ambulanza caldo

Scoperto il legame tra il cambiamento climatico e l’abuso di droga e alcol

L’aumento degli accessi in ospedale per disturbi legati all’alcol e alle sostanze stupefacenti è legato alle temperature elevate potrebbe essere ulteriormente influenzato dal cambiamento climatico. E’ quanto rivela una nuova ricerca condotta da scienziati della salute ambientale della Columbia University Mailman School of Public Health. Lo studio, pubblicato sulla rivista Communications Medicine, è probabilmente la prima indagine completa sull’associazione tra temperatura e accessi ospedalieri legate all’alcol e alle sostanze.

“Abbiamo visto che durante i periodi di temperature più elevate, c’è stato un corrispondente aumento delle visite ospedaliere legate all’uso di alcol e droga, il che porta anche l’attenzione su alcune potenziali conseguenze meno ovvie del cambiamento climatico”, dice il primo autore Robbie M. Parks, PhD, professore assistente di Scienze della salute ambientale presso la Columbia Public Health.
Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti si è registrata una tendenza all’aumento del consumo episodico di alcolici e dei decessi e delle malattie correlate all’alcol, in particolare negli adulti di mezza età e in quelli più anziani. Le morti per overdose sono aumentati di oltre cinque volte dalla fine del XX secolo.

I ricercatori hanno esaminato la relazione tra temperatura e visite ospedaliere legate all’alcol e ad altre droghe, tra cui cannabis, cocaina, oppioidi e sedativi nello Stato di New York. Hanno utilizzato i dati di 671.625 accessi per alcol e 721.469 visite per disturbi correlati alle sostanze in 20 anni e un registro completo delle temperature giornaliere e dell’umidità relativa per ricavare informazioni utilizzando un modello statistico.

È emerso che più alte sono le temperature, maggiore è il numero di visite ospedaliere per disturbi legati all’alcol. Questo potrebbe essere dovuto al maggior tempo trascorso all’aperto per svolgere attività più rischiose, al consumo di un maggior numero di sostanze in un clima esterno più gradevole, alla maggiore sudorazione che causa più disidratazione o alla guida in stato di ebbrezza.
Anche per altri disturbi da droghe, le temperature più elevate hanno comportato un maggior numero di visite ospedaliere, ma solo fino a un limite di 18,8°C (65,8°F). Questo limite di temperatura potrebbe verificarsi perché al di sopra di una certa temperatura le persone non sono più propense a uscire.

Ricerche future potrebbero esaminare il ruolo delle condizioni di salute esistenti esacerbate dall’uso di alcol o di sostanze in combinazione con l’aumento delle temperature. Gli autori fanno notare che il loro studio potrebbe sottostimare il legame tra l’aumento della temperatura e i disturbi da uso di sostanze, perché i disturbi più gravi potrebbero aver causato la morte prima che fosse possibile l’accesso in ospedale. In futuro, i ricercatori potrebbero cercare di collegare i casi di decesso con le registrazioni delle visite ospedaliere per creare un quadro più completo della storia medica dei pazienti.

Nel frattempo, gli scienziati e i funzionari della sanità pubblica “possono perseguire interventi, come campagne di sensibilizzazione sui rischi del riscaldamento delle temperature sull’uso di sostanze”. I risultati potrebbero informare le politiche “sull’assistenza proattiva delle comunità vulnerabili all’alcol e alle sostanze durante i periodi di temperature elevate”. Gli interventi di salute pubblica che si rivolgono ai disturbi legati all’alcol e alle sostanze nei periodi più caldi, ad esempio messaggi mirati sui rischi del loro consumo durante le temperature più miti, dovrebbero essere una priorità per la salute pubblica”, afferma l’autore senior Marianthi-Anna Kioumourtzoglou, ScD, professore associato di scienze della salute ambientale presso la Columbia Public Health.

Lo studio è stato sostenuto da sovvenzioni del National Institute of Environmental Health Sciences.

emissioni industriali

Clima, Aie: “Ancora possibile limitare riscaldamento a 1,5°, ma Paesi ricchi anticipino net zero”

Non tutto è perduto. Portare a zero le emissioni di gas serra del settore energetico mondiale e limitare il riscaldamento globale a 1,5 ̊C è ancora possibile “grazie alla crescita record delle principali tecnologie energetiche pulite, anche se è necessario aumentare rapidamente lo slancio in molte aree”. Lo annuncia l’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia, nella nuova edizione della storica Net Zero Roadmap. “Per mantenere vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 ̊C è necessario che il mondo si unisca rapidamente. La buona notizia è che sappiamo cosa dobbiamo fare e come farlo. La nostra tabella di marcia Net Zero 2023, basata sui dati e sulle analisi più recenti, mostra un percorso da seguire”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aie, Fatih Birol. “Ma abbiamo anche un messaggio molto chiaro: una forte cooperazione internazionale – ha aggiunto – è fondamentale per il successo. I governi devono separare il clima dalla geopolitica, data la portata della sfida che abbiamo di fronte”.

Per Birol, “il percorso verso 1,5 ̊C si è ristretto negli ultimi due anni, ma le tecnologie energetiche pulite lo stanno mantenendo aperto”. Con lo slancio internazionale che si sta sviluppando a favore di obiettivi globali chiave come la triplicazione della capacità rinnovabile e il raddoppio dell’efficienza energetica entro il 2030, che insieme porterebbero a un calo più marcato della domanda di combustibili fossili in questo decennio, “il vertice sul clima COP28 a Dubai è un’opportunità vitale per impegnarsi a rafforzare l’ambizione e l’attuazione negli anni rimanenti di questo decennio critico”.

Ma c’è un aspetto sul quale l’Aie punta moltissimo. La strada verso le emissioni nette zero per il settore energetico globale entro il 2050 ha bisogno di “un’azione più coraggiosa” che “tenga conto delle diverse situazioni nazionali” per promuovere una “transizione equa”. Per questo le economie avanzate “devono anticipare le date previste per lo zero netto” per dare più tempo alle economie emergenti e in via di sviluppo.

In particolare, le economie avanzate dovrebbero raggiungere “l’azzeramento delle emissioni entro il 2045 circa”, la Cina “intorno al 2050 e le altre economie emergenti e in via di sviluppo” solo “molto dopo il 2050”. “Ogni Paese – afferma l’Aie – seguirà il proprio percorso in base alle proprie risorse e circostanze. Tuttavia, tutti devono agire in modo molto più deciso di quanto non facciano oggi”.

Il percorso net zero “consente a tutti di accedere a forme moderne di energia entro il 2030, grazie a un investimento annuo di circa 45 miliardi di dollari – poco più dell’1% degli investimenti nel settore energetico”.

L’Agenzia punta sulla necessità di “mobilitare un aumento significativo degli investimenti, soprattutto nelle economie emergenti e in via di sviluppo”. Nel nuovo percorso zero, la spesa globale per l’energia pulita passa da 1,8 trilioni di dollari nel 2023 a 4,5 trilioni di dollari all’anno entro i primi anni 2030.

 

Il riscaldamento globale arriva davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo

Vogliono “costringere i governi a ridurre le emissioni di gas serra“: mercoledì sei giovani portoghesi porteranno 32 Paesi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), sperando di creare un corpus giurisprudenziale che rafforzi la lotta al cambiamento climatico. Di età compresa tra gli 11 e i 24 anni, i ricorrenti hanno vissuto in prima persona gli incendi che nel 2017 hanno bruciato decine di migliaia di ettari e causato più di 100 vittime nel loro Paese. È stato un disastro che ha aumentato la loro consapevolezza del riscaldamento globale e ha fatto nascere in loro il desiderio di chiedere responsabilità. “I governi europei non riescono a proteggerci“, afferma il quindicenne André Oliveira, uno dei sei richiedenti. “Siamo in prima linea nel cambiamento climatico in Europa: anche a febbraio ci possono essere 30 gradi. E le ondate di calore sono sempre più gravi“.

Lui e i suoi compagni accusano i 27 Stati dell’Unione Europea, così come la Russia, la Turchia, la Svizzera, la Norvegia e il Regno Unito, di non limitare a sufficienza le loro emissioni di gas serra, ritenendo che ciò alimenti il riscaldamento globale e influisca sulle loro condizioni di vita e di salute. Dal punto di vista legale, i sei giovani portoghesi lamentano violazioni del “diritto alla vita” e del “diritto al rispetto della vita privata“, sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare alla luce degli impegni internazionali stabiliti nell’accordo sul clima di Parigi del 2015.

Il loro avvocato, Gerry Liston, membro dell’ONG britannica Global Legal Action Network (Glan), spera in una sentenza della CEDU “che agisca come un trattato vincolante imposto dalla Corte” agli Stati e che imponga loro “di accelerare gli sforzi per mitigare i cambiamenti climatici“. “Da un punto di vista giuridico, sarebbe una svolta“, afferma, in un momento in cui, in Europa come altrove, i tribunali sono chiamati sempre più spesso ad affrontare l’inazione climatica dei governi o le politiche inquinanti delle aziende.

A Strasburgo, dove ha sede la CEDU, il caso è preso sul serio: classificato come “prioritario“, sarà discusso anche davanti all’organo più solenne della Corte, la Grande Camera, composta da 17 giudici. “Si tratta di un caso unico“, ha dichiarato all’AFP una fonte della Corte, soprattutto in termini di “numero di Stati” coinvolti e di questioni affrontate. Negli ultimi trent’anni, la CEDU ha prodotto numerose decisioni relative all’ambiente, ad esempio sulla determinazione della responsabilità in caso di disastri naturali (inondazioni, terremoti, ecc.) o sulle conseguenze della realizzazione di progetti industriali (acciaierie, centrali nucleari, ecc.), ma questa è la prima volta che si occupa specificamente del riscaldamento globale. Ma prima di pronunciarsi sul merito, la Corte esaminerà innanzitutto la ricevibilità del ricorso, che implica il rispetto di criteri rigorosi su cui molti casi si sono arenati in passato, anche in materia ambientale. Nel caso presentato dai sei portoghesi, la questione sarà probabilmente molto dibattuta. La CEDU di solito pretende che i richiedenti abbiano esaurito i rimedi disponibili presso i tribunali nazionali prima di rivolgersi ad essa. In questo caso, tuttavia, i sei ricorrenti si sono appellati direttamente all’istituzione, sostenendo che condurre procedimenti separati in ciascuno dei 32 Stati interessati rappresenterebbe un “onere eccessivo e sproporzionato.

È un Davide contro Golia“, afferma Gearoid O Cuinn, direttore del Glan. “Si tratta di un caso senza precedenti in termini di portata e conseguenze“. Nel loro approccio, i ricorrenti hanno anche attirato l’attenzione del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, che ha inviato osservazioni alla Corte. In particolare, la commissaria ritiene che i giudici europei debbano “fornire una protezione concreta alle persone che subiscono le conseguenze del cambiamento climatico“. “Veniamo a Strasburgo con molte speranze“, afferma André Oliveira. “È ancora possibile evitare che la crisi climatica vada fuori controllo, ma il tempo sta per scadere”. La decisione della Corte non sarà annunciata prima di alcuni mesi.

Crisi climatica ‘minaccia esistenziale’: Biden all’Onu esorta all’impegno globale

E’ stata l’estate più torrida della storia. E’ stata l’estate degli incendi boschivi e dei disastri naturali, tra temperature più alte di sempre, uragani e inondazioni record. E’ stata l’estate in cui gli effetti della crisi climatica si sono resi evidenti a tutti. Una vera “minaccia esistenziale” per tutta l’umanità. A dirlo è Joe Biden, presidente degli Stati Uniti (uno dei maggiori Paesi inquinatori insieme alla Cina), dal palco della 78esima Assemblea generale delle Nazioni Uniti, che si è aperta ieri a New York. “Fin dal primo giorno della mia amministrazione, gli Usa hanno trattato la crisi climatica come la minaccia esistenziale che rappresenta, non solo per noi, ma per tutta l’umanità”, ha detto Biden citando ondate di caldo da record negli Stati Uniti e in Cina, gli incendi in Nord America ed Europa meridionale, la siccità nel Corno d’Africa e la tragica alluvione in Libia. Nel loro insieme, “queste istantanee raccontano una storia urgente di ciò che ci aspetta se non riusciamo a ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e iniziamo a rendere il nostro mondo a prova di clima”. Per questo, per Biden, è necessario aderire “tutti insieme” allo stesso impegno per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione.

Nei giorni scorsi, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva avvertito più volte: “Siamo entrati nell’era dell’ebollizione globale” e “l’umanità è sulla sedia elettrica”. Per mercoledì 20 settembre ha convocato, sempre a New York, un summit sull’ambizione climatica, a margine dell’Assemblea Onu. Non si sa ancora chi vi parteciperà: Guterres, infatti, ha posto l’inedita condizione che solo i politici che porteranno soluzioni efficaci e concrete saranno ammessi sul palco. Per le Nazioni Unite questo vertice ‘parallelo’ rappresenta una “pietra miliare politica” per dimostrare la volontà collettiva di accelerare gli sforzi per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. In un rapporto sul clima sempre dell’Onu, pubblicato questo mese, gli esperti internazionali prevedono che le emissioni di gas serra dovrebbero raggiungere il picco nel 2025 – seguito da un netto calo in seguito – se l’umanità si ponesse la finalità di limitare il riscaldamento globale, in conformità con gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Questo fa seguito all’appello lanciato da Guterres ai Paesi – in particolare ai membri del G20 – affinché cooperino per accelerare l’azione per il clima. La lista delle cose da fare include la discussione su come passare dai combustibili fossili all’energia pulita, tagli rapidi alle emissioni e l’impegno ad agire su base scientifica. I tre pilastri fondamentali del vertice sono l’ambizione, la credibilità e l’attuazione. “Dobbiamo essere determinati ad affrontare la minaccia più immediata per il nostro futuro: il nostro pianeta surriscaldato. Le azioni stanno precipitando, il caos climatico sta battendo nuovi record, ma non possiamo permetterci lo stesso vecchio disco rotto di trovare capri espiatori e aspettare che altri si muovano per primi”, ha esordito Guterres in apertura dell’Assemblea Onu. “I paesi del G20 sono responsabili dell’80% delle emissioni di gas serra – ha aggiunto – Devono guidare“.

Nel suo discorso di apertura, Guterres ha dipinto un quadro molto cupo di un “mondo sottosopra”, dove le tensioni geopolitiche “stanno peggiorando” e il riscaldamento globale “sta minando più direttamente il nostro futuro”. Simbolo di questa “serie” di crisi, l’alluvione di Derna in Libia,triste istantanea dello stato del nostro mondo, trascinato dal torrente di disuguaglianze e ingiustizie, e paralizzato di fronte alle sfide da raccogliere“. Le migliaia di persone che hanno perso la vita “sono state vittime di diversi flagelli. Vittime di anni di conflitto. Vittime del caos climatico. Vittime di leader, che, lì e altrove, non sono riusciti a trovare la via della pace”. Tra queste, emblematica è la guerra in Ucraina. Il presidente americano Biden ha invitato tutti i paesi a “opporsi all’aggressione russa”, perché “noi e Kiev vogliamo la pace, è solo la Russia a sbarrare il cammino”. Mosca “crede che il mondo si stancherà e lascerà che brutalizzi l’Ucraina senza conseguenze” ma “se permettiamo che l’Ucraina venga smembrata, l’indipendenza delle nazioni sarà ancora garantita? La risposta è no“, ha insistito tra gli applausi del pubblico.

Un anno fa il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj era stato eccezionalmente autorizzato a parlare tramite videomessaggio. Ieri era presente di persona, oggi parteciperà a una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza mentre domani sarà a Washington per essere accolto alla Casa Bianca, giovedì.

Prima volta all’Assemblea generale dell’Onu anche per la premier italiana Giorgia Meloni che ieri ha avuto un breve scambio con il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, e con la presidente del Parlamento Ue Roberta Metsola. L’intervento della presidente del Consiglio è in programma oggi alle 19 ora locale, l’una di notte in Italia. 

L’impronta di carbonio si dimezza con lo smart working, ma conta anche lo stile di vita

L’impronta di carbonio di un lavoratore in smart working può essere inferiore del 54% rispetto a chi, invece, lavora in sede, ma gli stili di vita e le modalità di lavoro giocano un ruolo essenziale nel determinare i benefici ambientali di questa forma di occupazione. Ad analizzare la questione – divenuta di grande attualità con la pandemia – è uno studio della Cornell University e di Microsoft, pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca rivela anche che i cosiddetti lavoratori ‘ibridi’ – cioè chi sta a casa da due a quattro giorni alla settimana – possono ridurre la loro impronta di carbonio dall’11% al 29%, mentre lo smart working un solo giorno alla settimana dà risultati più trascurabili, riducendo l’impronta di carbonio solo del 2%.

“Il lavoro a distanza non è a zero emissioni di carbonio e i benefici di quello ibrido non sono perfettamente lineari”, spiega l’autore dello studio, Fengqi You, professore di ingegneria dei sistemi energetici alla Cornell. “Tutti sanno che senza pendolarismo si risparmia sull’energia dei trasporti – dice – ma ci sono sempre gli effetti dello stile di vita e molti altri fattori”.

Secondo la ricerca, i principali elementi che contribuiscono all’impronta di carbonio dei lavoratori in sede e di quelli ibridi sono gli spostamenti e l’uso dell’energia in ufficio. Questo non sorprende i ricercatori che quantificano l’impatto dello smart working sull’ambiente, ma Cornell e Microsoft hanno utilizzato i dati di un sondaggio e la modellazione per incorporare fattori a volte trascurati nel calcolo dell’impronta di carbonio, tra cui l’uso di energia residenziale, la distanza e il modo di trasporto, l’uso di dispositivi di comunicazione, il numero di membri della famiglia e la configurazione dell’ufficio, come la condivisione dei posti e le dimensioni dell’edificio.

Molte le scoperte fatte dagli autori. Intanto, gli spostamenti non pendolari, come quelli per le attività sociali e ricreative, diventano più significativi con l’aumentare del numero di giorni di lavoro a distanza. Inoltre, condividere i posti a sedere in presenza può ridurre l’impronta di carbonio del 28%. E, ancora, i lavoratori ibridi tendono a spostarsi più lontano rispetto ai lavoratori in sede a causa delle differenze nelle scelte abitative. Gli effetti del lavoro remoto e ibrido sulle tecnologie di comunicazione, come l’uso di computer, telefono e internet, invece, hanno un impatto trascurabile sull’impronta di carbonio complessiva.

“Il lavoro remoto e ibrido mostra un grande potenziale di riduzione dell’impronta di carbonio, ma quali sono i comportamenti che le aziende e altri responsabili politici dovrebbero incoraggiare per massimizzare i benefici?”, dice Longqi Yang, principal applied research manager di Microsoft e autore dello studio. “I risultati suggeriscono che le organizzazioni dovrebbero dare priorità ai miglioramenti dello stile di vita e del luogo di lavoro”.

Secondo Yang, dallo studio emerge che le aziende e i responsabili politici dovrebbero concentrarsi anche sull‘incentivazione del trasporto pubblico rispetto all’auto, sull’eliminazione degli uffici per i lavoratori a distanza e sul miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici adibiti a ufficio. “A livello globale, ogni persona, ogni Paese e ogni settore ha questo tipo di opportunità con il lavoro a distanza. Come potrebbero i benefici combinati cambiare il mondo intero? Questo è un aspetto che vogliamo davvero approfondire”, dice Yanqiu Tao, dottorando e primo autore dello studio.

Lo studio si basa su un lavoro sostenuto dalla National Science Foundation e si è avvalso di dati provenienti da Microsoft, dall’American Time Use Survey, dal National Household Travel Survey e dal Residential Energy Consumption Survey.

Le luci di New York sotto attacco da parte dei gruppi ambientalisti

Photo credit: AFP

Ogni anno, la Settimana del Clima di New York riunisce attivisti, politici e uomini d’affari per centinaia di eventi volti a riflettere su come affrontare la crisi ambientale. Ma le luci abbaglianti che rendono la “città che non dorme mai” ciò che è sono da tempo fonte di frustrazione per gli attivisti, che notano una contraddizione con lo spirito di sobrietà energetica incarnato da questo incontro. “Credo che ci sia ancora molta strada da fare prima di vedere una città illuminata per quello che è, ovvero un grossolano spreco di energia e un impatto diretto sulla natura“, ha dichiarato all’AFP Ruskin Hartley, direttore dell’International Dark-Sky Association (IDA), che si batte per mantenere i cieli bui di notte.

Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, l’illuminazione esterna negli Stati Uniti consuma abbastanza energia da alimentare 35 milioni di case per un anno. Le stime per città sono difficili da ottenere, ma è chiaro che New York è una di quelle con i risultati peggiori negli Stati Uniti, un Paese che secondo i ricercatori spreca molta più energia dell’Europa.
Mentre i partecipanti alla Settimana del clima di New York discutono di una serie di argomenti ambientali, dalla riduzione dell’impronta di carbonio degli alimenti al ruolo dell’arte nell’attivismo, dovrebbe essere affrontata anche la questione dell’inquinamento luminoso, sostiene Hartley. “Credo che le persone cerchino modi per avere un impatto rapido, data la portata della crisi che stiamo affrontando. E una delle cose più semplici che possiamo fare è guardarci intorno e vedere dove possiamo ridurre i rifiuti“, aggiunge.

Secondo le stime dell’IDA, l’illuminazione esterna visibile nello spazio è responsabile dell’1% delle emissioni annuali di gas serra. E non si tratta solo dello spreco di energia. “New York si trova lungo una rotta migratoria utilizzata da milioni di uccelli ogni anno“, ha spiegato all’AFP Dustin Partridge, responsabile di New York City Audubon, un’associazione che si batte per la protezione degli uccelli. La luce artificiale attira gli uccelli in città. Durante il giorno, si schiantano contro gli edifici perché vedono i riflessi della vegetazione nelle finestre. Di notte, invece, volano direttamente contro le finestre illuminate. “A New York, circa 250.000 uccelli muoiono ogni anno a causa di collisioni“, afferma Partridge. E la Settimana del clima cade proprio nel mezzo della migrazione autunnale. I semi che diffondono sono vitali per la salute degli ecosistemi che trattengono il carbonio dal Canada, dove iniziano il loro viaggio, fino alle varie destinazioni in Sud America.

Un’altra vittima dell’inquinamento luminoso è l’osservazione delle stelle. È proprio questo il motivo per cui è stata creata l’IDA. “La luce che ha viaggiato per milioni di anni luce viene assorbita e nascosta nell’ultimo nanosecondo. Che perdita per la società“, lamenta Hartley. Altre ricerche hanno evidenziato potenziali impatti sulla salute umana, come l’aumento dei casi di cancro, che potrebbe essere collegato all’alterazione del ritmo circadiano. E poiché la luce attira gli insetti, un documento del 2020 ha trovato un legame tra la luce artificiale e l’aumento della trasmissione del virus del Nilo occidentale, trasmesso dalle zanzare.

Nel 2021 New York ha approvato una legge che impone a tutti gli edifici di proprietà della città di spegnere le luci non essenziali dalle 23 alle 6 del mattino durante le migrazioni primaverili e autunnali. Ma questi rappresentano solo una piccola percentuale di tutti gli edifici. Una proposta di legge più recente, presentata a maggio, che estenderebbe le stesse regole agli edifici privati e industriali, è ancora all’esame dell’assemblea cittadina. I critici sottolineano che l’iconico skyline notturno di New York è essenziale per l’identità della città. Gli attivisti rispondono citando le città europee che hanno iniziato a spegnere le luci quando la maggior parte della popolazione dorme. Come Parigi, la ‘Città della Luce’.

In migliaia manifestano per il clima a New York alla vigilia dell’Assemblea Onu

Decine di migliaia di persone sono scese in strada a New York domenica, chiedendo una maggiore azione sul cambiamento climatico, due giorni prima dell’apertura ufficiale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I dimostranti di circa 700 organizzazioni e gruppi di attivisti si sono riuniti a New York, reggendo cartelli con le scritte “Biden, metti fine ai combustibili fossili“, “I combustibili fossili ci stanno uccidendo” e “Non ho votato per gli incendi e le inondazioni“. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden fa parte della lista dei leader mondiali che parteciperanno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a partire da oggi, quando si aprirà ufficialmente martedì. “Siamo qui per chiedere all’amministrazione di dichiarare l’emergenza climatica“, ha dichiarato Analilia Mejia, direttrice del gruppo di attivisti Center for Popular Democracy.

In un rapporto delle Nazioni Unite sul clima pubblicato questo mese, gli esperti internazionali hanno affermato che le emissioni di gas a effetto serra dovrebbero raggiungere il picco nel 2025 – seguito poi da un forte calo – se l’umanità si pone l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale, in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Il Trattato di Parigi, ratificato nel 2015, ha incoraggiato un’ampia gamma di azioni a favore del clima, ma “molto resta da fare su tutti i fronti“, spiega il rapporto, che servirà da base per i lavori della COP28 che si terrà a Dubai alla fine dell’anno. Un’altra attivista, Nalleli Cobo, 22 anni, ha invitato i leader politici a “venire a casa sua” nello Stato occidentale della California e “passare la notte accanto a un pozzo di petrolio e gas“. L’attivista, che ha lavorato con la svedese Greta Thunberg per le campagne sul clima, incolpa l'”aria tossica” a cui era esposta in casa per il cancro alle ovaie che ha contratto all’età di 19 anni. “Le nostre vite sono in gioco“, ha dichiarato.

Venerdì scorso, la California ha avviato una causa contro cinque giganti del petrolio per il loro ruolo nel riscaldamento globale, accusandoli di aver causato danni per miliardi di dollari e di aver ingannato il pubblico sui rischi associati ai combustibili fossili. Durante l’Assemblea generale, mercoledì si terrà un vertice ‘Climate Ambition’ su iniziativa del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. “La storia ricorderà la loro azione o inazione“, ha dichiarato Mejia. “E se saremo fortunati, gli esseri umani saranno lì a ricordare ciò che (i leader mondiali) hanno fatto in questo vertice“.

fiume Tevere

Vita acquatica a rischio: fiumi sempre più caldi e poveri di ossigeno

I fiumi si stanno riscaldando e perdono ossigeno più velocemente degli oceani e nei prossimi 70 anni i sistemi fluviali, soprattutto nel Sud America, potrebbero attraversare periodi con livelli di ossigeno così bassi da “indurre la morte acuta” di alcune specie di pesci e minacciare la diversità acquatica in generale. E’ quanto emerge da un secondo uno studio condotto dalla Penn State University e pubblicato sulla rivista Nature Climate Change. La ricerca mostra che su circa 800 fiumi, il riscaldamento si è verificato nell’87% dei casi e la perdita di ossigeno nel 70%.

Si tratta del primo rapporto che esamina in modo completo il cambiamento di temperatura e i tassi di deossigenazione nei fiumi “e ciò che abbiamo scoperto – spiega Li Li, professore di Ingegneria civile e ambientale e tra gli autori dello studio – ha implicazioni significative per la qualità dell’acqua e la salute degli ecosistemi in tutto il mondo“.

Il team di ricerca internazionale ha utilizzato approcci di intelligenza artificiale e deep learning per ricostruire dati storicamente scarsi sulla qualità dell’acqua di quasi 800 fiumi negli Stati Uniti e nell’Europa centrale. Hanno scoperto che i corsi d’acqua si stanno riscaldando e deossigenando più velocemente degli oceani.

La temperatura dell’acqua fluviale e i livelli di ossigeno disciolto sono misure essenziali della qualità dell’acqua e della salute dell’ecosistema“, dice Wei Zhi, professore assistente di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale della Penn State e autore principale dello studio. Ma non solo. La deossigenazione e l’alta temperatura incidono anche sull’emissione di gas serra e sul rilascio di metalli tossici.

Lo studio ha rivelato che i fiumi urbani hanno mostrato il riscaldamento più rapido, mentre quelli agricoli hanno registrato il riscaldamento più lento, ma la deossigenazione più rapida. Utilizzando il modello per prevedere i tassi futuri, è emerso che in tutti i fiumi studiati i tassi di deossigenazione futuri saranno tra 1,6 e 2,5 volte superiori rispetto alla media storica.
Il rischio è che entro i prossimi 70 anni, alcune specie di pesci potrebbero estinguersi completamente.

Deforestazione

Ripristino natura in Africa? Mancano i semi per piantare nuovi alberi

Il vertice sul clima in Africa, che si è chiuso la scorsa settimana, ha messo sul piatto gli impegni per ripristinare 24 milioni di ettari di terreno degradato nel continente, attraverso la piantumazione di alberi, considerato obiettivo fondamentale a livello mondiale. C’è, però, un problema e non di poco conto: mancano i semi. Burkina Faso, Camerun, Ghana e Kenya hanno in programma di ripristinare un’enorme superficie entro il 2030, ma mentre diversi punti del piano sono pronti, resta da risolvere la questione più urgente, cioè come reperire e piantare abbastanza materiale da specie arboree autoctone come semi, piantine e talee.

Un nuovo studio ha rilevato che, nonostante la volontà politica a livello nazionale e l’importante sostegno internazionale per il ripristino della natura, i sistemi di semina – le relazioni politiche, ambientali, economiche e culturali a più livelli che fanno fiorire le specie arboree autoctone – non sono ancora del tutto pronti. In base ai risultati pubblicati su Diversity, anche molti dei settori pubblici e privati coinvolti nel ripristino non sono pienamente consapevoli delle risorse disponibili.

I quattro Paesi stanno facendo progressi sostanziali verso i loro obiettivi di riforestazione, ma rischiano di non raggiungere gli obiettivi prefissati”, spiega Chris Kettle, autore principale dello studio e ricercatore della CGIAR Initiative on Nature-Positive Solutions. “Tuttavia, questo problema può essere risolto. I nostri risultati hanno dimostrato che la domanda di materiale di specie arboree autoctone è forte, ma l’offerta è carente”, dice.

Non si tratta di una mancanza di foreste intatte da cui attingere materiale da piantare, perché è rimasta una diversità sufficiente per procurarsi in modo sostenibile almeno 100 specie arboree necessarie per un ripristino efficace. I problemi riguardano diversi aspetti. Intanto, le comunità che vivono più vicine a queste fonti di semi sono potenzialmente attori chiave, anche perché meglio di chiunque altro conoscono gli alberi autoctoni, ma il loro coinvolgimento non è strutturale, anche se potrebbe offrire posti di lavoro nelle aree rurali e “incentivi per la conservazione della biodiversità”.

Il secondo limite riguarda le ‘consuetudini’ in questo campo. Spesso i progetti di ripristino si basano su alberi non autoctoni, come il teak e il pino, coltivati per i loro prodotti legnosi o l’eucalipto, utile per la produzione di olio essenziale. In genere, però, questi alberi non favoriscono la flora e la fauna locali, e spesso comportano un’elevata richiesta di risorse idriche. Inoltre, non aiutano a ripristinare i paesaggi degradati e, anzi, rischiano di mettere in crisi gli ecosistemi. Cambiare queste pratiche, spiegano i ricercatori, è necessario per recuperare davvero gli spazi aperti.

“Lo studio evidenzia l’urgente necessità di investimenti nel settore delle sementi arboree, sia pubblici che privati, se si vuole che i sistemi di sementi soddisfino le richieste poste dagli impegni di ripristino”, chiarisce Fiona L. Giacomini, del Politecnico di Zurigo.

L’ultimo volo del bombo: a rischio estinzione 75% specie nei prossimi 40 anni

Oltre il 75% delle specie europee di bombi potrebbe essere minacciato nei prossimi 40-60 anni, a causa del degrado degli habitat e delle alterazioni del clima dovute all’attività umana. E’ quanto emerge da uno studio della Free University of Brussels, in Belgio, condotto da Guillaume Ghisbain e pubblicato questa settimana su Nature. I risultati sottolineano l’importanza delle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici per proteggere i bombi.

Circa il 90% di tutte le piante selvatiche e la maggior parte delle piante coltivate beneficiano dell’impollinazione animale. Il bombo (Bombus) è un genere di api considerato particolarmente importante per l’impollinazione delle colture nelle regioni fredde e temperate dell’emisfero settentrionale. Le trasformazioni degli habitat naturali causate dall’uomo e l’aumento della temperatura sono i fattori chiave del collasso della fauna selvatica; la comprensione della traiettoria delle popolazioni di insetti è importante per elaborare iniziative di conservazione.

Guillaume Ghisbain e colleghi hanno quantificato l’idoneità ecologica passata, presente e futura dell’Europa per i bombi. I dati osservativi coprono i periodi 1901-1970 (passato) e 2000-2014 (“oggi”) e le proiezioni sono state fatte fino al 2080. Secondo le previsioni, circa il 38-76% delle specie europee di bombi attualmente considerate non minacciate vedrà ridursi il proprio territorio ecologicamente idoneo di almeno il 30% entro il 2061-2080. In particolare, le specie degli ambienti artici e alpini potrebbero essere sull’orlo dell’estinzione in Europa, con una perdita prevista di almeno il 90% del loro territorio nello stesso periodo. Gli autori riferiscono che alcune parti della Scandinavia possono potenzialmente diventare rifugi per le specie sfollate o minacciate, anche se non è chiaro se queste regioni possano essere influenzate dai cambiamenti indotti dalle attività umane.

Gli autori sottolineano che “sono necessari ulteriori lavori per comprendere gli effetti delle variazioni su scala più fine del clima e dei cambiamenti dell’habitat“. Tuttavia, i risultati attuali evidenziano “la necessità di misure e politiche di conservazione che attenuino l’impatto umano su ecosistemi importanti“.