Una storia di amore e odio all’italiana: da perdita primato ricerca a referendum
Appaiono lontani, lontanissimi, i tempi in cui un referendum sfondava la quota del 50% e veniva validato. Se nel 1987 la sfiducia degli elettori verso la politica non aveva ancora raggiunto l’acme, nel 2011 l’indice di gradimento era quasi ai minimi storici. In entrambi i casi alle urne i cittadini trovarono le schede con 5 quesiti, alcuni dei quali riguardavano il nucleare in Italia.
I REFERENDUM
Il primo referendum si tenne all’indomani del disastro di Chernobyl: promosso dai radicali, passò con un’affluenza che superò il 65% e l’80,57% dei Sì. Il quesito riguardava lo stop alla costruzione di nuove centrali (“Volete che venga abrogata la norma che consente al Comitato interministeriale per la Programmazione economica di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidano entro tempi stabiliti?”). Fu la prima pietra tombale sulla produzione di energia nucleare in Italia.
Venticinque anni dopo gli italiani tornarono alle urne con una sorta di deja-vu per la preoccupazione (e l’indignazione) sollevata dal disastro alla centrale di Fukushima. Con un governo sfiancato dalla crisi del debito e indebolito agli occhi dell’opinione pubblica, l’Italia dei Valori tentò la proverbiale spallata e raccolse le firme necessarie per presentare un quesito sull’abrogazione “delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare”. Il quorum si fermò al 54,79%, più che sufficiente a far passare il referendum grazie al 94,05% di Sì. Più che pietra tombale, in questo caso si trattò di una risposta più che eloquente alla volontà di ritorno al nucleare e agli accordi internazionali siglati nell’aprile 2010 per la costruzione di 8 reattori. Ironia della sorte: il progetto sulla costruzione di una centrale da lì a 3 anni prevedeva la collaborazione tra il governo guidato da Silvio Berlusconi e la Russia di Vladimir Putin. E anche in quel caso l’argomento all’ordine del giorno era la “sicurezza energetica”.
RICERCA E SVILUPPO
Nulla di più attuale, legato peraltro a doppio filo con il nucleare. Lo stesso ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani, lo considera “il futuro”. Perchè, ha spiegato di recente, “i referendum si rispettano” ma “va fatta ricerca e sviluppo”. E non si tratta della solita boutade. Da uno studio di Elsevier su oltre 70mila paper degli ultimi 6 anni nel mondo emerge che gli studiosi italiani sono sul terzo gradino del podio in Ue (dopo Regno Unito e Germania), per numero di pubblicazioni sul nucleare. Se ne contano almeno 2600 dal Belpaese e alcune di queste rappresentano un modello di accuratezza e innovazione superiore persino a quello di Francia e Giappone, Paesi che hanno maturato una certa esperienza sul tema. E non è un caso.
BOOM ECONOMICO AGLI ANNI ’80
Già negli anni ’50 e ’60 i ricercatori italiani erano pionieri nella ricerca sull’energia nucleare. Spinti dalla necessità di garantire al Paese una certa “sicurezza energetica”, i governi di allora promossero la costruzione dei primi reattori. Risale al 1959 quello di Ispra (Varese) destinato “alla ricerca”. Seguirono 4 anni più tardi le centrali di Borgo Sabotino (Latina) e di Sessa Aurunca (Caserta), mentre nel 1965 venne inaugurata quella di Trino (Vercelli), che segnò un record: alla sua entrata in funzione era la più potente al mondo, con i suoi 260 MWe e il reattore ad acqua pressurizzata. La quarta centrale fu nel 1978 quella di Caorso (Piacenza). Ci fu anche il tentativo di accendere l’impianto di Montalto di Castro (Viterbo) ma i lavori si interruppero prima nel 1987 (per il referendum) e poi, definitivamente, nel 1988. Di fatto l’espansione del nucleare in Italia cominciò alla fine degli anni Cinquanta e si fermò al 1981, con la centrale emiliana. In mezzo ci fu la nascita dell’Enel e l’avvio dell’importazione di idrocarburi che, secondo gli studiosi, fu il primo freno allo sviluppo dell’industria nucleare di Stato e ai programmi di ricerca italiani.
IL NODO SCORIE
I referendum abrogativi sul nucleare stabilivano lo stop alle centrali ma non stabilivano certo le modalità di gestione e smaltimento delle scorie. Dopo oltre un anno per la consultazione pubblica (dal 5 gennaio 2021 al 14 gennaio 2022), a metà marzo Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari, commissariata dal governo il 22 giugno) ha trasmesso al ministero della Transizione ecologica la proposta di Carta nazionale delle aree idonee (Cnai) ad ospitare il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi. La mappa individua 67 aree tra Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia e Basilicata, Sicilia, Sardegna e ora la norma prevede che il MiTe, acquisito il parere tecnico dell’Ispettorato nazionale per la Sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), approvi con proprio decreto la Carta, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili. Delle 67 aree individuate, sono 12 quelle ritenute più idonee: 2 in provincia di Torino (Rondissone-Mazze-Caluso e Carmagnola), 5 in provincia di Alessandria (Alessandria-Castelletto Monferrato-Quargnento; Fubine-Quargnento; Alessandria-Oviglio; Bosco Marengo-Frugarolo; Bosco Marengo-Novi Ligure) e altre 5 in provincia di Viterbo (Montalto di Castro, Canino-Montalto di Castro, Corchiano-Vignanello, Corchiano). Le altre aree sono ritenute comunque idonee ma hanno una valutazione inferiore. Il monitoraggio è servito infatti ad assegnare una sorta di punteggio ai vari siti e tra i parametri considerati ci sono la morfologia del territorio (altitudine sotto i 700 m s.l.m, pendenze inferiori al 10%) ma anche il grado di rischio sismico e idrogeologico, la densità abitativa e la presenza di aree protette e siti Unesco.
Nel nuovo deposito nazionale saranno stoccati tutti i rifiuti nucleari italiani: sono circa 95mila metri cubi (17mila a media-alta attività e 78mila a bassa-molto bassa attività). Il materiale radioattivo proviene da installazioni nucleari (4 centrali e 4 impianti del ciclo del combustibile), ma anche da centri di ricerca e gestione di rifiuti industriali. In particolare in Italia esistono 4 centrali e un reattore di ricerca Sogin, 4 impianti del ciclo del combustibile (Sogin-Enea) e 7 centri di ricerca (Impianti Ipu e Opec di Enea a Casaccia-Roma, Ccr Ispra a Varese, Deposito Avogadro a Vercelli, LivaNova a Vercelli, Centro Energia e Studi Nucleari ‘Enrico Fermi’ di Milano, Lena-Università di Pavia e Agn-201 dell’Università di Palermo). A questi si aggiungono i 3 centri attivi del Servizio Integrato (Nucleco a Casaccia-Roma, Campoverde ad Alessandria e Protex a Forlì) e 1 centro del Servizio Integrato non più attivo (Cemerad a Taranto).
Lo scorso aprile, Sogin ha garantito l’impegno “nell’accelerazione delle attività che consentirà entro quest’anno di superare la soglia del 45% nelle attività di decommissioning nucleare”. Il piano industriale 2020-2025 conferma peraltro “l’obiettivo di realizzare nell’arco di piano un volume di attività per oltre 900 milioni di euro. Il picco è nel biennio 2022–2023 con l’avvio, fra l’altro, degli smantellamenti dei reattori delle centrali di Garigliano e Trino, che rappresentano i lavori più complessi dal punto di vista ingegneristico e operativo nella dismissione di un impianto nucleare”.