali. Gli impatti a lungo termine dell’ingestione di plastica dalle bevande, dagli alimenti e persino dalle particelle di plastica trasportate dall’aria sono ancora in fase di studio, ma destano preoccupazione. “Per ridurre l’ingestione di plastica, è importante evitare i prodotti a base di petrolio, optando per alternative come il vetro o l’acciaio inossidabile per i contenitori degli alimenti. Anche lo sviluppo di materiali di imballaggio biodegradabili è importante per sostituire la plastica tradizionale e progredire verso un mondo più sostenibile”, conclude Yang.

Le spugne ‘magiche’ cancella-tutto rilasciano microplastiche

Se possedete un paio di scarpe bianche o avete mai provato a rimuovere una macchia di pastello da un muro, probabilmente siete grati alle spugne di melamina. La buona notizia è che questi prodotti cancellano praticamente le macchie e i graffi più difficili grazie alla loro particolare abrasività e senza l’uso di altri prodotti per la pulizia. La cattiva è che pur essendo “magiche” rilasciano fibre di microplastica quando si consumano. Lo rivela una ricerca pubblicata su ACS’ Environmental Science & Technology, secondo la quale a livello mondiale, le spugne di melamina potrebbero rilasciare oltre mille miliardi di fibre microplastiche ogni mese.

La schiuma di melamina è fatta di polimero di poli(melamina-formaldeide), una rete di fili di plastica dura assemblati in una schiuma morbida e leggera, sorprendentemente abrasiva, che la rende il materiale perfetto per ‘cancellare’ (quasi) tutto. Tuttavia, quando le spugne si consumano con l’uso, la schiuma si rompe in pezzi più piccoli che possono rilasciare fibre di microplastica che si riversano nei sistemi fognari. Una volta rilasciate nell’ambiente, le fibre possono essere consumate dalla fauna selvatica ed entrare nella catena alimentare.

Il team di ricerca ha acquistato diverse spugne di tre marche popolari, poi le ha strofinate ripetutamente contro superfici metalliche strutturate, provocando l’usura della schiuma. Hanno scoperto che le spugne fatte di schiuma più densa si consumavano più lentamente e producevano meno fibre di microplastica rispetto a quelle meno dense. Il team ha poi determinato che una singola spugna rilascia circa 6,5 milioni di fibre per grammo usurato e ha ipotizzato che tutte le spugne vendute, in media, siano usurate del 10%. Per avere un’idea approssimativa di quante fibre potrebbero essere rilasciate al mese, hanno esaminato le vendite mensili di Amazon per l’agosto 2023. Supponendo che questi numeri rimangano costanti, il team ha calcolato che ogni mese potrebbero essere rilasciati 1,55 trilioni di fibre dalle spugne di melamina. Tuttavia, questo numero tiene conto di un solo rivenditore online, quindi la quantità reale potrebbe essere ancora più alta.

Per ridurre al minimo l’emissione di fibre di microplastica, i ricercatori raccomandano ai produttori di creare spugne più dense e resistenti all’usura. Inoltre, suggeriscono ai consumatori di optare per prodotti per la pulizia naturali che non utilizzano plastica e raccomandano l’installazione di sistemi di filtraggio per catturare le fibre di microplastica rimosse in casa o negli impianti di trattamento delle acque reflue.

I contenitori per alimenti scaldati al microonde possono rilasciare microplastiche

Portarsi in ufficio il pranzo nella ‘schiscetta’ e scaldarlo al microonde in maniera non appropriata può contribuire al rilascio di microplastiche nell’ambiente. È quanto emerge da uno studio coordinato dall’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca e svolto presso EOS, un’azienda che sviluppa una tecnologia per la caratterizzazione ottica di polveri ideata nei laboratori di Fisica dell’Università Statale di Milano, chiamata SPES (Single Particle Extinction and Scattering).

L’idea di verificare se i contenitori alimentari in plastica scaldati al microonde rilasciassero micro e nanoplastiche è partita da EOS, che ha utilizzato la tecnologia SPES evidenziando la formazione sistematica di nano e micro-sfere di plastica durante il riscaldamento di acqua pura, un esperimento controllato volto a simulare quanto avviene durante il riscaldamento del cibo.
SPES è un metodo innovativo che permette di classificare nano e micro particelle in maniera molto precisa e completa, spiega Marco Pallavera, Direttore Ricerca e sviluppo della EOS, ideatore del protocollo di misura utilizzato nello studio e primo autore dell’articolo. “Lo studio, iniziato quasi per curiosità, ha subito mostrato l’adeguatezza del nostro metodo a costruire un protocollo solido e affidabile per il problema in studio”, continua Tiziano Sanvito che amministra l’azienda fin dalla sua fondazione nel 2014.

I dati presi da EOS hanno mostrato subito una forte solidità, fondamentale per approcciare un problema delicato come questo” aggiunge Marco Potenza, docente di Ottica del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano, inventore della tecnica utilizzata nello studio e commercializzata da EOS, oltre che responsabile del Laboratorio di Strumentazione Ottica e Direttore del Centro di Eccellenza CIMAINA (Centro Interdipartimentale Materiali e Interfacce Nanostrutturati).

Dopo molti controlli incrociati sulle procedure sperimentali, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che, in effetti, riscaldando acqua pura nei contenitori alimentari si liberano nano e microsfere composte del materiale di cui è costituito il contenitore stesso: il polipropilene, un materiale biocompatibile che ha la caratteristica di fondere tra i 90 e i 110 gradi. Portando l’acqua a ebollizione, quindi, una piccola parte di polipropilene si fonde per poi solidificare nuovamente in acqua. Lo stesso processo, d’altra parte, che si utilizza per produrre industrialmente nanosfere di materiali polimerici, utilizzate in molti settori industriali dalla cosmetica allo sviluppo di materiali innovativi.

I risultati sono stati analizzati e studiati in dettaglio anche da Llorenç Cremonesi e Claudio Artoni del laboratorio EuroCold, presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università Milano-Bicocca e corredati di immagini al microscopio elettronico prese da Andrea Falqui, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università Statale di Milano.
È interessante – sottolinea Savio – notare che diversi produttori specificano di non portare i contenitori oltre i 90 °C, oppure di non riscaldarli per troppo tempo nel microonde, oppure ancora di non usare l’apparecchio alla massima potenza. Quindi, seguendo queste indicazioni, l’effetto non si verifica”. “Viceversa, le nano e micro-particelle prodotte andranno a contribuire alla dispersione di plastica in ambiente che caratterizza il mondo moderno”, conclude Potenza.

Il ‘viaggio’ delle microplastiche nel nostro respiro: ecco dove finiscono

E’ ormai chiaro che nel sistema respiratorio di persone animali si trovano tracce di microplastica. Ma dove finiscono queste particelle? Se l’è chiesto un team di ricerca della University of Technology Sydney, guidato da Suvash Saha, docente senior di ingegneria meccanica, che ha studiato il trasferimento e il deposito di particelle di dimensioni e forme diverse a seconda della velocità di respirazione. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Environmental Advances, hanno individuato i punti caldi del sistema respiratorio umano in cui le particelle di plastica possono accumularsi, dalla cavità nasale e dalla laringe fino ai polmoni.

“Le prove sperimentali suggeriscono con forza che queste particelle di plastica amplificano la suscettibilità umana a uno spettro di disturbi polmonari, tra cui la broncopneumopatia cronica ostruttiva, la fibrosi, la dispnea (mancanza di respiro), l’asma e la formazione di quelli che vengono chiamati noduli di vetro smerigliato”, dice Saha. “L’inquinamento atmosferico da particelle di plastica – aggiunge – è ormai pervasivo e l’inalazione è la seconda via di esposizione più probabile per l’uomo”.
Le microplastiche penetrano nel corpo attraverso, ad esempio, un’ampia gamma di cosmetici e prodotti per la cura personale come i dentifrici o tramite la degradazione di prodotti di plastica più grandi, come bottiglie d’acqua, contenitori per alimenti e vestiti. Ma non solo: come spiega l’esperto “indagini più approfondite hanno identificato i tessuti sintetici come fonte principale di particelle di plastica nell’aria interna”, mentre l’ambiente esterno presenta una moltitudine di fonti che comprendono “le particelle provenienti dal trattamento delle acque reflue”.

Lo studio rivela che la velocità di respirazione, insieme alle dimensioni e alla forma delle particelle, determina la posizione delle microplastiche nel sistema respiratorio. Chi respira più velocemente accumulerà particelle più grandi nel tratto superiore, mentre una respirazione più lenta facilita una penetrazione più profonda e la deposizione di particelle nanoplastiche più piccole. Anche la forma delle particelle ne guida ‘il viaggio’ attraverso il nostro corpo: “quelle non sferiche hanno una propensione alla penetrazione polmonare più profonda rispetto alle microplastiche e alle nanoplastiche sferiche, portando potenzialmente a esiti diversi per la salute”.

La pelle può assorbire le sostanze tossiche delle microplastiche attraverso il sudore

Le sostanze chimiche tossiche utilizzate per i materiali plastici ignifughi possono essere assorbite dal corpo attraverso la pelle, a causa del contatto con le microplastiche. Lo rivela uno studio della University of Birmingham, che offre la prima prova sperimentale che le sostanze chimiche presenti come additivi nelle microplastiche possono penetrare nel sudore umano e quindi essere assorbite dal flusso sanguigno attraverso la pelle.

Molte sostanze chimiche utilizzate come ritardanti di fiamma e plastificanti sono già state vietate, a causa dell’evidenza di effetti negativi sulla salute, tra cui danni al fegato o al sistema nervoso, cancro e rischi per la salute riproduttiva. Tuttavia, sono ancora presenti nell’ambiente in vecchi apparecchi elettronici, mobili, tappeti e materiali da costruzione.

Sebbene i danni causati dalle microplastiche non siano ancora del tutto noti, cresce la preoccupazione per il loro ruolo di ‘vettori’ nell’esposizione umana a sostanze chimiche tossiche. In uno studio pubblicato l’anno scorso, il team di ricerca ha dimostrato che le sostanze chimiche sono rilasciate dalle microplastiche nel sudore umano. Lo studio attuale dimostra ora che queste sostanze chimiche possono essere assorbite anche dal sudore attraverso la barriera cutanea fino all’organismo.

Nei loro esperimenti, il team ha utilizzato innovativi modelli di pelle umana in 3D in alternativa agli animali da laboratorio e ai tessuti umani prelevati. I modelli sono stati esposti per un periodo di 24 ore a due forme comuni di microplastiche contenenti eteri di difenile polibromurato (PBDE), un gruppo chimico comunemente usato per ritardare la fiamma delle plastiche. I risultati, pubblicati su Environment International, hanno mostrato che fino all’8% della sostanza chimica esposta poteva essere assorbita dalla pelle, soprattutto se molto sudata. Lo studio fornisce la prima prova sperimentale di come questo processo contribuisca ai livelli di sostanze chimiche tossiche presenti nell’organismo.

Come spiega Ovokeroye Abafe, che ha condotto la ricerca, “le microplastiche sono ovunque nell’ambiente eppure sappiamo ancora relativamente poco dei problemi di salute che possono causare. La nostra ricerca dimostra che esse svolgono il ruolo di ‘vettori’ di sostanze chimiche nocive, che possono entrare nel nostro flusso sanguigno attraverso la pelle. Queste sostanze chimiche sono persistenti, quindi con un’esposizione continua o regolare ad esse, ci sarà un accumulo graduale fino al punto in cui inizieranno a causare danni”.

Allarme degli scienziati: “Le microplastiche favoriscono le metastasi dei tumori”

Il tratto gastrointestinale è già noto ai ricercatori come un importante sito di ‘stoccaggio’ di particelle micro e nanoplastiche (MNP) nel corpo umano. E ora un consorzio di ricerca composto dall’Università di Vienna, dall’Università di Medicina di Vienna e da altri partner, sotto la guida di CBmed GmbH di Graz, ha studiato gli effetti delle minuscole particelle di plastica sulle cellule tumorali del tratto gastrointestinale umano. Lo studio ha dimostrato che le MNP rimangono nella cellula molto più a lungo di quanto si pensasse in precedenza, poiché vengono trasmesse alla cellula di nuova formazione durante la divisione. Sono state, inoltre, scoperte le prime indicazioni che le particelle di plastica potrebbero promuovere le metastasi dei tumori. I risultati dello studio sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Chemospheres.

Oltre alla respirazione, l’ingestione è la via più importante per l’ingresso delle MNP nell’organismo. Ogni settimana entrano nel tratto gastrointestinale particelle di plastica del peso di una carta di credito (circa cinque grammi). Il team guidato da Verena Pichler (Università di Vienna, CBmed) e Lukas Kenner (MedUni Vienna, CBmed, Vetmeduni Vienna) ha studiato le interazioni tra le MNP e varie cellule tumorali del colon.

Nelle loro analisi, non solo sono riusciti a dimostrare come le MNP entrano nella cellula e dove si depositano esattamente, ma hanno anche osservato i loro effetti diretti: vengono assorbite nei lisosomi come altri “prodotti di scarto” dell’organismo. I lisosomi sono organelli cellulari noti anche come lo “stomaco della cellula” e scompongono i corpi estranei presenti nella cellula. Tuttavia, i ricercatori hanno osservato che, a differenza dei corpi estranei di origine biologica, i MNP non vengono degradati a causa della loro composizione chimica.

A seconda di vari fattori, le MNP passano addirittura alla cellula di nuova formazione durante la divisione cellulare ed è quindi probabile che siano più persistenti nel corpo umano di quanto inizialmente ipotizzato. Inoltre, ci sono indicazioni che le MNP aumentIno la migrazione delle cellule tumorali in altre regioni del corpo e quindi potrebbero promuovere le metastasi dei tumori. Questo effetto verrà ora approfondito in uno studio successivo.

Il comportamento alterato delle cellule tumorali del colon-retto in relazione alla migrazione cellulare è stato osservato principalmente in seguito all’interazione con particelle di plastica di dimensioni inferiori a un micrometro (1 µm = 0,001 mm). Le particelle di queste dimensioni sono solitamente definite nanoplastiche, che si trovano da 10 a 100 volte più frequentemente delle microplastiche in una bottiglia d’acqua, ad esempio. È indiscutibile che più le particelle di plastica sono piccole, più sono dannose. “Questo è ancora una volta coerente con i risultati delle nostre analisi”, sottolinea Verena Pichler. “Il nostro studio conferma anche le recenti scoperte che indicano che le MNP possono influenzare il comportamento delle cellule ed eventualmente contribuire alla progressione delle malattie”, aggiunge Lukas Kenner.
“Data l’ubiquità della plastica nell’ambiente e l’esposizione persistente anche degli esseri umani alle più piccole particelle, sono urgentemente necessari ulteriori studi per indagare in particolare gli effetti a lungo termine”, afferma Kenner. “Si può presumere che le MNP causino una tossicità cronica”, teme Pichler. Gli ultimi risultati e gli studi precedenti mostrano un elevato assorbimento e una lunga ritenzione nei tessuti e nelle cellule. Le particelle analizzate soddisfano quindi due delle tre caratteristiche tossicologiche utilizzate per classificare le sostanze come preoccupanti ai sensi del regolamento Ue sulle sostanze chimiche.

Cimiteri tossici e crimini contro umanità: il lato oscuro ‘ultra fast’

Migliaia di morti, centinaia di migliaia di schiavi, maxi-discariche, microplastiche negli oceani, emissioni di gas serra, spreco di acqua e abuso di petrolio. Il prezzo della moda a basso costo è altissimo. E il crollo della fabbrica Rana Plaza in Bangladesh, che ha fatto 1.138 vittime, è solo la punta dell’iceberg del lato oscuro dell’industria tessile.

Il numero di discariche di abiti e scarpe usati cresce nel Sud del mondo in modo direttamente proporzionale alla produzione sempre più frenetica di moda a basso costo. Centinaia di migliaia di stivali da pioggia e doposci finiscono nel bel mezzo del deserto di Atacama, in Cile. Secondo la Changing Markets Foundation, la discarica di Dandora, alle porte di Nairobi, riceve ogni giorno 4mila tonnellate di rifiuti, in gran parte tessili provenienti dai Paesi occidentali.

I marchi di “ultra fast fashion” (come Boohoo, Emmiol, SheIn) con t-shirt da 5 euro e vestiti da 8 euro stanno superando ogni limite del low cost, producendo ancora di più dei giganti del fast fashion come H&M o Zara. Gli “articoli a basso costo terminano la loro breve vita, gettati via e bruciati in enormi discariche a cielo aperto, lungo i fiumi o il mare, con conseguenze gravissime per la popolazione locale e l’ambiente“, denuncia Greenpeace. Secondo il rapporto 2020 della ONG Climate Chance, l’industria tessile è responsabile di un terzo degli scarichi di microplastica negli oceani e del 4% delle emissioni globali di gas serra. La moda è il terzo settore a più alto consumo idrico e il 70% delle fibre sintetiche prodotte nel mondo proviene dal petrolio.

Altrettanto grave è la totale mancanza di sostenibilità sociale del fast fashion. I rapporti delle ONG e dei think tank continuano a denunciare lo sfruttamento dei membri della minoranza musulmana uigura nei campi dello Xinjiang, nelle officine e nelle fabbriche che forniscono materie prime o prodotti finiti. Le autorità cinesi sono accusate dai Paesi occidentali di aver rinchiuso massicciamente gli uiguri nei campi di rieducazione, dopo i sanguinosi attacchi subiti in questa regione. Le Nazioni Unite sollevano l’ipotesi di “crimini contro l’umanità“, accuse fermamente respinte da Pechino.

I grandi nomi dell’industria tessile (Adidas, Lacoste, Gap, Nike, Puma, H&M, ecc.) sono stati accusati di trarre profitto da questo “lavoro forzato“. Da allora, alcuni marchi si sono impegnati a non utilizzare il cotone proveniente dallo Xinjiang (un quinto della produzione mondiale). Quattro multinazionali dell’abbigliamento, tra cui Uniqlo France e Inditex (Zara, Bershka, Massimo Duti), sono sotto inchiesta in Francia dal 2021 per “occultamento di crimini contro l’umanità“.

I salari dei lavoratori del settore in India sono regolarmente oggetto di critiche. Ma non serve andare così lontano. Anche nel Regno Unito, nel 2020, l’ONG ‘Labour behind the label’ ha rivelato che i laboratori che riforniscono la fast fashion hanno fatto ricorso a pratiche di semi-schiavitù. Secondo testimonianze confermate da diversi media britannici, i salari oscillavano tra le 2 e le 3 sterline all’ora, ben al di sotto del salario minimo di 8,72 sterline (9,66 euro). Da Haiti alla Cambogia, passando per la Birmania, i lavoratori del settore tessile chiedono regolarmente salari più alti, anche con scioperi e proteste, alcuni dei quali vengono repressi nella violenza.

Vento e microplastiche e minacciano le piante

Non solo dalle microplastiche accumulate nel suolo, una pianta deve difendersi anche da quelle diffuse dal vento. E, peggio ancora, dalle microplastiche rese ancora più tossiche dalle alte temperature e dall’azione dei raggi del sole.

È il tema di uno studio appena realizzato dall’università di Firenze. Una parte dello stesso team aveva già lavorato, un anno fa, a un altro esperimento per testare gli effetti delle microplastiche rilasciate nel suolo sulla crescita degli ortaggi (zucchine, in quel caso), ma ora per la prima volta − argomenta la ricerca − i risultati riportano prove degli effetti negativi sulla salute delle piante dell’inquinamento atmosferico da microplastiche.

Per simulare l’azione dell’aria nel trasporto delle microplastiche, le piante esaminate (del genere Tillandsia) sono state disposte all’interno di box progettati ad hoc, dove un sistema di ventole e di ricircolo dell’aria provvedeva a tenere sempre sospese le particelle. Inoltre, durante l’esperimento i polimeri sono stati ‘invecchiati’ artificialmente attraverso irradiazione UV e calore, per stimolare i processi a cui le particelle andrebbero normalmente incontro in atmosfera.

Risultato: una forte riduzione della crescita, ma anche un’alterazione dello stato fisiologico delle piante, con meno efficienza durante la fotosintesi e cambiamenti nei nutrienti contenuti nei tessuti della pianta.

Le plastiche somministrate sono fra le più comuni. Policarbonato (PC), polietilene (PE), polivinilcloruro (PVC), polietilentereftalato (PET). Tutti materiali contenuti normalmente nell’edilizia, nelle bottiglie di plastica, negli elettrodomestici, negli imballaggi. Ma ridotti, in questo caso, a meno di un micron di grandezza. Il più tossico? il PCV. Ma dopo il processo di invecchiamento il policarbonato diventa il più dannoso.

I prossimi esperimenti − spiegano dal gruppo di ricerca − potrebbero rivolgersi verso piante edibili, e utilizzare microplastiche di dimensioni ancora minori. Sono risultati che certificano la minaccia dell’inquinamento atmosferico da micro e nano plastiche: la loro dispersione dovrà essere monitorata per evitare che entrino in maniera massiva nella nostra catena alimentare attraverso le specie vegetali destinate al consumo animale ed umano.