Il suolo è inquinato? Te lo dice il porcellino di terra

Valutare l’inquinamento del suolo con un metodo del tutto naturale, osservando cioè il comportamento di alcuni organismi che lo popolano ovvero i porcellini di terra: è questo l’obiettivo dei ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca che hanno lanciato la campagna di crowdfunding ‘Tanti Piccoli Porcellin!‘ per sviluppare un prototipo strumentale per riconoscere un suolo sano da uno contaminato, coniugando le risposte comportamentali dei porcellini e i più sofisticati strumenti dell’intelligenza artificiale.

I porcellini di terra sono gli unici crostacei ad avere colonizzato la terraferma a partire dal Carbonifero Inferiore, fra i 359,2 e i 318,1 milioni di anni fa: questi antichissimi animali dovettero adattarsi in un ambiente nuovo compensando, prima fra tutte, la disidratazione. Come? Attraverso un particolare comportamento gregario: i porcellini di terra tendono a stare aggregati, perché questo riduce la superficie di contatto dei singoli animali con l’aria. In condizioni di stress indotto da un suolo contaminato, il gruppo invece si frammenta.

“Il primo passo per contrastare gli effetti dell’inquinamento dei suoli, è proprio quello di monitorarne lo stato di contaminazione. Per farlo abbiamo ideato un metodo rapido, economico e non invasivo, nonché rispettoso nei confronti degli animali”, spiega Lorenzo Federico, responsabile del progetto e dottorando presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università di Milano-Bicocca. “Grazie al crowdfunding svilupperemo un migliore metodo di osservazione per il comportamento gregario dei porcellini di terra quando esposti ai suoli e ne quantificheremo le risposte grazie ad algoritmi sviluppati all’interno del nostro team. In altre parole, studiando come reagiscono i porcellini potremo capire se un suolo è inquinato o meno, e a che livello”.

Nello specifico, lo stato di aggregazione verrà monitorato mediante un dispositivo che combina un detector (microtelecamera a infrarossi) e un’arena in plexiglas, all’interno della quale sarà disposto il suolo da monitorare e dieci porcellini di terra. Basteranno poche ore perché i contaminanti, se presenti, determinino alterazioni comportamentali facilmente quantificabili. “Il nostro obiettivo finale è quello di sviluppare un prototipo che utilizzi la procedura automatica di analisi già brevettata da Elisabetta Fersini, docente di Informatica del nostro ateneo, per quantificare lo stato di aggregazione dei porcellini quando esposti a suoli contaminati”, spiega Sara Villa, docente di Ecologia presso l’Università Milano-Bicocca e componente del team. “Questo auto-apprendimento sarà utile per ridurre i tempi di analisi e di elaborazione di un rapporto di qualità ambientale”.

Per sviluppare un primo prototipo sperimentale si punta a raccogliere 10.000 euro attraverso la campagna di raccolta fondi attiva su Ideaginger.it, la piattaforma di crowdfunding con il tasso di successo più alto in Italia. Il progetto ‘Tanti Piccoli Porcellin!’ – tra quelli della VI edizione di BiUniCrowd, l’iniziativa dell’Università di Milano-Bicocca che permette ai progetti della comunità universitaria di ottenere sostegno e visibilità dall’esterno – è stato selezionato da A2A, che cofinanzierà la campagna di crowdfunding.

Chi desidera fare una donazione avrà anche l’opportunità di fare analizzare il suolo del proprio orto o del proprio giardino per verificarne lo stato di salute.

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La mappa del consumo di suolo italiano: dove stiamo perdendo terreno

Nell’ultimo anno in Italia sono stati consumati 21 ettari di suolo al giorno, il valore più alto degli ultimi 11 anni. Per rimpiazzare ciò che il terreno forniva naturalmente (come la regolazione del microclima e del regime idrogeologico, la produzione agricola o lo stoccaggio di CO2) abbiamo speso circa 20 miliardi dal 2006. Da oggi ci costerà 9 miliardi l’anno.

Perdiamo una risorsa fragile e limitata, fondamentale in un Paese caratterizzato da forte dissesto idrogeologico. E la perdiamo a ritmi mai visti in tempi recenti: secondo l’ultimo rapporto Ispra e Snpa sul consumo di suolo, nel 2022 sono stati consumati 76,8 km2, il 10,2% in più rispetto al 2021.

Quando si parla di consumo, si intende la perdita parziale o irreversibile di questa risorsa, dovuta principalmente all’occupazione di superfici in origine agricole, naturali o seminaturali: si tratta quindi, per la maggior parte, di coperture artificiali, dovute alla costruzione di nuovi edifici e infrastrutture.

Ma la causa non è soltanto il cemento portato dall’espansione delle città: tra le motivazioni ci sono anche le coltivazioni che degradano il terreno agricolo da un punto di vista fisico, chimico e biologico giocando un ruolo importante nel deterioramento del suolo, così come gli scavi di cave e miniere.

I problemi che ne conseguono sono diversi.

Quello più dannoso è l’impermeabilizzazione: l’acqua non viene assorbita ma resta invece in superficie, e, accumulandosi, rende particolarmente grave una caduta intensa di piogge. L’alluvione in Emilia Romagna, terza regione per consumo di suolo, è il caso più emblematico.

Un altro pericolo, forse più nascosto, è legato all’utilizzo di aree naturali e agricole per la costruzione di unità abitative. In un contesto di crescita demografica in negativo da decenni, molte case resteranno, con ogni probabilità, vuote, trasformandosi presto in ruderi.

Questa mappa interattiva, elaborata da GEA sui dati di Ispra e Snpa, nella prima visualizzazione mostra le aree che, in percentuale, soffrono in maggior misura di questo problema. La seconda, invece, evidenzia i comuni che dal 2006 (anno in cui è iniziato il monitoraggio) a oggi hanno aumentato, sempre in percentuale, il suolo consumato. È possibile digitare il nome del proprio comune.

La prima mappa mostra la distribuzione dell’urbanistica italiana. “In 15 regioni il suolo consumato stimato al 2022 supera il 5%” si legge infatti nel rapporto, “con i valori percentuali più elevati in Lombardia (12,16%), Veneto (11,88%) e Campania (10,52%). La Lombardia detiene il primato anche in termini assoluti, con oltre 290mila ettari di territorio artificializzati (il 13,5% del suolo consumato in Italia è in questa regione)”.

In termini di incremento percentuale, ovvero la seconda visualizzazione, i valori più elevati sono quelli di Puglia, Sardegna e Sicilia.

Le cause sono difficili da ricollegare a un singolo fattore, in quanto sono spesso legate a motivazioni specifiche e locali.

Volendo però cercare qualche elemento di sintesi, in Puglia, molti comuni hanno avuto un incremento prevalentemente legato all’edilizia e allo sviluppo turistico, ma anche alla realizzazione impianti fotovoltaici a terra di tipo tradizionale realizzati su aree agricole.

Al Nord, invece, la crescita più elevata si evidenzia, in particolare, nei comuni dove maggiore è stato l’impatto di nuove infrastrutture (per esempio la Brebemi o la Pedemonontana) o di nuovi poli legati alla logistica (spesso a loro volta collocati lungo i principali assi infrastrutturali).

In ogni caso, la scelta di analizzare l’incremento percentuale evidenzia in maniera particolare le trasformazioni dei piccoli comuni: è il caso, per esempio, di San Floro, in provincia di Catanzaro, che dal 2006 a oggi ha aumentato del 96,33% il proprio suolo consumato, a causa di un’ampia zona agricola destinata a impianti fotovoltaici, e dell’apertura di una nuova area estrattiva.

A Brescia nasce Kilometro verde, per un’agricoltura attenta al risparmio di acqua e suolo

Il risparmio di acqua e suolo, nonché il recupero di aree urbane dismesse sono alcuni tra i benefici della tecnica di coltivazione in verticale anziché in orizzontale. Il ‘Vertical Farming’ – questo il nome della tecnica – viene considerata la nuova frontiera dell’agricoltura, come spiega a GEA Giuseppe Battagliola, ideatore della start up bresciana ‘Kilometro verde’ basata, appunto, su questo concetto. “II Vertical Farming nasce come evoluzione dell’agricoltura idroponica, tecnica di coltivazione fuori suolo in cui le piante crescono in una soluzione di acqua e sali minerali. È un tipo di coltura al chiuso, in cui si sfrutta lo spazio in verticale per far crescere le piante in un ambiente protetto in cui tutti gli elementi sono sotto il controllo dei nostri agronomi. Questo ci permette di creare le condizioni ottimali per le diverse specie, sfruttando le conoscenze relative alle biodiversità e agli habitat. Il Vertical Farming – prosegue l’imprenditore è ritenuto la principale innovazione nel settore ortofrutticolo perché consente di risparmiare il 95% di acqua rispetto alle colture tradizionali, di coltivare 365 giorni all’anno, annullando le stagionalità, di risparmiare suolo e di recuperare aree urbane dismesse. Il prodotto finale è incontaminato, già pronto al consumo e con una qualità e una salubrità superiori”.

Nonostante questa attività sia considerata la nuova frontiera del settore agricolo, in Italia si è ancora in una fase di sviluppo embrionale, mentre si possono trovare diversi esempi in altri Paesi del mondo. “È però verosimile – commenta Giuseppe Battagliola – pensare che l’ulteriore valore aggiunto delle Vertical Farms sarà quello di far fronte a problematiche demografiche e legate al clima ostile che caratterizzano alcuni paesi. Il Vertical Farming non ha ancora espresso tutte le sue potenzialità, specialmente per quanto riguarda le fonti energetiche, colonna portante di questa attività. Kilometro Verde, consapevole di questo, ha in essere un accordo con un primario produttore/distributore di energia per la creazione di un campo solare di 10 Megawatt. La riduzione del carbon footprint è perseguita anche attraverso la mitigazione ambientale, il riciclo inteso nel suo concetto più ampio, per creare un’azienda basata sull’economia circolare”. Come imprenditore di questo settore – risponde l’imprenditore – sentivo la necessità di soddisfare le esigenze di una popolazione che è sempre più alla ricerca di un prodotto ‘più pulito’ e che, allo stesso tempo, ha una sensibilità sempre maggiore verso le dinamiche ambientali e sostenibili, il tutto in una logica di economia circolare. Uno dei grandi vantaggi del Vertical Farming è appunto quello di poter risparmiare grosse porzioni di suolo, sfruttando lo spazio in verticale e permettendo così di moltiplicare la superficie produttiva, liberando terra per i contadini e massimizzando la qualità dei prodotti. Diamo così una risposta ad una grande problematica, quella della graduale riduzione del terreno coltivabile. Il Vertical Farming permette anche di riavvicinare le coltivazioni ai centri urbani e di creare una vera logica di “km zero”, riducendo le distanze della filiera distributiva e sfruttando aree dismesse per riqualificare, anche dal punto di vista socio-economico, centri abitati che soffrono della decadenza del settore manifatturiero e commerciale. Preciso che non tutte le colture sono adatte ad essere coltivate nelle Vertical Farms, dato che un elemento caratterizzante di questo tipo di coltura è lo sviluppo in altezza di più strati di coltivazione; quindi, piante troppo alte sono difficilmente adattabili a tali strutture”.

Giuseppe Battagliola, già imprenditore nel settore ortofrutticolo della IV gamma (frutta e verdura confezionata fresca e pronta per il consumo, come per esempio le insalate in busta), conclude consigliando a chiunque di mettersi in gioco rispetto
 a un'esperienza di questo genere. “Posso dire che è un percorso tanto difficile quanto appassionante. Difficile, perché la transizione verso un’economia più sostenibile, etica e che coniughi le mutate esigenze del clima, dell’ambiente 
e del consumatore è una sfida per l’intera l’umanità. Appassionante, perché il Vertical Farming crea un connubio tra elementi apparentemente contrastanti da cui si genera valore per le persone e per il territorio: scienza e tecnologie innovative
da una parte, agricoltura dall’altra”.

 

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La revisione dei regolamenti Ue sulla condivisione di sforzi e uso suoli

Oltre al sistema di scambio delle quote di emissione dell’Unione Europea (ETS), il pacchetto Fit for 55 si spinge oltre, con una proposta di revisione del regolamento sulla condivisione degli sforzi (ESR) tra Stati membri nei settori rimasti scoperti – edifici, agricoltura, rifiuti, piccola industria e trasporti – e del regolamento sulle emissioni e gli assorbimenti di gas a effetto serra derivanti dall’uso del suolo, dai cambiamenti di uso e dalla silvicoltura (LULUCF).

La condivisione degli sforzi – Il regolamento sulla condivisione degli sforzi adottato nel 2018 stabilisce obiettivi annuali vincolanti per le emissioni di gas serra dal 2020 al 2030 per ciascun Paese membro UE, per l’insieme di settori che rappresenta circa il 60% delle emissioni dell’Unione. Nella proposta di revisione della Commissione è prevista la riduzione di almeno il 40% rispetto ai livelli del 2005, con un aumento di 11 punti percentuali rispetto all’attuale obiettivo del 29%. Saranno fissate per ognuno dei Ventisette le assegnazioni annuali di emissioni (AEA), ridotte progressivamente fino al 2030, e creata una riserva volontaria aggiuntiva. A livello di bilancio, viene stimato sul milione e 750 mila euro il costo totale delle misure di sostegno per l’adattamento al quadro più esigente.

La relazione che dovrà essere votata in sessione plenaria del Parlamento Ue, a firma Jessica Polfjärd (Partito Popolare Europeo), invita la Commissione a garantire l’adeguatezza degli obiettivi nazionali, con la possibilità di fissare limiti settoriali alle emissioni. Introduce maggiore trasparenza sulle azioni degli Stati membri e collega l’azione correttiva alla revisione dei piani nazionali per l’energia e il clima, in caso di mancato rispetto degli obiettivi per due anni consecutivi. Elimina la riserva aggiuntiva e stabilisce le assegnazioni annuali di emissioni per il periodo 2023-2030, eliminando il loro adeguamento nel 2025 e chiedendo una proposta sugli obiettivi Ue per le emissioni non-CO2 coperte dall’ESR entro il 2023.

L’uso del suolo

La proposta di revisione del regolamento sulle emissioni e gli assorbimenti di gas a effetto serra derivanti dall’uso del suolo, dai cambiamenti di uso del suolo e dalla silvicoltura (LULUCF) include l’abbandono a partire dal 2026 della regola del no-debit, vale a dire che le emissioni di gas serra non possono superare gli assorbimenti all’interno dello stesso settore. Viene introdotto un rafforzamento dell’obbligo per gli Stati membri di presentare piani di mitigazione integrati per il settore terrestre e dei requisiti di monitoraggio grazie alle tecnologie digitali. A partire dal 2031 il regolamento dovrà coprire l’intero settore agricolo, incluse le emissioni non-CO2, e sarà necessario definire un valore per le azioni di mitigazione, introducendo un sistema di certificazione della rimozione del carbonio.

Secondo la proposta della Commissione, l’obiettivo è di invertire l’attuale tendenza alla diminuzione degli assorbimenti nel settore terrestre, arrivando a 310 milioni di tonnellate di CO2 equivalente rimosse entro il 2030 e alla neutralità climatica del settore agricolo e forestale entro il 2035. La relazione che sarà votata in sessione plenaria del Parlamento UE, a firma Ville Niinistö (Verdi), è allineata all’obiettivo delle 310 milioni di tonnellate di CO2 equivalente entro il 2030, ma aggiunge un nuovo sforzo aggiuntivo di 50 milioni di tonnellate di CO2 da rimuovere attraverso l’agricoltura del carbonio. Al contrario, è stata respinta l’idea di unire le emissioni di gas a effetto serra derivanti dall’uso del suolo, dai cambiamenti di uso e dalla silvicoltura con quelle agricole non-CO2 a partire dal 2031.

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Il suolo, una risorsa tanto preziosa quanto trascurata

Il suolo è una risorsa fondamentale per la vita, vulnerabile, limitata e non rinnovabile e custodisce più di un quarto della biodiversità del nostro pianeta. Il suo consumo in Italia continua a crescere a un ritmo tanto veloce quanto preoccupante. Secondo i dati Ispra, nell’ultimo anno le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 km², ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. L’Italia perde circa 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, a danno di aree naturali e agricole. Terreni che fanno spazio a nuove case ed edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e ad altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti.

Di emergenza suolo si è parlato nel convegno conclusivo del progetto europeo Soil4Life, coordinato da Legambiente con il coinvolgimento di autorevoli partner italiani, francesi e croati: Ispra, Cia agricoltori italiani, Ccivs, Crea, Ersaf, Politecnico di Milano, Roma Capitale e Green Istria.

Se a questa risorsa normalmente viene destinata pochissima attenzione, in situazioni difficili come quella attuale, dopo due anni di pandemia e con una guerra in corso, il tema rischia di sparire totalmente dal dibattito politico a favore di ‘emergenze più gravi’. Proprio la situazione grave di crisi delle materie prime e di speculazione sui prezzi delle commodity agricole dovrebbe invece indurci a rivalutare l’importanza strategica del suolo sano come risorsa alla base della resilienza del nostro sistema agroalimentare, e quindi garanzia fondamentale per assicurare la continuità della produzione di cibo.

La pressione delle lobby agroindustriali europee punta ad indebolire la condizionalità ambientale della Pac e a rinviare gli obiettivi tracciati dal Green Deal, attraverso la strategia Farm to Fork, di riduzione di impiego di pesticidi e fertilizzanti chimici in agricoltura. Per tentare di incrementare la produttività agricola a breve termine si è disposti a compromettere la salute del suolo e, dunque, a lungo termine, a minacciarne la fertilità.

È proprio ciò che invece intende contrastare la nuova Strategia Tematica sul Suolo, presentata lo scorso novembre dalla Commissione Europea. La stessa ha avviato nelle scorse settimane la consultazione anche sulla proposta di Legge Europea per la Salute del Suolo: la speranza è che questo fondamentale provvedimento veda la luce entro l’attuale legislatura Ue, nonostante il contesto di crisi generalizzata.

Pensiamo che non ci sia più tempo per rinviare la assunzione di un impegno forte e vincolante per dotare l’Europa di una direttiva per la protezione dei suoli, per questo, anche grazie al progetto Soil4life, abbiamo attivato iniziative internazionali di sostegno ed un appello per una leadership europea nella lotta al degrado del suolo”, ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente.

Lo scenario del degrado del suolo è particolarmente inquietante per un Paese come l’Italia, in cui il 20% dei suoli sono già considerati a rischio di desertificazione. Numeri inquietanti che si aggiungono a quelli dei suoli che sono stati persi per effetto dell’urbanizzazione: secondo i dati Ispra, solo nell’ultimo quindicennio sono stati impermeabilizzati oltre 105.000 ettari di suolo, come se fosse stata completamente urbanizzata un’area estesa come il comune di Roma. Una superficie che, se invece che a cemento fosse stata coltivata a mais, avrebbe potuto produrre quasi 1,5 milioni di tonnellate di cereale all’anno.

L’utilizzo intensivo del suolo con finalità agricole può portare a perdita di sostanza organica, un fenomeno di impoverimento progressivo che, nelle regioni a clima più caldo, è l’anticamera della desertificazione. Buone pratiche agricole, a partire dall’agricoltura biologica e dallo sviluppo della produzione e dell’uso di compost di qualità sui suoli agricoli, possono fermare o addirittura invertire la perdita di sostanza organica dei suoli coltivati. La conservazione della sostanza organica nel suolo è infatti il secondo grande tema del progetto Soil4life. Una sfida importante è dunque garantire che le future generazioni possano continuare a disporre di suoli fertili perché ricchi di sostanza organica.