Eni, nella stazione di servizio un diner all’americana con menu di chef Romito

L’atmosfera è quella retrò, di un Diner hopperiano newyorkese. Un chiaroscuro di tavolini e neon colorati in cui la colazione, il pranzo, la cena hanno contorni sfumati. Il cibo è quello di un fast food stellato, dove tutti gli ingredienti, dalle farine ai lieviti, all’olio di frittura sono ben selezionati. Si chiama ‘Alt Stazione del Gusto’ e si trova a Roma, nella storica stazione di servizio di Eni in viale America all’Eur.

Aprirà le porte a chi parte e a chi arriva in città, a chi sosta per un rifornimento, a chi si ferma per un caffè al volo prima di iniziare la giornata o si intrattiene per un aperitivo dopo il lavoro. L’idea nasce da una collaborazione di Enilive, brand di Eni Sustainable Mobility, e Accademia Niko Romito dello chef tre stelle Michelin. L’obiettivo è raggiungere 100 aperture nel quadriennio, a cominciare dalle principali città italiane.

E’ il primo assaggio di Enilive, il nuovo brand lanciato una settimana fa, e dà l’idea di come stiamo trasformando la nostra società dedicata alla bioraffinazione, alla produzione di biometano, alle soluzioni di smart mobility e alla commercializzazione dei servizi e di tutti i vettori energetici per la mobilità, anche attraverso le oltre 5mila Enilive Station in Europa”, spiega durante la presentazione Stefano Ballista, amministratore delegato di Eni Sustainable Mobility.

La proposta di Alt è un unicum nell’evoluzione dei servizi per le persone in mobilità e, ribadisce l’ad, “conferma l’impegno a essere sempre più vicini alle esigenze di chi frequenta e vive i nostri punti vendita, non solo per fare rifornimento“. Dopo aver consolidato la principale catena italiana di bar, gli Eni Café, la prima apertura del nuovo format avviene in una stazione dal valore storico e simbolico, quella di viale America, dove, ricorda, “siamo presenti fin dagli anni Sessanta e che da oggi si distingue e anticipa l’offerta che in futuro verrà estesa a tante altre Enilive Station, e non solo”.

Il menu si declina dalla colazione alla cena, in una serie di proposte al tavolo o da asporto. Per Enilive, la collaborazione con l’Accademia Niko Romito si inserisce nel percorso di rinnovo e ampliamento dell’offerta di servizi nella rete dei suoi oltre 5.000 punti vendita in Europa, di cui oltre 4.000 in Italia: le stazioni Eni oggi sono diventate ‘mobility point’ in grado di soddisfare un numero sempre maggiore di esigenze delle persone in movimento, attraverso la messa a disposizione di servizi che consentono ai clienti di trasformare la sosta per il rifornimento tradizionale o elettrico da necessaria a utile. Nel punto vendita di viale America è disponibile un’area dedicata alla ricarica dei veicoli elettrici attraverso tre colonnine di Plenitude il cui avvio e pagamento potranno essere effettuati anche direttamente nel ristorante.

La partnership tra Accademia Niko Romito e Enilive prevede un piano di sviluppo anche tramite franchising. Il progetto, oltre ai flagship che Niko Romito gestirà direttamente, svilupperà un piano di franchising proponendo modelli di gestione e formazione strategici e innovativi. Il progetto di sviluppo è diretto a un segmento di giovani imprenditori interessati a diventare gestori di un format di cucina popolare “su strada” di qualità, sviluppato attraverso un modello di business snello, organizzato e standardizzato.

Romito descrive Alt come la declinazione della sua ricerca in chiave “più democratica e trasversale“. “Ho immaginato un modello di ristorazione su strada perché le strade sono di tutti“, spiega lo chef: “Volevo lavorare ad un’offerta di cucina popolare, con piatti facilmente comprensibili, che avessero un’accezione quasi domestica e un approccio creativo, di qualità. Ho realizzato quello che io stesso vorrei trovare quando per lavoro viaggio e mi sposto: un menù che, dalla colazione alla cena, possa soddisfare il viaggiatore, il motociclista, la famiglia che transita, chi si ferma per un pranzo di lavoro in un’atmosfera informale o chi vuole portare via una merenda, del buon pane o un pollo fritto”.

Sostenibilità, il ‘green’ che piace di più al settore alimentare

L’Energy & Strategy della school of management del Politecnico di Milano lavora per istituire un osservatorio permanente su mercati e filiere industriali dei comparti legati alle energie rinnovabili, all’efficienza energetica, sistema elettrico e smart grid, smart mobility, smart buildings, circular economy,startup e nuove tecnologie per la sostenibilità ambientale. Il Circular Economy Report è alla sua terza edizione.  Davide Chiaroni è professore ordinario al dipartimento di ingegneria gestionale del Politecnico di Milano e cofondatore dell’Energy&Strategy della School of Management del Politecnico di Milano. Ecco il quadro che emerge dai dati d’anteprima del Circular Economy Report dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano, che da tre anni monitora gli investimenti delle imprese in Italia.

1) Cresce il numero di aziende in Italia che investono in pratiche di economia circolare. “Ma servono interventi di portata maggiore”, secondo il parere di Davide Chiaroni, dell’Energy&Strategy del Politecnico di Milano.

2) Nel 2022 il 57% delle aziende ha adottato almeno una pratica di economia circolare. Nel 2021 erano il 44%.

3) Il 65% di chi non ha ancora implementato pratiche circolari non ha dimostrato interesse nell’adottarle in futuro.

4) Tra i 7 macrosettori analizzati dal Circular Economy Report, il comparto food & beverage è quello con il più alto numero di aziende che ha già implementato almeno una pratica manageriale di economia circolare (82%). In ultima posizione il settore elettronica di consumo (15%).

5) La pratica di economia circolare più diffusa in Italia è il riciclo di prodotti e di componenti, adottata dal 61% del campione. Recycle: 61%; Design for Disassembly: 32%; Design for Easy Repair: 32%; Design out Waste: 32%; Remanufacturing/Refuse: 29%; Repurpose: 24%; Design for Upgradability: 19%; Take Back System: 15%; Product Service System: 8%

6) La maggior parte degli interventi è supportata da investimenti tra i 50 mila e i 100 mila euro, con una propensione verso i 50 mila. I tempi di ritorno in più della metà dei casi sono compresi in 24 mesi.

7) Solo il 18% del campione intervistato dal Circular Economy Report partecipa a ecosistemi di simbiosi industriale, ovvero l’interazione tra diversi stabilimenti industriali, anche appartenenti a diverse filiere tecnologico-produttive con l’obiettivo di massimizzare il riutilizzo di risorse normalmente considerate scarti e ottimizzando la conoscenza e le competenze tra aziende.

8) La principale barriera all’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare è l‘incertezza governativa. L’incertezza governativa era la barriera principale anche nel report 2021, ma il dato è in aumento. Nel 2021 le aziende avevano assegnato un punteggio di 3,9 punti. Nel 2022 un punteggio di 4,1.

Slow fashion

Cavagnero: “La moda, il ‘green nudging’ e la parentela col food”

In principio furono la diffusione della BSE per la carne bovina, seguite da una serie di altri scandali, tra cui le frodi equine e le mozzarelle blu tedesche. Stiamo parlando degli anni ‘70, e proprio da allora si è cominciato a discutere di sicurezza alimentare – intesa come sicurezza igienico sanitaria ma anche sicurezza informativa – in ambito food. Così, alcuni ingredienti hanno cominciato a essere rimossi e sono nate numerose nuove norme, tra cui la regolamentazione delle produzioni biologiche e l’etichettatura obbligatoria, nonché certificazioni di prodotto, che hanno permesso ai consumatori di essere informati su cosa si trovavano nel piatto.

Sostenibilità e food, come dicevamo, vanno di pari passo da quasi 50 anni: si pensi che la prima certificazione in ambito alimentare è del 1978 ed è una vera pietra miliare, a ricordarci quanto siamo attenti a ciò che ingeriamo. “Per quanto riguarda invece il comparto moda“, racconta a GEA Sara Cavagnero, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e dottoranda di ricerca in moda sostenibile e proprietà intellettuale, “non c’è stata la stessa attenzione“. Ma se andiamo a vedere gli sviluppi in questo secondo ambito, “ritroviamo pattern similari a quelli del food: anche in questo caso si parla di elementi che entrano a contatto con il corpo, di sostanze chimiche utilizzate, di coloranti, di modalità di produzione, di tracciabilità della filiera, di interazione sociale e dinamiche culturali. E, come per il mondo food, anche in questo caso abbiamo alcuni “ingredienti” che entrano in gioco“. E che fanno la differenza. Non solo: anche le risorse – ambientali e umane – utilizzate nei due sistemi, a ben guardare, sono le stesse. “Quando parliamo di fibre naturali, quali il cotone o la viscosa (che costituiscono circa il 27% delle fibre presenti sul mercato), facciamo riferimento a materie prime che hanno un’origine agricola e che richiedono lunghe ore di lavoro nei campi. Per l’agricoltura, come per la moda, servono ingenti risorse idriche, legate ai processi di produzione e lavorazione. Ancora, come per le ricette di prodotti alimentari, anche nella moda le tecniche di lavorazione, rammendo e manutenzione variano da luogo a luogo e vengono trasmesse di generazione in generazione“. Pure nel mondo della moda è sorta, molto più recentemente, l’esigenza di ottenere informazioni sui capi e sulle relative modalità di produzione, molto spesso fornite tramite certificazioni nate proprio nel settore alimentare. “Anche i vocaboli utilizzati nel marketing ricordano quelli propri del settore food: ‘moda naturale’, ‘moda vegana’, ‘moda bio’ ricalcano gli stessi termini utilizzati per il settore alimentare“.

ANNO 2008, SVOLTA SOSTENIBILE NEL MONDO FASHION

Nell’ambito fashion, l’anno da tenere presente è il 2008: in quel momento, grazie a Kate Fletcher – professoressa di Sostenibilità, Design e Moda presso il Centre for Sustainable Fashion della University of the Arts di Londra – si è cominciato a parlare di fashion sostenibile con varie accezioni – moda slow, moda etica, moda green o eco.

DA SLOW FOOD A SLOW FASHION

Proprio le molteplici correlazioni con il mondo alimentare hanno portato la Professoressa Fletcher all’elaborazione, ispirata dal concetto di “slow food” coniato e fondato da Carlo Petrini, al termine “slow fashion”, che stabilisce nuovi principi per un approccio più consapevole e responsabile al mondo della moda. Lo slow fashion si basa su alcuni principi fondamentali: la qualità dei materiali (di prima scelta, riciclati, naturali o ecologici), l’estetica (i capi devono essere belli e durare ben oltre una sola stagione), la filiera (dove ogni figura deve poter essere rintracciabile ed eticamente ineccepibile). “Una teoria completamente in antitesi rispetto al fast fashion, dove ormai le collezioni non sono 4, come le stagioni, ma 52, ovvero una per settimana“, ha spiegato, “oppure addirittura 365, per i brand di ultra-fast fashion: escono nuovi prodotti ogni giorno“.

SOSTENIBILE SI’, MA NON PER OGNI ASPETTO

Sviluppo sostenibile è un concetto complesso, che racchiude tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica.
Sebbene oggi i brand tendano a richiamare soprattutto la componente ambientale e molto meno quella sociale, per dichiararsi sostenibile, occorrerebbe soddisfare le tre aree: non basta quindi utilizzare tessuti e tecniche produttive considerate meno impattanti sull’ambiente. “A prescindere da un utilizzo dei tessuti rispettoso, bisogna considerare anche tutto il resto“, puntualizza Cavagnero. “Come la questione della giustizia, dell’etica, del rispetto dei lavoratori, della giusta paga… Ma queste sono questioni decisamente meno esplorate“. Come anche la diversità dei corpi che vengono mostrati – e che oggi porta verso un concetto di “inclusivity“, ma nel 2008 erano temi ancora impopolari. Come il concetto della moda legata alla disabilità, di cui è cominciato a parlare solo recentemente, e che finalmente inizia a coinvolgere sfere di popolazione che erano state, finora, “dimenticate”.

IL GREEN MARKETING

Se si leggono i report delle aziende, la parte ambientale risulta sempre enfatizzata, mentre la parte sociale viene spesso ‘tralasciata’. Anche i colori utilizzati nei marketing sono sempre gli stessi: il verde, associato alla natura, il blu al mare. La comunicazione è usata a scopo pubblicitario ma la componente sociale, con il suo poco appeal, non è mai sviluppata“. Dagli anni ‘80 si è, infatti, diffuso un filone definito “green marketing”, che ha esplorato l’impatto sul consumatore di colori associati alla natura e parole come bio, eco, etc. Il risultato: “Sono stati osservati effetti positivi sul consumatore, che portavano a una maggiore propensione all’acquisto“. Il termine associato a queste strategie di marketing è “nudging” (in particolare “green nudging”), che si traduce come “spingere dolcemente”, ovvero far compiere azioni senza imporle ma creando al contrario le condizioni adatte per influenzare le persone.

LA TRACCIABILITÀ

Il discorso sulla tracciabilità nel mondo della moda “è molto complesso, soprattutto per grandi brand che hanno produzioni dislocate in ogni angolo del Pianeta“, spiega Cavagnero. “Pensiamo a quanto è lunga la filiera di una t-shirt di cotone, che parte dal campo, generalmente in Eurasia, poi porta la fase del trattamento e trasformazione in filato in Cina, che ha il know-how e i macchinari per farlo, per poi passare alla realizzazione del capo che avviene nel sud est asiatico, Bangladesh e India, fino alla vendita, in Europa o negli Stati Uniti… E abbiamo già fatto il giro del mondo!”.
Diverse ricerche hanno dimostrato “che la visibilità della filiera si riduce al primo tassello, ovvero il fornitore diretto. Spesso il fornitore di primo livello, scelto per ragioni di convenienza economica, è l’unico elemento noto, mentre si ignora tutto ciò che sta dietro“, e queste logiche erano le uniche a guidare il settore fino a poco tempo fa.
Oggi siamo agli albori di un cambiamento, ma la scelta di un fornitore rispetto a un altro solo perché sostenibile è pura utopia: “spesso gli Audit sono falsificati, oppure solo “aggiustati”, come dimostra una ricerca della Columbia University“. Da un po’ di anni, però, “le cose stanno cambiando: all’interno delle Nazioni Unite dal 2018 è nato un gruppo di lavoro che si occupa della tracciabilità nella filiera moda e calzature, a cui partecipo come esperta. Essendo un progetto intergovernativo e sovranazionale, si pone come strumento neutrale di ricerca e valutazione“. Ma non basterà se non sarà adeguato sulle diverse tipologie di aziende, anche sulle micro e medio-piccole, vera spina dorsale della filiera.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Ma come sarà lo scenario nei prossimi 10 anni? “Per capire il futuro del settore moda si può guardare quello che è successo al food“, spiega Cavagnero, “ci sarà una maggiore attenzione a tutto ciò che è local, alla produzione più vicina, a una maggior sinergia tra designer e acquirente. Non avverrà dall’oggi al domani, ma sarà un cambiamento lento. Anche se, ammetto, sarebbe meglio che fosse velocissimo“.