L’energia a fusione nucleare? Sarà talmente economica da non aver nemmeno bisogno di essere misurata. Non è vero, ovviamente. La frase – metà anni ‘50 – è attribuita all’allora presidente della commissione per l’energia atomica Lewis Strauss (per gli amanti del cinema: uno dei protagonisti, interpretato da Robert Downey Jr, del film campione di incassi ‘Oppenheimer’). Richiamava l’idea di un futuro in cui l’energia potesse essere – cito – disponibile come l’acqua.
La previsione rimandava alla futura progettazione di reattori nucleari a fusione. Macchine in cui dovrebbe avvenire lo stesso processo che alimenta il Sole e le stelle: strizzare, cioè, la materia grazie a campi magnetici potentissimi (nel Sole ci pensa la gravità) per fondere fra loro nuclei di atomi di idrogeno. E generare energia. Tutto diverso dal processo delle attuali centrali a fissione, dove invece la reazione si produce bombardando l’atomo.
Riprodurre la fusione sulla Terra ci darebbe l’energia dei sogni: pulita, sicura, prodotta da un combustibile facilissimo da reperire, e senza produzione di scorie radioattive a lungo tempo di decadimento.
La previsione di settant’anni fa era, senz’altro, troppo entusiasta. Il percorso che potrebbe portarci a una vera centrale termonucleare funzionante guarda a dopo il 2050. In mezzo ci sono una serie di sfide scientifiche e tecnologiche.
Ma la frase di Strauss (“Too cheap to meter”, in originale) era impropria anche in senso più stretto: una delle sfide lungo il percorso, infatti, è proprio quella di misurare la potenza emessa dal reattore durante un processo di fusione. Sì, perché la fusione nucleare è già una realtà dal punto di vista sperimentale. Quello che manca è dimostrare che possa essere vantaggiosa economicamente in un reattore di grandi dimensioni, capace, in teoria, di alimentare intere città.
La vera notizia, è che oggi l’ostacolo della misurazione è superato. A compiere l’ultimo importantissimo passo, un team di fisici italiani dell’università di Milano-Bicocca e del Cnr. La sfida era trovare un metodo di misurazione indipendente a quello già sviluppato in passato, basato sui neutroni emessi dalla reazione. Un nuovo metodo che potesse confermare i risultati del primo durante il processo di fusione. E senza il quale, di accendere il reattore non se ne parla nemmeno.
L’idea degli scienziati è stata sfruttare l’emissione di raggi gamma durante la reazione: individuarli, contarli, e risalire alla potenza. “Come cercare un ago in un pagliaio”, per usare parole loro.
Noi di GEA abbiamo raccontato questa storia. E l’abbiamo pubblicata in esclusiva insieme a Wired, testata da sempre attenta alle tematiche scientifiche.
E per farlo siamo partiti dal passato, che coinvolge fisici come Bruno Pontecorvo, Andrej Sacharov e Bruno Coppi. E dalle storie dei protagonisti di questa scoperta. Come il direttore del dipartimento di Fisica di Milano-Bicocca, Giuseppe Gorini, che ha guidato il gruppo di ricerca dell’ateneo, e che dagli anni ‘80 in poi ha sviluppato gli spettrometri ora utilizzati per le misurazioni. Lavorando insieme a fisici internazionali e facendo calcoli nella campagna di famiglia, vicino a Ravenna, raccogliendo ogni tanto pesche mature dagli alberi. Come a dire che anche i luoghi della scienza sono spesso inaspettati da raccontare. Newton del resto aveva la mela…