Ue, Del Rio (Cese): “Sbloccare due diligence, rischiano morte Pmi delle filiere”

Qualcuno la chiama “bolla europea”. È quella in cui si prendono le decisioni che contano, in cui si può avere sguardo ampio e grandi obiettivi. Questa bolla, però, spesso si scontra con la realtà. Così succede che il green deal venga visto come un ostacolo allo sviluppo e in alcuni casi anche solo al lavoro. La sfida è trovare un compromesso.

L’addio al carbone nella Polonia di Tusk, ad esempio, è stato visto a Varsavia come una scure su migliaia di operai. “Anche i nostri sindacalisti polacchi ci chiedono come fare con tutti i lavoratori”, racconta Cinzia Del Rio, presidente della sezione Occupazione, affari sociali e cittadinanza del Cese e responsabile delle politiche europee della Uil, intervistata a margine della Civil Social Week in corso a Bruxelles.

Come sostenere i lavoratori senza indietreggiare sul Green Deal?

“La questione non è rivedere gli obiettivi ambientali, perché gli obiettivi l’Europa li ha già discussi e condivisi. Il problema è come noi accompagniamo questo processo di transizione. Si tratta di fare scelte politiche e di risorse. Per la riconversione, accompagnare le persone con salari, con supporto al reddito, ma anche con l’aggiornamento delle professioni”.

Per le imprese, l’accordo sulla Due Diligence sembrava chiuso, poi è saltato, ma si discute ancora. Cosa è successo?

“Si comincia a percepire che troppa regolamentazione sociale porti a un danno per le imprese. Vale anche per il platform, per il diritto alla disconnessione, ci sono una serie di provvedimenti che dovevano essere adottati nel precedente mandato rimasti fermi per una serie di veti incrociati. I governi francese e tedesco hanno spinto molto sulla due diligence, perché hanno legislazioni nazionali con standard e criteri stringenti, vorrebbero che gli altri si adeguassero. L’Italia era d’accordo, ma quest’anno si è astenuta e ha fatto mancare la maggioranza. C’è ancora speranza”.

Qual è il rischio per le imprese?

“La morte delle Pmi delle filiere. Perché le grandi imprese vanno dove le norme non sono stringenti, non si pagano i contributi, ci sono meno tutele. È una questione su cui avevamo lavorato molto e c’era consenso, ricordo che parliamo di diritti minimi. Non di salario, non di salute e sicurezza, ma di diritti minimi a cui attenersi quando le imprese vanno nei paesi terzi. Quando ci diamo obiettivi ambiziosi in Europa, non si capisce perché poi possiamo andare in un paese terzo e sfruttare il territorio, non tenendo conto di standard ambientali minimi”.

Gli agricoltori scendono in piazza, parlano di scelte ambientali ideologiche e chiedono ascolto sulla nuova Pac.

“Sull’agricoltura, non possiamo rimettere in discussione il green deal. Quello che dobbiamo rivedere sono le politiche di accompagnamento. Non possiamo pensare che l’80% dei sussidi della Pac vada a finire al 20% delle imprese. Questo non è accettabile, deve essere ripartito in modo equo a tutta la filiera. Tutti siamo rimasti colpiti dai trattori nelle strade, la questione è: è necessario rallentare sulla transizione? Non si tratta di rallentare, ma di accompagnare il processo”.

Le presidenze del Consiglio dell’Ue spagnola e belga sono state pro-social. Le prossime, soprattutto quella ungherese, potrebbero non avere agende sociali ambiziose. È preoccupata?

“Noi siamo molto preoccupati dal punto di vista sindacale. E torno sulla due diligence: sotto il profilo de lavoro, non è solo una questione etica, ma di sopravvivenza stessa delle imprese. Pensiamo che col nuovo Parlamento si blocchi tutto? È un rischio”.

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Oliver Röpke: “L’acqua è un problema urgente. Serve Blue Deal separato con fondo ad hoc”

L’acqua è una risorsa vitale, ma limitata e sempre più minacciata. Tanto che “non può più essere uno degli elementi del Green Deal”, ma deve avere una dignità a sé. Ne è fermamente convinto Oliver Röpke, presidente del Comitato economico e sociale europeo, intervistato da GEA a margine della Civil Society Week, in corso a Bruxelles.

Insediato da 10 mesi, Röpke promette di dare una sferzata al comitato, dal “potenziale enorme”, perché il momento non è semplice e serve la voce di tutti. Sono “shaky times”, ripete. L’impatto evidente dei cambiamenti climatici, dalla siccità alle alluvioni, non è l’unico a minacciare l’acqua. L’inquinamento dilaga, i consumi dell’industria diventano sempre più intensivi e le infrastrutture sempre più datate provocano uno spreco senza senso. Per questo, il cambiamento di scala deve essere a livello europeo. Perché , sottolinea Röpke, è “inaccettabile che nell’Ue ci siano persone che non hanno ancora accesso all’acqua e ai servizi igienici”.

Per proteggere le risorse d’acqua dolce e marine, l’Ue ha istituito dei quadri giuridici, ma molti degli obiettivi fissati non sono stati raggiunti. Guardando a un approccio globale, il Cese ha adottato una serie di pareri che affrontano la crisi idrica nelle diverse dimensioni, invitando le istituzioni europee a considerare l’acqua come una priorità strategica nel periodo di programmazione 2028-2034 e oltre, integrata in tutte le politiche dell’Ue.

Cosa cambierà con il Blue Deal?

“Ci sarà una politica completa e coerente, basata su principi guida e azioni concrete. Si tratta di anticipare le esigenze e di preservare e gestire adeguatamente le nostre risorse idriche comuni a breve, medio e lungo termine. L’Europa può trasformare le sfide legate all’acqua in nuove opportunità per lo sviluppo tecnologico, il progresso sociale, la creazione di nuovi posti di lavoro, le competenze e la crescita delle imprese, nel rispetto dell’ambiente. È tempo di unire le forze e trovare soluzioni comuni alla crisi sistemica dell’acqua. La nostra azione collettiva, sostenuta da una strategia idrica forte e ambiziosa a livello europeo, è l’unica garanzia per un futuro sostenibile”.

Gli investimenti necessari a realizzare tutte le infrastrutture saranno enormi, ha idea di un ammontare dei costi?

“Non parliamo di cifre, perché vogliamo iniziare dalle regole e dalla governance. Abbiamo bisogno di dati dai singoli Paesi, dati coordinati dall’Unione europea. E poi abbiamo bisogno di una strategia, di piani d’azione per gli investimenti per le infrastrutture. Ci sono già dei fondi che, ad esempio, arrivano dalla politica di coesione, ma vogliamo rendere tutto questo più coerente, con un Blue Transition Fund, come punto di accesso unico per gli investimenti sull’acqua e combinare investimenti pubblici con finanziamenti innovativi”.

In che modo i temi ambientali influenzeranno le elezioni di giugno, considerando che si fatica a trovare un punto di equilibrio tra sostenibilità ambientale e sociale?

“Si fatica davvero. Osserviamo una regressione, una nuova ostilità delle politiche per la transizione ambientale, anche purtroppo a livello della società civile. Questo è preoccupante perché non possiamo permettere che ci siano passi indietro sulla transizione ecologica. Dobbiamo assicurarci di raggiungere i target. Ma è anche vero che il Social Deal non è pienamente preso in considerazione. Non siamo sorpresi che ci sia una resistenza crescente”.

Aumento dei prezzi dell’energia, difficoltà nelle catene di approvvigionamento, cambiamenti climatici. Il mondo dell’agricoltura insorge e forse non è l’unico…

“Decisamente no. Gli agricoltori fanno più rumore, ma non sono gli unici a soffrire questi tempi difficili. La transizione ecologica è difficile anche per l’industria, gli investimenti nell’industria europea diminuiscono. E non dimentichiamo i cittadini, le persone comuni, i lavoratori, le famiglie che stanno soffrendo l’aumento del costo della vita. Abbiamo bisogno di investimenti o rischiamo che le transizioni ecologica e digitale falliscano”.

Ha annunciato un coinvolgimento maggiore dei giovani nel Cese, la loro voce rafforzerà anche la battaglia per l’ambiente?

“Sì, è sempre incoraggiante avere il punto di vista dei giovani. L’abbiamo visto in tante tavole rotonde sulla sostenibilità, ma anche ad alti livelli come la Cop28. I giovani sono i più preoccupati, perché sono coloro che nelle prossime decadi convivranno con le conseguenze peggiori del cambiamento climatico. La nostra idea è quella di creare corpo speciale all’interno del comitato, un gruppo di giovani, che proporremo come corpo permanente”.

Energia, clima e competitività: il Cese chiede soluzioni a livello europeo

L’energia come arma in tempo di guerra e il mercato dell’energia rimescolato dal contesto geopolitico: sono questi alcuni dei temi al centro del seminario organizzato a Bruxelles dal Comitato economico e sociale europeo che ha preceduto la Plenaria, in corso il 14 e il 15 dicembre. Ad affrontare il tema, per primi, i vertici del Cese. A partire dalla presidente Christa Schweng, con una riflessione sull’importanza del fatto che “nella transizione green e digitale” nessuno venga “lasciato indietro”, e dal vicepresidente Cilian Lohan che spiega come “la crisi energetica ha messo in difficoltà il green deal, spesso viene usata come scusa per rallentare l’azione climatica”. Già, perché energia e clima sono strettamente connessi. Così come lo è, allo stesso modo, il benessere economico dell’Europa, colpito dai rincari energetici e dall’inflazione.

Lo sa bene Alena Mastantuono, membro del Cese e delegata permanente della Camera del Commercio Ceca all’Eurocamera, che parla di un rischio concreto per la competitività. “La sicurezza delle forniture di energia – spiega – deve essere la priorità numero uno: se non avremo abbastanza forniture i prezzi cresceranno e saremo sempre meno competitivi rispetto a Usa e Cina. All’Europa servono soluzioni a livello europeo”. Quali, quindi, le soluzioni? “Accelerare sulle rinnovabili”, sicuramente, ma “guardare anche all’idrogeno”. Strizzando l’occhio pure al nucleareper la sicurezza energetica, ma ogni paese può decidere in merito. Io arrivo dal centro Europa (Repubblica Ceca, ndr): non abbiamo accesso al mare e non c’è molto sole. Sono importanti le interconnessioni. Il sistema energetico del mio Paese – spiega Mastantuono – è basato su nucleare e carbone. Le condizioni geomorfologiche non sono uguali per tutti i Paesi, bisogna considerare anche il tasso di industrializzazione. Deve essere una decisione di ogni stato”. Non è del tutto d’accordo Thomas Kattnig, membro del Cese e dell’Austrian Trade Union Federation: “Sta agli Stati decidere, ma dobbiamo considerare anche il lato oscuro del nucleare. Ci sono alternative migliori che possiamo sviluppare, come l’idrogeno verde”.

Meno controverse le posizioni sulle rinnovabili. Tutti d’accordo: sono fondamentali. Ma, per esempio sul fotovoltaico, “siamo dipendenti dalla Cina e dobbiamo portare l’industria in Europa per aumentare anche i posti di lavoro”, sottolinea Mastantuono. Per questo, secondo Kattnig, “se vogliamo usare più rinnovabili e evitare di esportare denaro verso altre aree economiche dobbiamo cambiare l’industria. Abbiamo un’opportunità sulla produzione di pannelli solari e batterie. Negli ultimi 20 anni abbiamo risparmiato, ma non ci sono stati abbastanza investimenti a causa dell’austerità: ora è importante spendere per creare un futuro, investire nel campo giusto. Va combattuta la crisi climatica e migliorata la nostra qualità della vita usando energie rinnovabili”. E’ d’accordo anche Lutz Ribbe, membro tedesco del Cese direttore del Department for Nature Conservation Policy della fondazione EuroNatur: “Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dall’importazione di energia. L’energia può essere usata come un’arma. Se importiamo energia, esportiamo soldi. Mentre noi possiamo produrre energia meglio, in maggiori quantità e a un prezzo più basso. Dovremmo essere i numeri uno al mondo nella produzione di energia rinnovabile”.

Alla Cop27 i governi ascoltino anche la società civile

Gli obiettivi climatici non sono estranei ai loro effetti sulla società, nella quale anzi possono causare gravi danni, a livello nazionale ed internazionale. Il Comitato economico e sociale europeo è tra coloro che si fanno carico dell’equità del processo.

Due o tre giorni di sfilate di capi di Stato, capi di Governo hanno aperto la conferenza sul clima Cop27. E’ giusto, sono i governi i primi a dover prendere e realizzare impegni che sono di dimensioni globali, neanche più regionali, per combattere il cambiamento climatico e far restare la terra un pianeta dove si possa vivere e prosperare.

Non sono però solo i governi i protagonisti di questo enorme lavoro, ed infatti sono centinaia gli eventi collaterali che si svolgono a Sharm el-Sheikh organizzati da associazioni di cittadini, di ambientalisti, di sindacati. Già, perché le scelte che saranno fatte dalla politica ‘di governo’ dovranno poi camminare con le gambe di cittadini, dei lavoratori, e dovranno funzionare perché i più giovani non siano penalizzati dai più vecchi.

E i più giovani non sono solo le persone che hanno meno anni e che dovranno vivere nel clima che gli si offrirà, ma sono anche quei Paesi del mondo che più di recente sono riusciti a disegnare un loro percorso di crescita economica, e che rischiano di vedersi le ali tarpate dai Paesi più ricchi, che hanno inquinato per decenni (ed hanno anche sottratto risorse un po’ ovunque nel mondo) ed ora vogliono smettere di inquinare, imponendo però delle scelte che sono basate sul rimedio ai loro errori che si vuole paghi anche chi, per decenni, non ha inquinato e solo ora ha bisogno di uno spazio per crescere. E’ un equilibrio difficile, ma va trovato.

E poi c’è la società civile, i giovani, coloro a cui queste politiche si indirizzano. E ben ha fatto una organizzazione ‘istituzionale’ della società civile europea, con il Comitato economico e sociale (Cese, o Eesc in inglese) a investire sulla Cop27. l focus scelto per il vertice in Egitto è ‘Together for implementation’ (insieme nell’implementazione), e dunque un gruppo ad hoc del Comitato economico e sociale parteciperà ai lavori con eventi ‘a latere’ e insisterà sul ruolo della società civile organizzata nell’imprimere maggiore forza all’azione dei governi. Con un occhio di riguardo alla sua componente giovanile: oltre a sei membri del Cese, farà parte della spedizione anche la rappresentante giovanile, Sophia Katharina Wiegand.

L’obiettivo è tenere alto il tema della giustizia sociale, di un’economia sostenibile che non lasci indietro nessuno, che coinvolga nelle scelte e che non cresi condizioni per le quali chi è meno ‘forte’ non riesca a tenere il passo, e, anche qui, debba pagare per le scelte dei più ricchi. E qui non parliamo solo di Paesi, ma proprio di persone.

Cese-Cnel: “Sulla questione energia misure ancora insufficienti dalla Ue”

Il tema energia è centrale, ad ogni latitudine e in ogni settore. Non solo per i passi in avanti che le istituzioni comunitarie potrebbero compiere, perché in un quadro come quello attuale vanno valutati anche (soprattutto) gli errori o, peggio ancora, il rischio di una pericolosa stasi. A lanciare l’allarme sono i protagonisti della Conferenza congiunta Cese-Cnel su ‘Geopolitica delle strategie energetiche nella regione euromediterranea’, che si è svolta il 17 ottobre, a Roma: “Nel 2023 c’è il rischio concreto di una pesante recessione come emerge dai primi segnali sull’inflazione altissima registrati nell’area euro“, è l’avviso. “Per uscire dalla crisi energetica serve un’azione congiunta Ue-Stati membri con un Piano simile al Next Generation adottato per contrastare la crisi dovuta all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia – fanno sapere i relatori –. Nessun Paese può agire in proprio mettendo in campo iniziative singole per il contrasto al caro energia e all’aumento delle materie prime. La guerra in Ucraina e la crisi del gas hanno posto in evidenza il tema della ricerca dell’autonomia energetica anche nell’area euromediterranea. Tra i Paesi europei e quelli africani della sponda mediterranea è necessario un reale partenariato improntato a criteri condivisi di sviluppo e sostenibilità. E il metodo è quello del dialogo sociale al fine di instaurare una politica comune per la lotta ai cambiamenti climatici, per la garanzia della sicurezza degli approvvigionamenti in armonia con gli obiettivi legati alla sostenibilità e per un benessere veramente comune”.

Le misure finora ipotizzate come la possibilità di utilizzare le risorse residue dei Fondi UE 2014-2020 non impegnate o la tassazione degli extraprofitti non sono sufficienti a fronteggiare la crisi energetica. L’Europa, dove i vertici politici formali e informali si susseguono senza esito, deve fare di più, deve decidere su una risposta unitaria e solidale di fronte alla crisi energetica, che appare peggiore della crisi pandemica”, ha detto il presidente Cnel, Tiziano Treu. “La guerra in Ucraina ha posto l’energia al centro delle relazioni euromediterranee. Dobbiamo intensificare la nostra cooperazione in tutta la regione e garantire una transizione di successo verso un sistema energetico sostenibile in grado di migliorare la sicurezza energetica e la nostra autonomia. Tali riforme possono essere realizzate solo con il pieno coinvolgimento della società civile organizzata. In questo settore, serve maggiore solidarietà all’interno dell’Ue e nei rapporti con i Paesi terzi”, ha dichiarato la presidente del Cese, Christa Schweng.

Molti settori economici sono in ginocchio e centinaia di imprese rischiano la chiusura con conseguente aumento della disoccupazione. Migliaia di famiglie sono in difficoltà. Come avvenuto durante la pandemia serve urgentemente un piano emergenziale e soprattutto un’Europa unita e solidale capace di impegnare il proprio bilancio per sostenere tutti i Paesi membri. E’ questo l’unico modo che consentirà di proseguire il percorso di sviluppo delle fonti rinnovabili per realizzare una autonomia energetica europea – ha il Consigliere Gian Paolo Gualaccini, Coordinatore della Commissione Cnel per le Politiche Europee e la Cooperazione internazionale -. Bisogna fissare un tetto al prezzo del gas, come sostenuto dai 15 Paesi membri dell’Ue, disaccoppiando il prezzo da quello dell’elettricità, sui mercati all’ingrosso e al dettaglio, e introdurre una reale borsa europea del gas sganciata dalle tendenze speculative di quella di Amsterdam”.

Per Grammenos Mastrojeni, vicesegretario generale Unione per il Mediterraneo responsabile per l’energia e il clima: “Nessuno dei Paesi della regione euromediterranea, neanche i più ricchi, ha risorse sufficienti per affrontare da solo una crisi di tale ritmo e ampiezza. Ma insieme bisogna farlo. Se lo capiamo, oltre ad affrontare efficacemente il cambiamento climatico, costruiremo quell’economia condivisa e più equa che potrà finalmente raggiungere anche una pace stabile in tutti gli angoli della nostra regione”.

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