Assemblea Federacciai, Gozzi: “Obiettivo acciaio green al 2030 ma Ue volti pagina”

“Ci appelliamo al Governo italiano, al neo Commissario europeo Raffaele Fitto, a cui facciamo i più fervidi auguri di buon lavoro, alle grandi famiglie politiche: popolari, socialisti, liberali e conservatori affinché si faccia il bilancio di questi anni, si intervenga sulle politiche sbagliate nei tempi e nei modi (come è stato nel caso della decarbonizzazione) o assenti del tutto (come è stato nel caso delle politiche industriali e dell’energia) per voltare pagina mettendo l’industria al centro. Perché senza industria, anche quella tradizionale e di base, non c’è Europa”. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, lancia l’allarme per la siderurgia italiana, colpita da una serie di problemi, in primis le norme green europee che rischiano non solo di mortificare il settore continentale, in particolare quello italiano, ma soprattutto l’intera industria a vantaggio di aree del mondo che le regole ambientali nemmeno le rispettano.

L’intervento di Gozzi durante l’assemblea di Federacciai a Vicenza ha lo sguardo che va oltre il 2030, perché in realtà, nel 2023, l’industria siderurgica italiana ha prodotto 21,1 milioni di tonnellate di acciaio, segnando una riduzione del 2,5% rispetto al 2022, ma mantenendo un fatturato significativo, stimato tra i 50 e i 60 miliardi di euro all’anno. La produzione di laminati a caldo ha registrato una flessione dell’1,5%, mentre i laminati lunghi, principalmente utilizzati nell’edilizia, hanno subito una contrazione del 2,6%. Al contrario, i laminati piani, impiegati nei settori automotive, meccanico ed elettrodomestico, hanno mantenuto una produzione stabile.

Il problema principale è quello dell’energia. Tuttavia, le imprese italiane continuano a fronteggiare sfide significative legate ai costi energetici. Nel 2023, le aziende energivore tedesche hanno pagato in media 65 euro/MWh per l’energia elettrica, mentre in Italia i costi superavano i 110 euro/MWh. Questa disparità genera un notevole svantaggio competitivo per il made in Italy a causa del mix energetico nazionale e della mancanza di un mercato elettrico interconnesso a livello europeo. Gozzi ha sottolineato come il sistema del “marginal price” unifichi il costo dell’energia da fonti rinnovabili e idrocarburi, aggravando ulteriormente il problema. Federacciai ha proposto un approccio unificato per l’utilizzo dei proventi d’asta ETS, ovvero le quote di carbonio compensative, evidenziando come paesi come Germania e Francia abbiano investito molto di più dell’Italia nella decarbonizzazione industriale. Un prezzo unico europeo per i settori ad alta intensità energetica – è l’auspicio di Federacciai – potrebbe aiutare a ridurre queste differenze.

Gozzi chiede una svolta normativa perché, se si parla di sostenibilità, l’elettrosiderurgia italiana è già prossima alla neutralità carbonica per quanto riguarda le emissioni dirette. Tuttavia, restano alcune problematiche legate alle piccole emissioni residue dai forni elettrici e dall’uso di gas naturale nei forni di riscaldo dei laminatoi. Per affrontare queste sfide, il settore sta esplorando soluzioni come il biometano e l’idrogeno. Il presidente di Federacciai evidenzia che l’energia elettrica acquistata dalla rete riflette il carbon footprint della produzione nazionale e solo un terzo proviene da fonti rinnovabili. Per raggiungere l’obiettivo del “net zero” o addirittura diventare “carbon negative”, sarà necessario un ulteriore terzo di energia elettrica a zero emissioni di carbonio. Molte aziende hanno già investito in impianti per la produzione di rinnovabili e stanno considerando di partecipare, sia singolarmente che in consorzio, alle gare per il rinnovo delle concessioni idroelettriche, auspicando che vengano bandite al più presto in conformità alle direttive europee.

Antonio Gozzi: “Modello Genova non è cultura malaffare ma strumento crescita”

Leggo, da parte di vari esponenti del variegato mondo della sinistra genovese e ligure, un attacco frontale al cosiddetto “modello Genova”. Taluni, anche esponenti del Pd, arrivano a dire che “il modello Genova è la moderna espressione della cultura del malaffare”.

Il caldo agostano e gli incipienti furori della prossima campagna elettorale per la Regione non giustificano espressioni di questo tipo, e testimoniano ancora una volta come la sinistra ligure, o almeno buona parte di essa, abbia una vocazione minoritaria, che negli ultimi dieci anni le ha fatto perdere tutto quello che c’era da perdere, ed una postura molto distante dalla cultura di governo (studiare bene Starmer in UK, please).

Continuo a insistere da mesi che il problema italiano, europeo, e per restare alle nostre latitudini anche ligure, è il problema della crescita. Viviamo una fase del mondo in cui o gli europei si svegliano, capiscono il loro gravissimo declino demografico, economico e industriale e reagiscono rimboccandosi le maniche e abbandonando ideologismi astratti, oppure la partita è persa. La crescita e tutti gli strumenti che la supportano devono diventare un’ossessione. C’è una parte della sinistra europea che questo lo capisce e un’altra no.

Io credo che il “modello Genova” sia uno di questi fondamentali strumenti della crescita e ora vi spiego perché.

Innanzitutto, che cosa è e che cosa si intende quando si parla del “modello Genova”?

Tecnicamente con “modello Genova” si intende quel complesso di norme che dopo il crollo del ponte Morandi ha consentito uno snellimento significativo delle procedure burocratiche che regolano gli appalti pubblici e le costruzioni, e ha permesso, nel caso specifico, il procedere rapidamente alla ricostruzione del ponte (ponte San Giorgio) sotto la guida di un Commissario, previsto dalla legge ed individuato nel Sindaco di Genova Marco Bucci.

È stata prima di tutto un’esperienza straordinaria di riscatto e di orgoglio, con la quale Genova è stata capace di reagire all’immane tragedia in tempi rapidi con efficienza, senza che vi sia stato il minimo sentore di nulla meno che regolare e trasparente. La ricostruzione del ponte in tempi record, che ha visto protagonisti due colossi industriali come Fincantieri e Webuild, sotto la regia commissariale, ha dimostrato che si può fare presto, bene e nella legalità, ed ha rappresentato un’iniezione di fiducia positiva per l’ambiente economico di una Regione per troppo tempo dominata da una cultura conservatrice, a tratti immobilista, sempre diffidente verso la crescita e lo sviluppo.

La Liguria ha un estremo ed urgente bisogno di grandi opere infrastrutturali per uscire dal suo isolamento che insieme ad altri fattori, primo fra tutti quello demografico, ne ha provocato il lento declino degli ultimi decenni.

Anche in Liguria ci sono forze politiche che vedono la crescita come una sciagura e le grandi opere come strumenti per alimentare il malaffare e la mafia, e che sono pregiudizialmente diffidenti verso le imprese, i loro progetti, l’iniziativa privata.

L’essere stati capaci di reagire a questa cultura del declino e della decrescita (infelice) con una narrazione diversa, positiva, pragmatica è stato il grande merito dell’amministrazione di Bucci, che pure con i suoi limiti ha cercato e spesso è riuscita ad invertire la rotta proprio sulle questioni strutturali.

Di Bucci abbiamo apprezzato e apprezziamo in particolare il suo ottimismo e la sua capacità di indicare una nuova prospettiva con una cultura civica del fare che è anche il portato della sua precedente esperienza manageriale. Far succedere le cose, trasformare le idee in progetti e i progetti in realizzazioni: sono queste le doti in base alle quali si dovrebbe giudicare un buon amministratore pubblico.

Molti sono i cantieri aperti e/o le realizzazioni dell’amministrazione Bucci: oltre la ricostruzione del ponte, il Waterfront di levante, lo skymetro della Val Bisagno, la revisione totale della mobilità urbana con la forte spinta sui mezzi pubblici e sull’elettrico, la diga portuale per aprire il mercato alle grandissime navi portacontenitori, il tunnel subportuale ecc.

Lo spirito positivo e l’efficienza di realizzazione hanno fatto sì che il governo Draghi prima e quello di Meloni poi abbiano messo a disposizione una mole di risorse mai viste prima (si parla di complessivi 8 miliardi e più di euro) da investire principalmente in infrastrutture e collegamenti di cui, come detto, Genova e la Liguria hanno un enorme bisogno. È un’occasione irripetibile che non si può perdere.

I contestatori del modello Genova dicono che questo modello non si può applicare in ogni caso e a tutto. Il modello emergenziale utilizzato per la ricostruzione del ponte, secondo loro, non si può replicare per la diga, lo sky metro e quant’altro e bisogna al più presto rientrare nella normalità. Dare poteri così importanti ai commissari pone gravi rischi in termini di legalità, ed anzi, secondo il pensiero di questi cultori del declino, fa parte della cultura del malaffare.

I sostenitori di questa tesi non si rendono conto dell’insofferenza del mondo dell’economia, ma anche dei semplici cittadini, rispetto alle lungaggini burocratiche, alle scelte che non si riescono mai a fare: quanti anni ci sono voluti per definire il tracciato della Gronda che oggi la sinistra vuole rimettere in discussione? La pesantezza normativa e la burocrazia “guardiana” che la gestisce costituiscono uno dei peggiori ostacoli allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese e di una regione come la nostra in cui la situazione emergenziale non si è conclusa con il Ponte San Giorgio.

Sono la complicazione della norma e l’elefantiasi burocratica che spesso favoriscono la corruzione e il malaffare, non i commissari che invece si assumono le responsabilità delle procedure e dello stato di avanzamento dei lavori e ci mettono la faccia come ha fatto e fa Bucci.

Il modello Genova è stato ed è un modo virtuoso di sintonizzare i tempi di realizzazione delle opere pubbliche con la velocità a cui corre il mondo di oggi. Altro che malaffare: viva il “modello Genova”!

Gozzi: “Italia deve pretendere da Ue cambio indirizzo su politiche industriali”

Gli anni da cui veniamo, per quanto riguarda le scelte europee sull’industria, sono stati molto difficili. Un’Europa tutta concentrata sulla finanza, sulla disciplina fiscale, sul cambiamento climatico è sembrata non avere alcuna attenzione né passione per l’industria manifatturiera e in particolare per quella di base”. Lo diceva il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, nella relazione all’Assemblea annuale di Federacciai, tenutasi a Milano il 10 maggio scorso, spiegando che si tratta di “un’impostazione per così dire nordica, di Paesi ormai senza industria, in particolare Olanda e Danimarca, che importano tutto, che per questo declinano spesso un mercatismo estremista e che sono ideologicamente votati a politiche di transizione energetica estreme”. Gozzi parlava di “pregiudizio anti industriale”, e ora difende le sue parole dalle critiche in un intervento su Il Riformista: “Le critiche vanno sempre considerate con attenzione e umiltà ma in questo caso ho ragione io: i miei quindici anni di attività industriali in Belgio, vicino a Bruxelles, alla Commissione Europea e alla sua burocrazia guardiana (alla quale purtroppo gli italiani partecipano poco e male) mi hanno dato una sensibilità e un fiuto per ciò che bolle in pentola a Berlaymont che raramente mi fanno sbagliare”.

A sostegno della sua tesi, Gozzi porta un’intervista realizzata da ‘L’Echo’, il giornale economico belga, a Pierre Régibeau, ex braccio destro della VicePresidente e Commissaria europea alla concorrenza la danese Margrethe Vestager. “I contenuti dell’intervista – scrive il presidente di Federacciai -, nella loro radicalità mercatista, ecologista e antindustriale sono emblematici dell’atteggiamento che ho denunciato nella mia relazione, un atteggiamento nel quale un liberismo estremo (mercatista appunto) si intreccia ad un ecologismo acritico e a una visione tutta finanziaria e antindustriale o a-industriale dell’economia”.

Gozzi conclude spiegando che “l’Europa non è più il centro del mondo ma, purtroppo, un continente demograficamente e economicamente in declino. In famiglia, da noi, si dice che l’arroganza è sempre un peccato ma che nel business è un peccato mortale. Purtroppo questo adagio pare essere ignorato a Bruxelles e dintorni dove si decide il futuro dell’Europa. Rileggendo questa intervista, due insegnamenti bisogna trarre. Il primo è che il sistema industriale nel suo complesso non è stato capace di fare sentire sufficientemente la sua voce. E ciò non deve più succedere, tanto più che i prossimi anni saranno decisivi per le sorti della manifattura europea impegnata nella colossale sfida della decarbonizzazione; il secondo è che bisogna mandare a Bruxelles i migliori. L’Italia deve presidiare con forza le Direzioni e deve pretendere un cambio di indirizzo europeo sulle politiche industriali. Questo oggi significa costituire un grande fondo europeo per la transizione industriale e per la decarbonizzazione dell’industria di base”.

Berlusconi, gentilezza innata e sensibilità verso interlocutori

Nella mia vita imprenditoriale non ho avuto grandi occasioni di incontro con Silvio Berlusconi. Ma ricordo, con stima e simpatia, due episodi in cui ebbi l’impressione di una gentilezza innata e di una sensibilità nei confronti degli interlocutori che credo abbia costituito buona parte della sua fortuna e del suo fascino.

Primo episodio. Trieste, vertice italo-tedesco del novembre 2008. Le delegazioni sono composte dai due premier (Silvio Berlusconi e Angela Merkel: fu proprio il famoso incontro del ‘cucù’ di Silvio, nascosto dietro un lampione della bellissima Piazza dell’Unità d’Italia), quattro ministri per Paese e tre imprenditori per Paese: per noi il sottoscritto, Fulvio Conti, allora amministratore delegato di Enel, e Alberto Falck di Falck Renewables. Uno dei temi del vertice è, già allora, il climate change con le emissioni di CO2: Emma Marcegaglia, allora presidente di Confindustria, mi ha chiesto di partecipare perché in quel momento sono uno dei pochi imprenditori italiani che capisce qualcosa di CO2.

La mattinata scorre nel palazzo di rappresentanza della Regione prima con due ristrette, una riservata ai premier e ai ministri e l’altra riservata agli uomini delle imprese, e poi a partire dalle 11,30 una plenaria.

Alla plenaria parlano tutti, prima i due premier, poi i ministri e infine gli industriali. La discussione verte sul destino delle free allowances e cioè sui certificati gratuiti di emissione per le industrie di base, che la Merkel vuole abolire a partire dal 2010. Durante la seduta ristretta gli industriali tedeschi, terrorizzati da questa prospettiva, non fanno altro che chiederci di intervenire su Berlusconi affinché convinca la Merkel a essere meno estremista perché lei ‘a loro non dà retta’.

Io parlo per ultimo, sono quasi le 13 e tutti sono stanchi. Un po’ da ‘Pierino la peste’ esordisco dicendo “…Siamo in piena recessione economica, l’Europa è responsabile per meno del 10% delle emissioni mondiali di CO2 (oggi per meno dell’8%). Di questo 10% l’industria è responsabile per meno della metà…”. E rivolto a Merkel “ma perché in questa situazione di crisi volete fare i primi della classe colpendo così duramente il futuro dell’industria europea?”. La riunione finirebbe qui, ma la cancelliera tedesca riprende la parola , e con un tratto duro e un po’ di estremismo da ex-ministra dell’Ambiente mi attacca dicendo che “l’Europa deve essere la prima della classe” .

Berlusconi è imbarazzato: durante tutto il vertice ha cercato di creare un clima tranquillo e di amicizia e adesso, per colpa di un industriale siderurgico forse sprovveduto che ha avuto l’ardire di contrapporsi alla Merkel, vede il rischio di una incomprensione e di un esito non positivo dell’incontro. Riprende immediatamente la parola, e per allentare il clima un po’ teso dice: “Sono sicuro Angela che tu a scuola sarai stata sempre la prima della classe”. Merkel, ancora dura, risponde: “Sono cresciuta in un paese comunista, figlia di un pastore protestante, se non fossi stata la prima della classe avrei avuto seri problemi di discriminazione”.

Berlusconi capisce che non vale la pena continuare e, come una gentile e navigata padrona di casa, dice con un gran sorriso “Ok, ora andiamo tutti a mangiare. Attraversiamo la piazza perché ho fatto preparare per tutti voi il pranzo in Prefettura”.

Attraversiamo la piazza, saliamo in prefettura, e lì troviamo in un grande salone la tavola apparecchiata con al centro una composizione di rose bellissime dai colori della bandiera tedesca: gialle, rosse e nere. (Mi sono sempre chiesto: ma esistono le rose nere, o Silvio le ha fatte colorare?). Merkel entra, rimane incantata dalla bellezza del luogo e dall’eleganza dell’allestimento e ringrazia Berlusconi dell’accoglienza squisita. Alla fine del pranzo Berlusconi, sapendo quanto Merkel ami Trieste (che proprio per questo è stata scelta come sede dell’incontro) si fa portare un pacco di bellissime stampe antiche della città, e le dice: “Vorrei regalartele tutte ma posso donartene solo tre: sceglile tu”. Di nuovo Merkel, colpita dall’ospitalità e dalla gentilezza, ringrazia con calore Silvio per le attenzioni ricevute.

Pochi lo sanno, ma quel vertice terminò molto positivamente per gli industriali italiani ed europei in generale. Berlusconi convinse la Merkel ad avere un approccio più graduale e più rispettoso delle industrie del continente. Sia pure con progressive riduzioni le free allowances, e cioè l’assegnazione gratuita di quote di CO2 all’industria, è continuata in tutto questo periodo e non terminerà che alla fine del 2026.

Secondo episodio. Palazzo Chigi, febbraio 2010. Viene firmato l’accordo intergovernativo Italia-Montenegroper la realizzazione di una linea elettrica sottomarina di 415 km tra i due Paesi che di fatto apre il mondo dei Balcani a investimenti in energia rinnovabile fatti da investitori italiani. Io sono presente in qualità di Presidente di Interconnector, il consorzio delle industrie energivore italiane, che finanzierà una parte dell’elettrodotto. Il Ministro dell’Industria e dell’Energia di allora, il ligure Claudio Scajola, vuole farmi parlare con il Presidente prima della firma del trattato.

Berlusconi con un sorriso mi accoglie dicendomi, “Gozzi non faccia anche oggi Pierino la peste mi raccomando…”, ma poi con grande attenzione e interesse mi chiede di spiegargli del nostro consorzio, di quali sono i problemi delle industrie energivore italiane, di cosa può fare il governo per sostenere un pezzo così importante del nostro sistema industriale. Grande attenzione, grande gentilezza e, mi sembrò, un sincero interesse per il sistema industriale nazionale.

Quando nel maggio del 2014 l’Entella per la prima volta salì in serie B mi chiamò per telefono per congratularsi e per dirmi in bocca al lupo per il prossimo campionato. Mi promise che una volta che si fosse trovato a Portofino sarebbe venuto a vedere l’Entella. Non lo fece mai.

Gli scrissi un biglietto quando il Monza l’anno scorso salì in serie A, e gli dissi che c’erano riusciti grazie a un giocatore dell’Entella, il grande Mota Carvalho. Rispose con un emoji pieno di risate.

Alla famiglia Berlusconi le più sentite condoglianze mie e di tutta la Duferco. Un abbraccio al caro amico Adriano Galliani, Presidente del Monza, che ritengo parte della famiglia.

Ciao Silvio, ad uno come te la terra non potrà che essere lieve.

Federacciai bacchetta l’Europa. Gozzi: “Saremo campioni del mondo green”

Per la prima Assemblea del suo secondo mandato da presidente di Federacciai, il professor Antonio Gozzi ha scelto la strada della chiarezza estrema perché, verosimilmente, non è (più) il tempo delle mezze misure e dei cerchiobottismi. Uno dei comparti industriali più importanti del Made in Italy, una delle eccellenze del Paese, non può restare immobile e non può difendersi da sola. Così Gozzi, prendendo la parola in uno dei padiglioni dell’immensa Fiera di Rho, non l’ha toccata proprio pianissimo. Ha richiamato l’Europa alle sue responsabilità e sollecitato il Governo di Giorgia Meloni ad agire, ha profilato un futuro sempre più decarbonizzato per il mondo siderurgico in maniera da diventare “campioni del mondo” perché adesso “siamo campioni d’Europa”. Traguardo ambizioso, da raggiungere esplorando frontiere al momento vietatissime, come quella del nucleare. Supportato, in questo, dalle promesse del ministro Urso, reduce da un viaggio in Romania in cui ha consolidato l’idea che noi, come sistema Paese, non possiamo rimanere indietro.

Siamo i siderurgici più green d’Europa e l’Italia è il Paese europeo con la più alta produzione di acciaio decarbonizzato (oltre 80 percento) e questo ci permette di rivendicare tale primato ai tavoli europei”, ha cominciato Gozzi. Ma l’interlocuzione con Bruxelles non è facile, tutt’altro, quasi un muro contro muro: “Estremismo e ideologia in campo ambientale, estremismo finanziario e mercatista, non considerazione adeguata da parte delle istituzioni europee della centralità dell’industria, crescenti asimmetrie competitive fra gli Stati gravano come macigni sul futuro economico e sociale dell’Unione. L’Europa deve cambiare approccio e deve farlo rapidamente, pena una vera e propria desertificazione industriale del continente”. Un chiodo fisso, quello della Ue. Nella sua compattezza, Federacciai chiede a Commisione e Parlamento un cambio di passo. “Non esiste un piano europeo per la siderurgia: il vero pensiero che si coglie è che l’acciaio sia il passato e che parte della produzione siderurgica debba lasciare l’Europa. Ma l’acciaio non è il passato , anche l’Europa deve sostenere lo sforzo di decarbonizzazione in siderurgia“, la denuncia del presidente. E ancora: “Bisogna non perdere mai di vista la competitività delle nostre imprese perché solo in questo modo la transizione può essere virtuosa ambientalmente e sostenibile economicamente e socialmente”.

Se è vero che la strada non è breve e, a tratti, potrà sembrare disagevole, è innegabile che debba essere intrapresa subito e senza tentennamenti. Soprattutto, dicono in Federacciai, senza incagliarsi in ideologie sorpassate. Un esempio? Eccolo: “Con riferimento all’energia nucleare, che ancora oggi rappresenta il 25% della produzione elettrica europea, vogliamo esprimere al Governo, anche in questa sede, il nostro totale sostegno alla ripresa anche in Italia di questa opzione. Sappiamo che molti dicono che per l’ltalia è troppo tardi e che i costi sarebbero troppo elevati. Sappiamo però anche che la velocità dell’innovazione tecnologica, l’avvento del nucleare di quarta generazione e dei microreattori rappresentano un’opportunità straordinaria, da non perdere”, ha teorizzato Gozzi.

Se l’Ucraina è un’opportunità da sfruttare “per l’elettrosiderurgia italiana”, i casi dell’ex Ilva e di Piombino non sono da trascurare. “Gli interventi sono stati imponenti e, probabilmente, Taranto oggi è l’impianto siderurgico più ambientalizzato del mondo“, ha sottolineato il presidente di Federacciai, “Per nostro difetto storico di comunicazione e per l’incapacità di narrare la siderurgia italiana per quello che è, cioè un settore industriale avanzato e di eccellenza, i punti problematici e di crisi, e cioè Taranto e Piombino, spesso nell’immaginario collettivo sono diventati l’esempio di come l’acciaio sia sporco, brutto e cattivo e di come alla parola acciaio si associ la parola crisi – ha spiegato -. Vi abbiamo raccontato perché non è così. Ormai più dell’80% dell’acciaio prodotto in Italia non è fatto né a Taranto né a Piombino ma nei mini-mills elettrici e decarbonizzati del Nord, protagonisti della più grande macchina europea di economia circolare“.

Riaprire il tribunale del Levante, ecco cosa fare veramente e rapidamente

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, interviene nel suo editoriale su ‘Piazza Levante‘ sul tema della riapertura del Tribunale di Levante.

“Questo giornale ha sempre sostenuto che la perdita del Tribunale è stato un durissimo colpo per la città di Chiavari e per il suo ruolo di capoluogo del Tigullio.

È sempre utile ricordare il clima in cui maturò a livello governativo quella scelta scellerata.

Fu una scelta demagogica del governo Monti.

Non riuscendo a procedere con altri tagli di spesa pubblica che l’Europa chiedeva all’Italia dopo la tempesta speculativa che aveva costretto il Governo Berlusconi alle dimissioni, il premier professore pensò bene di procedere alla chiusura dei piccoli tribunali non collocati in capoluoghi di provincia, per dare prova della capacità del suo governo di praticare veramente politiche di austerità.

Si trattò appunto di una scelta demagogica perché in realtà i risparmi di spesa furono minimi o nulli e i disagi per i cittadini utenti del servizio di giustizia enormi.

L’esempio del Tribunale di Chiavari è sotto gli occhi di tutti.

Si trattava di un Tribunale ben organizzato e molto efficiente nella qualità e nei tempi del servizio di giustizia, che serviva un vasto bacino di popolazione compresa una parte dell’entroterra ligure e cioè la Val Fontanabuona, la Valle Sturla e la Val Graveglia tradizionalmente gravitanti su Chiavari.

Si trattava di un Tribunale di presenza antica, abolito sotto il fascismo che detestava ogni forma di decentramento, e riaperto con la Liberazione e la Repubblica.

Si trattava di un’attività direzionale di rango superiore con un importantissimo indotto anche sulle altre attività di servizio e commerciali della città e punto di riferimento di un ceto professionale fatto di avvocati, commercialisti, notai, ingegneri, geometri, periti che caratterizza da sempre la città.

Si trattava di un Tribunale che aveva condotto lo Stato a un ingente investimento per la realizzazione di una nuova sede più moderna ed efficiente, realizzata in aderenza al carcere mandamentale e al commissariato di Pubblica Sicurezza secondo criteri di efficienza anche logistica del servizio di giustizia.

Tutti questi elementi non furono minimamente tenuti in conto, anche per la debolezza politica e di rappresentanza del Tigullio, che non avendo ‘santi in Paradiso’ ancora una volta pagò pegno a favore di Genova matrigna.

Non ci fu un solo politico genovese che prese le parti delle esigenze di Chiavari e del Tigullio e anzi con il tipico egoismo del capoluogo la chiusura del Tribunale di Chiavari e l’accentramento dei suoi servizi nel Tribunale di Genova fu vissuta come un atto quasi dovuto alla Superba.

L’onda ‘razionalizzatrice’ e ‘accentratrice’ fu anche cavalcata da vasti settori e correnti della Magistratura e della burocrazia ministeriale da sempre fautori dei grandi tribunali e della loro specializzazione, in spregio ai presidi territoriali e al decentramento delle attività sul territorio.

Fino ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di fare il bilancio, numeri alla mano, di quella chiusura spiegando ai cittadini quali sono stati i risparmi, se mai ve ne sono stati, analizzando i costi aggiuntivi che sicuramente l’accentramento ha comportato (spazi mancanti presso il Tribunale di Genova ad esempio), cercando di calcolare il peso e i sacrifici per la popolazione comportati dall’accentramento su Genova.

Una brutta pagina di demagogia e cattiva amministrazione confermata dal fatto che alcuni tribunali non in capoluoghi di provincia (e cioè nella stessa situazione di Chiavari) vennero salvati non si sa in base a quali criteri e valutazioni se non il peso politico di qualche ‘santo protettore’ che Chiavari non aveva avuto.

Con Nordio Ministro di Grazia e Giustizia sembra aprirsi una prospettiva nuova. Noi stimiamo molto l’ex magistrato per la sua visione della giustizia e per il suo garantismo tanto più rilevante perché proviene da un ex pm.

Nordio ha avuto l’onestà di dire alla Camera che le chiusure dei piccoli tribunali molto spesso sono stati atti non giustificati da elementi concreti e ha affermato che il Governo Meloni ha intenzione di riesaminare la questione facendo una corretta e non demagogica analisi costi-benefici riesaminando il dossier caso per caso.

Emergono sia nelle dichiarazioni del Ministro che soprattutto in quelle del sottosegretario onorevole Delmastro due questioni fondamentali al fine di avere qualche chances:

L’eventuale riapertura dei tribunali soppressi potrà avvenire solo se il servizio riguarderà un’area territoriale più vasta di quella servita in precedenza;
La disponibilità di locali idonei e immediatamente fruibili sarà particolarmente importante.
Entrambi gli elementi costituiscono una chiarissima indicazione di un lavoro politico e amministrativo che va svolto con celerità ed intelligenza.

Il Tribunale del Levante (così dovrà chiamarsi e non più Tribunale di Chiavari) quali territori nuovi dovrà servire in più rispetto alla vecchia circoscrizione? Una parte di genovesato? Una parte di provincia di La Spezia? Bisogna convincere le Amministrazioni di quelle località a lavorare per la nuova struttura e a condividere il progetto.

Bisogna al più presto liberare l’edificio del nuovo Tribunale in corso De Michiel dai servizi che vi sono stati collocati dalla Civica Amministrazione negli ultimi anni. Bisogna farlo subito trovando soluzioni di ricollocazione per Inps, GdF, Agenzia delle Entrate, Giudice di Pace e Centro per l’impiego.

La disponibilità immediata dei locali è considerata come si diceva un elemento fondamentale. Bassano del Grappa, nella stessa identica situazione di Chiavari, ha tenuto duro per più di dieci anni tenendo vuoto l’edificio e oggi lo ha pronto e a disposizione.

Noi siamo sempre stati molto critici con l’Amministrazione Di Capua prima e Messuti poi perché il tema di volumi direzionali, fondamentali per presidiare il ruolo di capoluogo di Chiavari, non è mai stato al centro dell’attenzione e anzi si sono perse e si stanno perdendo occasioni per dare volumi direzionali alla città.

Basta fare l’elenco delle occasioni perdute: palazzo Ferden, intervento nell’area Cantero Ginocchio, area Italgas ed altre ancora che se oggi fossero disponibili consentirebbero di rilocalizzare immediatamente i servizi collocati nel nuovo Palazzo di Giustizia liberandolo per la riapertura del Tribunale.

Vediamo cosa farà nelle prossime settimane la Civica Amministrazione e capiremo rapidamente se davvero ci tiene e se crede alla riapertura del Tribunale operando coerentemente in tal senso.

I discorsi stanno a zero: fatti, non parole“.

L’ambientalismo estremo demonizza il progresso, in Europa prevale la cultura dei diritti

“Il declino dell’Occidente è uno spettro che ci angoscia da tempo. Ora però succede qualcosa di nuovo: è in corso la nostra autodistruzione. L’ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica, non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale. Tutto ciò che avviene ai nostri confini come la tragedia Ucraina, si spiega con questo retroscena interno: i nemici dell’Occidente sanno che ci sabotiamo da soli, rinunciando alle nostre certezze, cancellando la fiducia in noi stessi”.

Così Federico Rampini nell’introduzione del suo saggio ‘Suicidio occidentale’ ed. Mondadori 2022. Un’esagerazione? Forse sì, in qualche modo dovuta al fatto che ormai Rampini è un cittadino americano ed è quindi condizionato dall’esplosione in quel Paese della cultura del politically correct imperante nelle università, nel mondo delle aziende, in particolare Big Tech, e in molte multinazionali il cui marketing si rivolge ai giovani, nel management e nei consigli di amministrazione, invasi dalle nuove generazioni formate nei college dove detta legge una sinistra illiberale.

Però questa visione pessimista a dire il vero non è priva di fondamento.

Anche in Europa spesso prevale la cultura dei diritti piuttosto che quella dei doveri, e gli esempi di sbandamento culturale sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalle politiche e dalle scelte sulla transizione energetica, troppo spesso dominate da un ambientalismo estremo trasformato nella religione neopagana del nostro tempo che, come dice Rampini, demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

Occorre dire però che la questione Ucraina e il sostegno dato a quel Paese per reggere l’urto dell’aggressione russa hanno riproposto il tema dell’Occidente, dei suoi valori, delle sue democrazie, delle sue alleanze anche militari.

La compattezza finora dimostrata dalla coalizione Nato, alleanza militare difensiva che in questi mesi si è addirittura allargata a due Paesi tradizionalmente neutrali come Finlandia Svezia, smentendo la constatazione del Presidente francese Macron di una presunta “morte cerebrale” in cui a suo dire si sarebbe trovata l’alleanza atlantica prima dell’invasione russa dell’Ucraina, costituisce un primo elemento di riflessione e di ottimismo.

I valori dell’Occidente di libertà e autodeterminazione dei popoli, di libero mercato, di welfare sociale, di promozione delle pari opportunità, di rispetto delle donne e delle minoranze sessuali ed etniche costituiscono un punto di riferimento globale, tanto da rappresentare un’aspirazione profonda per i popoli di Paesi meno fortunati dei nostri retti da dittature o autocrazie.

La forza economica di UsaEuropaGran BretagnaGiapponeAustraliaCorea del Sud è in grado di reggere il gigante cinese e la sua espansione.

Gli esempi sono molteplici: l’uscita dal Covid e la rapidità del successo dei vaccini occidentali sono lì a dimostrare la performance delle nostre economie e dei nostri sistemi di impresa rispetto a quelli cinesi, che non sono stati in grado di risolvere rapidamente l’emergenza pandemica dopo averla probabilmente innescata; recentemente il Nobel per l’Economia Paul Krugman, dalle colonne del ‘New York Times’, ha sottolineato il fallimento del tentativo di Putin di ricattare le economie europee interrompendo le forniture di gas.

La guerra inizialmente ha sconvolto i mercati delle materie prime: il gas era lo strumento di pressione più valido nelle mani di Putin, l’unico che poteva davvero mettere in crisi le economie europee.

Non era chiaro come l’Europa avrebbe potuto sostituire le forniture russe. Abbiamo temuto una profonda recessione economica del nostro continente, razionamenti energetici, crisi occupazionali, possibili disordini sociali che avrebbero minato la stabilità politica dei Paesi europei e il loro sostegno all’Ucraina.

Nulla di tutto ciò è accaduto: nell’UE c’è stato un rallentamento economico ma finora le economie crescono ancora e non si può parlare di recessione, la disoccupazione non è aumentata, la produzione industriale è rimasta sostenuta nonostante il rallentamento della domanda.

La riduzione della domanda energetica, soprattutto di gas, dovuta ai prezzi che per un certo periodo sono stati molto alti, e la diversificazione delle fonti di approvvigionamento, esercizio nel quale grazie all’Eni l’Italia non è stata seconda a nessuno, hanno consentito alle economie del vecchio continente di continuare a funzionare nonostante il crollo delle importazioni di gas russo, con un aumento della capacità di importare Gnl (gas naturale liquefatto) con i famosi rigassificatori, che ha gettato le basi per un’intensa relazione energetica tra Europa e Stati Uniti d’America.

Come abbiamo detto tante volte, in questo quadro di un rinforzato rapporto euro-atlantico il mar Mediterraneo torna ad avere importanza strategica, così come il ruolo geopolitico dell’Italia, naturale ponte culturale ed economico verso l’area balcanica e verso quella dei Paesi del Nord Africa.

Alla luce dei fatti sopraesposti non regge dunque la tesi di molti secondo la quale l’Occidente sarebbe ormai un decaduto club di Paesi ricchi e che il resto del mondo con i grandi Paesi emergenti come CinaIndiaBrasile, nel quadro di equilibri globali ormai multipolari e in rapida trasformazione, non sarebbero più disponibili a riconoscere l’egemonia occidentale e guarderebbero oltre.

In realtà questa tesi, secondo la quale tra tutti i Paesi del mondo solo il piccolo, ricco e decadente Occidente avrebbe condannato la Russia è del tutto infondata. L’Assemblea delle Nazioni Unite ha difeso l’integrità territoriale dell’Ucraina (uno dei principi fondamentali della Carta) e condannato l’invasione russa con 143 voti a favore, 35 astensioni e solo 5 contrari.

È stato anche giustamente fatto notare che oltre la quantità vale anche la qualità del voto, visto che i 5 Paesi contrari sono tra le peggiori dittature al mondo (RussiaBielorussiaNord CoreaNicaragua e Siria). Neppure la Cina che afferma di essere amica “senza limiti” di Putin se l’è sentita di andare oltre l’astensione.

ArgentinaBrasile e altre democrazie emergenti hanno condannato l’invasione russa anche se è certamente vero che questi Paesi sognano un mondo multipolare dove non esistano più potenze egemoni.

Il tema del multipolarismo è estremamente delicato, perché in realtà un globo multipolare dove gli Usa non sono più il poliziotto del mondo, sia perché non lo vogliono più fare, nella versione democratica di Obama prima e di Biden poi, con l’abbandono frettoloso e incomprensibile dell’Afghanistan ai Talebani, sia nella versione repubblicana trumpiana in cui “ci facciamo gli affaracci nostri e del resto non ci interessa” è un mondo molto più difficile, turbolento e caotico.

Ma questo è un tema complesso, che meriterà in futuro un editoriale dedicato.

Energia, Gozzi (Federacciai): Europa incapace di fare sistema, a rischio Mercato unico

La crisi energetica ha dimostrato un’incapacità europea di fare sistema. In assenza di una capacità europea di fare sistema e di decidere una politica comune sull’energia, i singoli Stati hanno fatto da soli creando importanti asimmetrie”. Lo ha detto Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e Duferco, al margine del convegno ‘L’evoluzione dell’agroalimentare italiano ed europeo tra sostenibilità e benessere’, organizzato da Gea ed Eunews. “Un esempio: i siderurgici francesi hanno il 70 % dell’energia a 64 euro, noi in Italia paghiamo l’energia elettrica 150 euro, più del doppio. I tedeschi anche pagano prezzi inferiori a quelli italiani. Queste situazioni creano asimmetrie competitive e rischiamo di mettere in crisi il Mercato Unico. L’incapacità di decidere e il conflitto di interessi impediscono una politica comune e di conseguenza l’Europa corre un grande rischio”, ha aggiunto.

Energia, Gozzi (Federacciai): Italia può essere hub europeo, ottimista su calo prezzi

Io sono abbastanza prudentemente ottimista sul prezzo dell’energia, perché vedo il Mediterraneo come un mare di gas. L’Italia è il Paese più infrastrutturato dal punto di vista dei tubi, abbiamo tre rigassificatori e due se ne dovrebbero aggiungere. Abbiamo una infrastruttura che ci consente di dire che potremmo essere l’hub dell’Europa, soprattutto meridionale. I giacimenti in giro per il Mediterraneo sono giganteschi”. Lo ha detto Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e Duferco, al margine del convegno ‘L’evoluzione dell’agroalimentare italiano ed europeo tra sostenibilità e benessere’, organizzato da Gea ed Eunews. “Il tema – ha aggiunto – è quello di impostare politiche che consentano di utilizzare il gas in maniera decarbonizzata. Se si perseguono queste politiche sono, dal punto di vista del medio periodo, abbastanza ottimista sul fatto che il prezzo del gas scenderà”.

Antonio Gozzi: “Pronti a una produzione totalmente green dell’acciaio”

“L’Italia e la sua siderurgia hanno un primato mondiale, a cui temiamo e che cerchiamo, come si fa sempre quando si è campioni del mondo, di mantenere questo titolo”. Lo dice Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e Duferco, al convegno ‘L’evoluzione dell’agroalimentare italiano ed europeo tra sostenibilità e benessere’, organizzato da Gea ed Eunews. “Quando il mondo parla di dover decarbonizzare le produzioni di acciaio – continua -, quando si parla di processo green, in Italia è già realtà, viene già fatto e viene da lontano”. L’esigenza di comunicarlo, spiega,  “non è l’esigenza darsi una reputazione e una credibilità verde, ma comunicare al mondo, agli stakeholder, ai decisori, ai clienti, ai fornitori e persino ai nostri collaboratori che la siderurgia italiana – che è una elettrosiderurgia, cioè non usa il carbone – per natura è già elettrificata”. E “la produzione da forno elettrico rappresenta ormai più dell’80% del totale”.

L’obiettivo è, per Gozzi, quello di arrivare a una produzione totalmente green dell’acciaio. “I Lucchini, i Lonati, i Pasini… Hanno inventato loro l’elettro-siderurgia. Costruirono un settore decarbonizzato – spiega – tutto attaccato a centrali elettriche, una economia circolare perché non consumava risorse naturale in quanto utilizzava i rottami di ferro. Siamo i primi nel mondo e bisogna dirlo. Per produrre una tonnellata con forno elettrico si emettono 10-12 volte di Co2 in meno rispetto a una tonnellata prodotta a ciclo integrale. Vogliamo mantenere il titolo e arrivare al 2030, ben prima del 2055, ad essere il primo Paese con una produzione totalmente green dell’acciaio”. 

Ma non solo. “Sullo Scope1, cioè le emissioni dirette, la siderurgia italiana è già vicina all’obiettivo di arrivare al 2030, ben prima del 2055, ad essere il primo Paese con una produzione totalmente green dell’acciaio”, conferma il presidente di Federacciai e Duferco. “Usiamo però ancora un po’ di gas – aggiunge – ma al Nord siamo in mezzo alla campagna, dove con scarti e deiezioni animali è possibile arrivare a produrre biogas e biometano. Mi bastano 6 contratti con biodigestori da 1,5 Mwh e arrivare a centrare lo Scope1. Per lo Scope2 attualmente stiamo comprando elettricità dalla rete. I siderurgici però stanno già sostituendo energia dalla rete con elettricità prodotta da rinnovabili. Su 8mila ore di esercizio l’anno ora sono 2000 quelle coperte da rinnovabile. Non saremo solo carbon neutral – conclude Gozzi – ma carbon negative così potremo vendere i certificati verdi. Le rinnovabili però non bastano. Servirà la cattura di Co2 e il nucleare, micro reattori, per i quali saranno necessari una ventina di anni per raggiungere l’obiettivo”.