Raffreddare i poli? Tecnicamente si può e costa poco

A livello di governance, però, resta impraticabile, come spiega il climatologo Maurizio Maugeri. Chi si prenderebbe la responsabilità di un cambiamento che provocherebbe reazioni a catena?

Immaginate di salire con un aereo a 13 chilometri d’altitudine. Sorvolare la Patagonia se siete nell’emisfero sud – oppure la Scandinavia o l’Alaska, a nord. E una volta raggiunta la stratosfera rilasciare, per circa due minuti, microscopiche particelle di aerosol. Se fatto per due volte all’anno con una piccola flotta di 125 aerei, darete forma a un sottile strato che lentamente raggiungerà il polo nord e il polo sud. E che sarà capace di riflettere una parte della radiazione solare per ridurre di 2 °C la temperatura dei poli sottostanti, proteggendoli.

Troppo bello per funzionare? E invece no. Una ricerca pubblicata da Environmental Research Communications ne ha calcolato implicazioni e fattibilità. Il costo? 11 miliardi di dollari all’anno. Cioè nulla, se può servire a ridurre lo scioglimento dei ghiacci ed evitare l’innalzamento dei mari in tutto il pianeta.

In realtà l’idea di iniettare aerosol nella stratosfera contro il global warming è dibattuta da decenni. Ma se oggi sembrano superati i limiti legati all’efficienza del processo, “restano comunque effetti negativi da tenere in considerazione” come spiega il climatologo Maurizio Maugeri, professore di Fisica dell’atmosfera alla Statale di Milano.

Il primo problema riguarda l’impatto dei voli stratosferici: “Stiamo finalmente recuperando concentrazioni di ozono in atmosfera dopo il calo degli ultimi decenni” spiega il professore, “siamo sicuri di non rischiare, con un’operazione di questo tipo, un nuovo decremento?”. Le particelle che dovrebbero fare da scudo alla radiazione solare infatti – si legge nella ricerca – sarebbero composte da anidride solforosa, gas che ossiderebbe in acido solforico per poi coagularsi in aerosol liquidi dopo un mese nella stratosfera. Composti che, inoltre, tornerebbero lentamente sulla terra sotto forma di deposizioni acide.

Lo studio pubblicato è in realtà molto onesto, e le criticità sono espresse con chiarezza”, spiega Maugeri, “e resta senz’altro molto importante continuare a studiare questo argomento di ricerca vista la situazione di crisi ambientale che stiamo vivendo”. Ma come ogni progetto di geoingegneria vanno valutati gli effetti indiretti, “di cui” continua Maugeri, “non conosciamo con precisione la pericolosità”.

E questo è il punto più importante. Modificare anche un piccolo equilibrio legato alla temperatura atmosferica può avere impatti molto evidenti: come per esempio lo spostamento del confine tra una zona tropicale e una zona equatoriale molto umida, oppure trasformare un’area del mondo oggi ricca di precipitazioni in un’area impossibile da coltivare e viceversa.

Il punto è: chi si prende la responsabilità di un cambiamento che provocherebbe reazioni a catena (anche di approvvigionamento alimentare) su aree e popolazioni diverse? “La governance del mondo purtroppo non è fatta per gestire potenziali conflitti di questo genere” spiega Maugeri, “e al di là delle difficoltà tecnologiche il vero rischio sarebbe innescare cambiamenti che possono avere impatti importanti e difficili da prevedere”. Detta male: l’atmosfera è una sola, chi decide se e come intervenire?