Vento e microplastiche e minacciano le piante

Non solo dalle microplastiche accumulate nel suolo, una pianta deve difendersi anche da quelle diffuse dal vento. E, peggio ancora, dalle microplastiche rese ancora più tossiche dalle alte temperature e dall’azione dei raggi del sole.

È il tema di uno studio appena realizzato dall’università di Firenze. Una parte dello stesso team aveva già lavorato, un anno fa, a un altro esperimento per testare gli effetti delle microplastiche rilasciate nel suolo sulla crescita degli ortaggi (zucchine, in quel caso), ma ora per la prima volta − argomenta la ricerca − i risultati riportano prove degli effetti negativi sulla salute delle piante dell’inquinamento atmosferico da microplastiche.

Per simulare l’azione dell’aria nel trasporto delle microplastiche, le piante esaminate (del genere Tillandsia) sono state disposte all’interno di box progettati ad hoc, dove un sistema di ventole e di ricircolo dell’aria provvedeva a tenere sempre sospese le particelle. Inoltre, durante l’esperimento i polimeri sono stati ‘invecchiati’ artificialmente attraverso irradiazione UV e calore, per stimolare i processi a cui le particelle andrebbero normalmente incontro in atmosfera.

Risultato: una forte riduzione della crescita, ma anche un’alterazione dello stato fisiologico delle piante, con meno efficienza durante la fotosintesi e cambiamenti nei nutrienti contenuti nei tessuti della pianta.

Le plastiche somministrate sono fra le più comuni. Policarbonato (PC), polietilene (PE), polivinilcloruro (PVC), polietilentereftalato (PET). Tutti materiali contenuti normalmente nell’edilizia, nelle bottiglie di plastica, negli elettrodomestici, negli imballaggi. Ma ridotti, in questo caso, a meno di un micron di grandezza. Il più tossico? il PCV. Ma dopo il processo di invecchiamento il policarbonato diventa il più dannoso.

I prossimi esperimenti − spiegano dal gruppo di ricerca − potrebbero rivolgersi verso piante edibili, e utilizzare microplastiche di dimensioni ancora minori. Sono risultati che certificano la minaccia dell’inquinamento atmosferico da micro e nano plastiche: la loro dispersione dovrà essere monitorata per evitare che entrino in maniera massiva nella nostra catena alimentare attraverso le specie vegetali destinate al consumo animale ed umano.

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UniFirenze: “Le farfalle più belle sono quelle più tutelate”

Quasi la metà delle popolazioni di farfalle europee è in sofferenza e alcune sono a rischio di estinzione, a causa dei cambiamenti climatici e della conseguente perdita di habitat. Quali strategie e strumenti adottare per tutelarle? Come modulare gli interventi? Una proposta viene da ‘Unveiling‘, progetto dell’Università di Firenze coordinato dai dipartimenti di Lettere e Filosofia e di Biologia, che punta a mettere in luce, per la prima volta in modo rigoroso e approfondito, il ruolo della bellezza e dell’esperienza estetica nell’ideazione di strategie efficaci di conservazione biologica.

L’iniziativa, che si ispira al principio della scienza partecipata con il coinvolgimento dei cittadini (citizen science), mette a disposizione un test online sul proprio sito www.unveiling.eu per “votare” le specie di farfalle valutandole nella globalità delle loro componenti: percettiva, emotiva, cognitiva e immaginativa. In parallelo il progetto si occupa dell’analisi estetica delle foto-segnalazioni di farfalle europee caricate sul sito iNaturalist da comuni cittadini, per valutare quali catturino maggiormente l’interesse degli appassionati. A coordinare lo studio sono Mariagrazia Portera, ricercatrice di Estetica, e Leonardo Dapporto, ricercatore di Zoologia.

L’ipotesi alla base dell’esperimento – spiega Portera – è che, a parità di rischio d’estinzione, non tutte le specie di farfalle godano allo stesso modo di forme di tutela. Sembra che tendiamo a investire e a impegnarci di più per le specie che ci risultano più belle e a non preoccuparci troppo per quelle meno attraenti. Ma tutte hanno bisogno di protezione!“. “Grazie ai risultati di Unveiling – aggiunge Dapporto – le liste di protezione nazionali e internazionali potranno essere riviste, tenendo conto dei ‘pregiudizi’ estetici, in modo da risultare ancora più efficaci, i parchi nazionali e le associazioni ambientaliste potranno scegliere con maggior consapevolezza le loro specie-bandiera e, nel caso di farfalle a rischio ma in prima battuta non particolarmente attraenti, si potrà procedere ad azioni diversificate e multi-livello di ri-modulazione e ri-educazione della percezione estetica“.

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Danise (UniFi): “Così ho trovato il plancton fossile anti-climate change”

E se la paleontologia ci aiutasse a rileggere il futuro climatico del nostro pianeta? La rivista scientifica americana ‘Science‘ ha pubblicato in copertina una ricerca capace di riscrivere la storia degli oceani, e che propone una rilettura della resilienza del plancton marino ai cambiamenti climatici del passato. Uno studio internazionale, con una partecipazione tutta italiana. Silvia Danise, fra i firmatari del lavoro, è un esempio di ‘cervello di ritorno’: dopo 7 anni all’estero per studiare estinzioni e riscaldamento globale dal punto di vista della paleontologia, è oggi docente all’Università di Firenze. Insieme ai colleghi e alle colleghe del Museo Svedese di Storia Naturale, del Museo di Storia Naturale di Londra e dell’University College di Londra ha documentato (inizialmente per caso) le impronte microscopiche lasciate dal plancton nei fondali marini di milioni di anni fa. E le ha individuate in corrispondenza di un lasso di tempo geologico in cui non avrebbero dovuto esserci. O almeno così si era creduto fino ad ora.

Gli organismi fossili individuati sono coccolitoforidi. Un plancton unicellulare che abbonda, oggi come allora, negli oceani. La loro importanza è fondamentale per gli ecosistemi marini: “Stanno al mare come gli alberi stanno alla terraferma – spiega Silvia Danise a GEA -, forniscono la gran parte dell’ossigeno che respiriamo, sono alla base delle catene alimentari marine e aiutano a immagazzinare carbonio nei sedimenti del fondo oceanico“.

unifi_coccolitoforidiI classici metodi di osservazione avevano fino a oggi sempre documentato un calo nella presenza di coccolitoforidi fossili in corrispondenza di eventi di riscaldamento globale del passato. Suggerendo che i cambiamenti climatici e la conseguente acidificazione degli oceani avessero gravemente condizionato lo sviluppo di questo plancton negli intervalli geologici presi in considerazione. Attraverso l’uso del microscopio elettronico a scansione, la loro presenza è stata ora documentata da microscopiche impronte (“15 volte più piccole dello spessore di un capello“) rinvenute su pollini e altre sostanze organiche fossilizzate nei fondali. “Testimoniano che anche durante intervalli di riscaldamento globale del passato, i coccolitoforidi proliferavano nell’oceano“, spiega Silvia Danise.

Professoressa, possiamo dire che la paleontologia può aiutarci a comprendere come anche il nanoplancton di oggi possa resistere o meno a cambiamenti climatici importanti?
“Sicuramente abbiamo una prova che, almeno nel passato, il nanoplancton è stato più resiliente di quanto si credesse. Non significa che gli oceani risponderanno bene al riscaldamento climatico. Ma è un elemento che apre nuove discussioni. Del resto, gli esperimenti dei biologi che hanno provato a misurare in laboratorio la resistenza del nanoplancton sottoponendoli a particolari temperature o condizioni di pH non arrivano a risultati unanimi”.

Certo, non è semplice paragonare i cambiamenti climatici del passato a quelli attuali.
“Questa è una premessa importante. E non tanto perché i processi siano molto diversi, parliamo sempre di riscaldamento globale e aumento di CO2. A cambiare però è la scala temporale. I processi che studiamo da paleontologi avvengono in centinaia di migliaia di anni. Quando facciamo previsioni sul futuro del pianeta parliamo di decine, o al massimo centinaia, di anni. Serve cautela insomma”.

fossiliQuale potrebbe essere allora un prossimo passo per avvicinarci a ipotizzare il futuro dei nostri oceani partendo dai risultati di questa ricerca?
“Uno step successivo può essere andare a studiare eventi di global warming più recenti. Noi abbiamo osservato tre momenti di riscaldamento del pianeta nel Giurassico e nel Cretaceo. Ma la Terra era più calda di oggi anche ‘solo’ 3 milioni di anni fa: studiare periodi più vicini, oltre che con una fauna più simile alla nostra, può restituire informazioni più dettagliate. Il tutto utilizzando le stesse tecniche della nostra ricerca”.

A proposito di tecniche. Come avete scoperto la presenza di plancton fossile in un intervallo di tempo geologico in cui si credeva fosse assente?
“È accaduto in modo fortuito. Il primo autore della ricerca non si occupa di plancton. Ma di pollini. Mentre osservava al microscopio elettronico dei granuli di polline fossile ha notato sulla loro superficie delle impronte particolari, che poi abbiamo riconosciuto come i segni lasciati dalle placchette calcaree che costituiscono i coccolitoforidi. Dei fossili ‘fantasma’ insomma”.

Che teoricamente non dovevano esserci, visto che non sono mai stati rintracciati in quei sedimenti fossili.
“Esatto. Si è sempre pensato che l’assenza di fossili fosse dovuta all’assenza stessa degli organismi, che verosimilmente non sarebbero riusciti a calcificare il proprio guscio a causa dall’acidità elevata degli oceani. E invece i plancton c’erano. A mancare sono soltanto i loro esoscheletri fossili, deteriorati troppo presto per essere conservati come fossili nella roccia, ma non prima di lasciare una traccia su altri resti di materia organica in diverse parti del mondo”.

Qual è il risultato più importante per lei?
“Dal punto di vista della ricerca è importante ricordarsi che interpretare i dati in modo nuovo può sempre portarci a un cambio di paradigma. Io spero che, leggendo questa ricerca, qualche collega abbia magari lo spunto per riprendere in mano un lavoro o un risultato, e abbia lo spunto per provare a reinterpretarlo”.