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Addio ai ghiacci, la Groenlandia è sempre più verde (e non è un bene)

La calotta glaciale della Groenlandia si sta sciogliendo sempre di più e viene gradualmente sostituita dalla vegetazione. Negli ultimi tre decenni si sono sciolti circa 28.707 chilometri quadrati, pari alle dimensioni dell’Albania. Una quantità che rappresenta circa l’1,6% della copertura totale di ghiaccio e ghiacciai della Groenlandia. Dove un tempo c’erano ghiaccio e neve, ora ci sono rocce brulle, zone umide e aree di arbusti.

Un team di scienziati dell’Università di Leeds, che ha seguito i cambiamenti in questa zona dagli anni ’80 al 2010, sostiene che le temperature più calde dell’aria stanno causando il ritiro dei ghiacci. Il permafrost – uno strato permanentemente ghiacciato sotto la superficie terrestre – viene “degradato” dal riscaldamento e in alcune aree, avvertono gli scienziati, potrebbe avere un impatto sulle infrastrutture, gli edifici e le comunità che vi si trovano sopra. Le loro scoperte sono riportate sulla rivista Scientific Reports.

La Groenlandia fa parte della regione artica. È l’isola più grande del mondo, con una superficie di circa 836.330 miglia quadrate (2,1 milioni di km²). La maggior parte del territorio è coperta da ghiacci e ghiacciai e ospita quasi 57.000 persone. Dagli anni ’70 si è riscaldata a un tasso doppio rispetto alla media globale. Qui le temperature medie annuali dell’aria tra il 2007 e il 2012 sono state più calde di 3 gradi centigradi, rispetto alla media del periodo 1979-2000. E i ricercatori avvertono che in futuro è probabile che si verifichino temperature più estreme.

La perdita di ghiaccio si è concentrata intorno ai bordi degli attuali ghiacciai, ma anche nel nord e nel sud-ovest della Groenlandia. Si sono registrati alti livelli di perdita di ghiaccio anche in aree localizzate a ovest, nel centro-nord-ovest e nel sud-est. Nel corso dei tre decenni, la quantità di terra su cui cresce la vegetazione è aumentata di 33.774 miglia quadrate (87.475 km quadrati), più che raddoppiando nel periodo di studio.

La perdita di ghiaccio, dicono i ricercatori, sta innescando altre reazioni che porteranno a un’ulteriore perdita di ghiaccio e a un ulteriore ‘rinverdimento’ della Groenlandia, dove la riduzione del ghiaccio espone la roccia nuda che viene poi colonizzata dalla tundra e infine dagli arbusti. Ma allo stesso tempo, l’acqua rilasciata dallo scioglimento dei ghiacci sposta sedimenti e limo, che finiscono per formare zone umide e paludi. La neve e il ghiaccio riflettono bene l’energia solare che colpisce la superficie terrestre e questo contribuisce a mantenere la Terra più fredda. Quando il ghiaccio si ritira, espone il basamento che assorbe più energia solare, aumentando la temperatura della superficie terrestre. Allo stesso modo, lo scioglimento dei ghiacci aumenta la quantità di acqua nei laghi. L’acqua assorbe più energia solare della neve e anche questo aumenta la temperatura della superficie terrestre.

L’analisi, poi, mostra una quasi quadruplicazione delle zone umide in tutta la Groenlandia, in particolare nella parte orientale e nord-orientale, che sono una fonte di emissioni di metano.

“Questi cambiamenti – dicono i ricercatori – sono critici, in particolare per le popolazioni indigene, le cui tradizionali pratiche di caccia di sussistenza si basano sulla stabilità di questi delicati ecosistemi”.

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Ghiacciai in piena emorragia: sul Rutor persi 1,5 km² in 50 anni

(Photocredit: Legambiente)

Il nuovo record italiano dello zero termico raggiunto alla stazione di radiosondaggio Novara Cameri a 5.328 metri testimonia l’aumento senza precedenti delle temperature e l’inesorabile destino dei ghiacciai alpini, in piena emorragia, per effetto della crisi climatica. E’ la sentenza senza appello di Legambiente, che oggi ha presentato il monitoraggio sul Ghiacciaio del Rutor, in Valle d’Aosta nella prima tappa della IV edizione di Carovana dei Ghiacciai, la campagna internazionale promossa da Legambiente con la partnership scientifica del Comitato Glaciologico Italiano (CGI). E che quest’anno assume una dimensione internazionale, grazie alla collaborazione con Cipra (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) con ben due delle sei tappe localizzate in Austria e Svizzera, allo scopo di costruire nuove alleanze attraverso uno scambio con il mondo della ricerca europeo ma anche con i cittadini e le istituzioni locali e che farà il suo viaggio dal 20 agosto al 10 settembre attraverso l’alta quota per monitorare il drammatico ritiro dei ghiacciai a causa della crisi climatica.
Secondo i dati di Legambiente, il Ghiacciaio del Rutor, il terzo ghiacciaio valdostano per estensione (dopo Miage e Lys) e allo stato attuale con un’area di circa 7,5 Km2 , è sempre più minacciato dagli effetti dei cambiamenti climatici, che provocano una crescente perdita di massa glaciale. Una perdita di superficie di circa 4 km² dal 1865 ad oggi, di cui 1,5 km² persi solo negli ultimi cinquant’anni. Sempre facendo un confronto con la situazione dei primi anni Settanta, la fronte del lobo destro si è ritirata di 650 metri mentre quella del lobo sinistro di 750 metri.   Secondo Arpa Valle d’Aosta, nonostante l’accumulo invernale 2023 del ghiacciaio risulti sorprendentemente tra i migliori degli ultimi vent’anni (situazione ben più positiva rispetto a quelle degli accumuli dei vicini ghiacciai di Timorion e del Grand Etret), quest’estate ci si aspetta un bilancio di massa negativo anche se meno severo rispetto agli ultimi anni.

Nel suo complesso, la dinamica di ritiro del Rutor risulta condizionata dal paesaggio geomorfologico caratterizzato da un’alternanza di conche colme di sedimenti e ricche di laghi e dorsali rocciose allineate alle strutture geologiche alpine. “Questo fa sì – spiega Legambiente – che il ritiro non avvenga in modo lineare, ma alternando fasi relativamente stazionarie o di lento ritiro (come l’attuale) quando la fronte si trova in prossimità di una conca, fino a quando emerge una barra rocciosa che isola la fronte dal resto del ghiacciaio, momento in cui si verifica un marcato e rapido regresso della fronte”.   “ll ghiacciaio del Rutor – commenta Marco Giardino, vicepresidente del Comitato Glaciologico Italiano e docente dell’Università di Torino – è emblematico perchè le condizioni geologiche e geomorfologiche consentono di conservare traccia dell’evoluzione ambientale, nel breve e nel lungo termine. Un luogo ideale per dimostrare l’importanza di associare al monitoraggio diffuso e comparativo sui ghiacciai operato dal Comitato Glaciologico Italiano, un approccio multidisciplinare anche alle zone proglaciali, per rilevare i fenomeni di deposito ed erosione e stabilire un bilancio idrico e dei sedimenti traspostati dalle acque di fusione”.

Dopo la Valle D’Aosta la Carovana dei Ghiacciai 2023 farà la sua seconda tappa in Piemonte, sul Ghiacciaio del Belvedere, focalizzata su ghiacciai e rischi in alta montagna. La tappa inizierà il 24 agosto con un incontro con gli amministratori locali dal titolo ‘La carta di Budoia per l’adattamento ai cambiamenti climatici: un impegno a favore del clima’

Clima, se le emissioni triplicano addio a metà dei ghiacciai del mondo entro il 2100

(Lo scioglimento del ghiacciaio sul Monte Bianco. Photocredit: Jean-Baptiste Bosson, Asters-CEN74)

I cambiamenti climatici causati dall’attività umana in uno scenario ad alte emissioni potrebbero dimezzare l’area coperta dai ghiacciai al di fuori delle calotte antartiche e della Groenlandia entro la fine del secolo. E questo ritiro potrebbe creare nuovi ecosistemi che copriranno una superficie grande quanto l’area compresa tra il Nepal e la Finlandia entro il 2100. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su Nature e condotto da Jean-Baptiste Bosson, del Conservatoire d’espaces naturels de Haute-Savoie, in Francia e da Nicolas Lecomte dell’Università di Moncton in Canada.

La comprensione di questi ecosistemi post-glaciali crea ora un nuovo obiettivo per i ricercatori che si affianca ai continui sforzi per mitigare l’ulteriore declino glaciale. Una delle conseguenze dei cambiamenti climatici causati dall’uomo, infatti, è la riduzione dei ghiacciai, che provoca un rapido cambiamento ecologico con lo sviluppo di nuovi ecosistemi per riempire il nuovo habitat emergente.

Tuttavia, mancano analisi di questo cambiamento su scala globale. Jean-Baptiste Bosson e colleghi utilizzano un modello di evoluzione globale dei ghiacciai per esaminare la traiettoria prevista per il XXI secolo di 650.000 km2 di terreno ghiacciato che si trovano al di fuori delle calotte antartiche e groenlandesi. I profili dei ghiacciai, i modelli digitali di elevazione del terreno subglaciale e i dati climatici sono utilizzati per prevedere la risposta di ogni singolo ghiacciaio agli scenari climatici fino al 2100. Inoltre, il modello è in grado di prevedere le caratteristiche degli ecosistemi emergenti nelle aree deglaciate, classificati in categorie marine, d’acqua dolce o terrestri.

Lo studio prevede che la deglaciazione si verificherà a un ritmo simile, indipendentemente dallo scenario climatico, fino al 2040, dopodiché le stime divergono a seconda della gravità delle emissioni. In uno scenario ad alte emissioni (in cui quelle globali di gas serra triplicano entro il 2075), circa la metà dell’area dei ghiacciai del 2020 potrebbe andare persa entro il 2100. Tuttavia, questo fenomeno potrebbe essere frenato da uno scenario a basse emissioni (in cui si raggiunge lo zero netto entro il 2050), che ridurrebbe questa perdita a circa il 22%.

Si prevede che entro la fine del secolo la deglaciazione esporrà un’area di terra grande all’incirca come il Nepal (149.000 ± 55.000 km2) e la Finlandia (339.000 ± 99.000 km2), con questi habitat classificati come 78% terrestri, 14% marini e 8% di acqua dolce. Queste aree potrebbero fornire un rifugio per le specie adattate al freddo e spostate dal riscaldamento altrove. Gli autori sostengono che, oltre a limitare la deglaciazione, si dovrebbero destinare risorse e attenzione alla protezione di questi ecosistemi di nuova formazione per garantirne il futuro.

 

 

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Allarme Himalaya: i ghiacciai si sciolgono a ritmo record

E’ allarme per i ghiacciai dell’Himalaya. Secondo uno studio dell’International Centre for Integrated Mountain Development (Icimod) si stanno sciogliendo a un ritmo senza precedenti a causa dei cambiamenti climatici, minacciando l’approvvigionamento idrico di quasi due miliardi di persone. Tra il 2011 e il 2020, i ghiacciai si sono sciolti il 65% più velocemente rispetto al decennio precedente. “Con il riscaldamento globale, i ghiacci si scioglieranno, come era prevedibile. Ma ciò che è inaspettato e molto preoccupante è la velocità”, spiega Philippus Wester, autore principale dello studio. “Sta andando molto più velocemente di quanto pensassimo”, dice.

I ghiacciai della regione dell’Hindu Kush e dell’Himalaya sono una fonte d’acqua cruciale per circa 240 milioni di persone nelle aree montuose e per altre 1,65 miliardi nelle valli sottostanti, secondo il rapporto. In base alle traiettorie delle emissioni, i ghiacciai potrebbero perdere fino all’80% del loro volume attuale entro la fine del secolo, secondo le stime dell’Icimod, un’organizzazione intergovernativa con sede in Nepal tra i cui Paesi membri ci sono anche Afghanistan, Bangladesh, Bhutan, Cina, India, Birmania e Pakistan.

I ghiacciai himalayani alimentano 10 dei maggiori bacini fluviali del mondo, tra cui il Gange, l’Indo, il Fiume Giallo, il Mekong e l’Irrawaddy, e forniscono direttamente o indirettamente cibo, energia e reddito a miliardi di persone. “Due miliardi di persone in Asia dipendono dall’acqua dei ghiacciai e della neve. Le conseguenze della perdita di questa criosfera (zona ghiacciata) sono impensabili“, dice Izabella Koziell, vice capo dell’Icimod.

Anche se il riscaldamento globale sarà limitato a 1,5-2°C rispetto ai livelli preindustriali, così come concordato nell’Accordo di Parigi, si prevede che i ghiacciai perderanno tra un terzo e la metà del loro volume entro il 2100, secondo lo studio. “Questo sottolinea la necessità di un’azione climatica urgente”, avverte Wester. “Ogni piccolo aumento avrà un impatto enorme e abbiamo davvero bisogno di lavorare per mitigare il cambiamento climatico”.

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Ghiacciai in ritirata in Antartico: febbraio 2023 quinto più caldo

Il mese di febbraio 2023 è stato il quinto più caldo a livello globale, chiudendo così un inverno considerato il secondo più caldo mai registrato in Europa. Temperature così alte da provocare la riduzione dei ghiacciai: infatti il ghiaccio marino antartico ha raggiunto la sua estensione mensile più bassa nel record di dati satellitari, al 34% al di sotto della media di febbraio, battendo il precedente record di febbraio 2017. Anche l’estensione giornaliera del ghiaccio marino antartico ha raggiunto un minimo storico, superando il record precedente stabilito in febbraio 2022. Sono i dati elaborati dal Copernicus Climate Change Service (C3S), implementato dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine per conto della Commissione europea con finanziamenti dell’Ue.

Le condizioni più calde della media più notevoli sono state riscontrate nel nord della Norvegia e in Svezia, in tutta la Russia nordoccidentale nelle aree circostanti il mare di Kara e nella regione delle Svalbard. Anche il Regno Unito ha avuto il suo quinto febbraio più caldo in un record che risale al 1884. Al contrario, sono state riscontrate temperature mensili più fredde della media nella penisola iberica, in Turchia e in parti del Caucaso. In Europa, la temperatura media da dicembre 2022 a febbraio 2023 è stata 1,44 C sopra la media della stagione 1991-2020: si tratta, sottolinea Copernicus, del secondo valore invernale più caldo mai registrato in Europa. L’inverno del 2019/2020 è stato di quasi 1,4 C più caldo e questa stagione invernale è stata di 0,03 C rispetto al 2016 e al 2007.

Il ghiaccio marino, che si scioglie in estate e si ricostruisce in inverno, ha raggiunto “la sua estensione più bassa nei 45 anni in cui sono stati registrati i dati satellitari” il 16 febbraio, ha dichiarato Samantha Burgess, vicecapo dell’Osservatorio del cambiamento climatico di Copernicus. “L’estensione minima giornaliera del ghiaccio marino in Antartide è stata raggiunta il 16 febbraio 2023 con un’estensione totale di 2,06 milioni di km²”. Questi dati confermano quelli dell’osservatorio americano di riferimento, il National Snow and Ice Data Center (NSIDC), che aveva annunciato di aver misurato a febbraio un’estensione minima record del ghiaccio marino antartico. L’NSIDC ha infatti fatto notato un’estensione minima di “1,79 milioni di chilometri quadrati” raggiunta il 21 febbraio, specificando che si trattava di una cifra “preliminare”. Da confermare, già ben al di sotto il record di febbraio 2022. Lo scioglimento del ghiaccio marino non ha un impatto immediato sul livello del mare, perché si forma congelando l’acqua salata già presente nell’oceano. Ma il suo scioglimento sottopone la calotta glaciale all’assalto delle onde. Tuttavia, questa calotta glaciale – uno spesso ghiacciaio d’acqua dolce che ricopre l’Antartide – è particolarmente monitorata dagli scienziati perché contiene abbastanza acqua da provocare un catastrofico innalzamento del livello degli oceani se mai dovesse sciogliersi. “Le calotte polari sono un indicatore della crisi climatica ed è importante monitorare da vicino i cambiamenti che stanno avvenendo lì“, ha spiegato Burgess. Per Copernicus, si tratta dell’ottavo anno consecutivo che questa banchisa si è sciolta più del minimo medio del mese di febbraio (3,4 milioni di chilometri quadrati nel periodo 1991-2020). Questa osservazione fa temere che al Polo Sud si stia verificando per la prima volta un trend significativo di riduzione del ghiaccio marino, mentre era relativamente stabile nei quattro decenni precedenti nonostante forti variazioni annuali, a differenza del Polo Nord dove lo scioglimento è molto marcato.

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Ghiacciai in pessima salute. L’esperto: “In trent’anni perso il 50% della superficie alpina”

Un cubetto di ghiaccio posto sul bancone della cucina e che, dunque, è destinato inesorabilmente a fondere, scomparendo. Renato Colucci, glaciologo dell’Istituto di scienze polari del Cnr, utilizza questa metafora per descrivere lo stato dei ghiacciai, in Italia e non solo, in un’intervista a GEA.

Dottor Colucci, qual è lo stato di salute dei ghiacciai?

“Pessima, fa troppo caldo. Certo, non a dicembre perché in generale fa più freddo, però il problema principale è che le temperature sono quasi costantemente sopra la media. In una situazione ideale, le temperature dovrebbero oscillare intorno alla media e gli estremi dovrebbero essere equamente distribuiti: 50% delle temperature al di sopra della media, 50% al di sotto della media. Invece siamo di fronte a uno sbilanciamento di queste percentuali, con un tangibile rialzo delle temperature”.

Quali sono le aree geografiche più a rischio?

“Partiamo dal presupposto che nessun ghiacciaio del pianeta sta vivendo una fase positiva perché sono tutti, in forma variabile, in riduzione. I piccoli ghiacciai hanno iniziato a reagire prima perché è insito nella loro natura rispondere prima a un input di cambiamento climatico. I grandi ghiacciai, come per esempio l’Adamello e il ghiacciaio Dei Forni, hanno subito contraccolpi impressionanti e visibili non solo da un anno all’altro ma, addirittura, da una stagione all’altra. Va ricordato inoltre che il 2022 è l’hannus orribilis per i ghiacciai, senza precedenti. Sulle Alpi infatti non si erano mai osservate riduzioni così importanti e neppure si era registrato questo caldo eccessivo che non appartiene alle nostre latitudini ma che è tipico, invece, delle zone del Nord Africa. Negli ultimi trent’anni, abbiamo perso il 50% della superficie glaciale alpina ed entro 20-30 anni tutti ghiacciai al di sotto dei 3.500 metri saranno scomparsi”.

Quali sono state le strategie errate, dal punto di vista politico e umano, che hanno generato questa situazione drammatica?

“Negli ultimi trenta, quarant’anni si è dato maggior rilievo agli aspetti economici, a discapito dell’ambiente; i comportamenti umani, il progresso della civiltà hanno richiesto una produzione smodata di energia, la quale ha causato una serie di inconvenienti tra cui, ovviamente, proprio la riduzione dei ghiacciai. I cambiamenti climatici attuali si concretizzano in estati sempre più lunghe e calde in contrapposizione a inverni sempre più corti e meno freddi, caratterizzati da una minore quantità di neve che cade sui ghiacciai. Temperature elevate che, ribadisco, non possono che nuocere alla salute dei ghiacciai”.

La situazione è dunque irreversibile. Ci sono strategie che potrebbero però essere adottate per poter arginare questo drammatico fenomeno?

“Si sarebbe dovuto intervenire, in forma preventiva, almeno trenta, quarant’anni fa. Adesso, anche un cambio di rotta senza precedenti e compiuto a una velocità straordinaria non sarebbe sufficiente per ripristinare la situazione originaria. Alcuni comportamenti, come la riduzione del riscaldamento globale, potrebbero comunque arginare questo fenomeno che porta a ulteriori pericolose conseguenze, come nel caso dell’innalzamento del livello del mare che interesserà tutti, indistintamente. Per fare un esempio pratico, se si versa dell’acqua in una bacinella, l’acqua si alza su tutta la superficie liquida, e non solo dove la verso”.

Emergenza clima: i ghiacciai si ritirano. Legambiente: “Piano adattamento entro fine anno”

Irriconoscibili, spogli, crepati. Così sono i ghiacciai dopo l’estate più calda di sempre. “Siamo tornati su quelli che avevamo osservato due anni fa, vista l’annata particolarmente pesante. Abbiamo ritrovato un’emorragia di ghiaccio, torrenti gonfi e contemporaneamente siccità dappertutto, laghi scomparsi. La Marmolada è diventata una regina nuda, completamente scoperta dal ghiaccio“, racconta Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente, presentando il report finale ‘Carovana dei ghiacciai’ del Cigno verde.

La crisi climatica corre più veloce che mai, “a un ritmo impensabile anche dagli stessi esperti“, avverte il presidente nazionale, Stefano Ciafani. Le montagne sono la sentinella principale dei cambiamenti. I pascoli secchi intorno ai ghiacciai non riescono a stoccare l’anidride carbonica: “C’è stata una riduzione di stoccaggio del 30-40%”, denuncia Bonardo.

Dalla tragedia della Marmolada, all’alluvione delle Marche, fino alla frana di Ischia: nell’anno più drammatico per il Paese, Legambiente torna a chiedere con urgenza “una reale governance del territorio e dei rischi“, sollecita strategie adeguate e piani di adattamento al clima su scala regionale e locale, a tutela dei territori e delle comunità: “E’ fondamentale che il Governo Meloni approvi il Piano di adattamento climatico entro fine anno come annunciato e metta in campo gli strumenti e le risorse per attuarlo nel prossimo futuro. È altrettanto fondamentale procedere speditamente allo sviluppo delle politiche di mitigazione, partendo dall’aggiornamento del PNIEC agli obiettivi del programma europeo RePower EU”, afferma il presidente, Stefano Ciafani.

Il piano di adattamento ai cambiamenti climatici resta una “priorità assoluta” per il governo, assicura il ministro per il mare e la protezione civile, Nello Musumeci: “E‘ una vergogna che dopo sei anni non sia stato ancora reso operativo”, denuncia. “Non puoi fare prevenzione se non hai prima la previsione. Io non vado alla ricerca di responsabilità, dico soltanto di recuperare il tempo impegnato. Quando si ha nelle mani un piano di previsione che può mettere in pericolo la sicurezza di un territorio, si lavora anche di notte pur di arrivare ai tempi necessari e sei anni su questo strumento di previsione sono già tanti“.

Quanto ai ghiacciai, nello specifico, sulle Alpi Occidentali c’è in media un arretramento frontale annuo di circa 40 metri. Importante è il ritiro di 200 metri della fronte del Ghiacciaio del Gran Paradiso. I ghiacciai del Timorion (in Valsavaranche) e del Ruitor (La Thuile) con una perdita di spessore pari a 4,6 metri di acqua equivalente, registrano la peggiore perdita degli ultimi ventidue anni. Il Miage, in 14 anni, ha perso circa 100 miliardi di litri di acqua: il suo lago glaciale appare e scompare, negli ultimi tre anni in maniera sempre più rapida e repentina (in passato si verificava circa ogni 5/10 anni). ‘Sorvegliati speciali’ i ghiacciai Planpincieux e Grandes Jorasses in Val Ferret per il rischio di crolli di ghiaccio che potrebbero coinvolgere gli insediamenti e le infrastrutture del fondovalle. Nel settore centrale delle Alpi, emblematico il Ghiacciaio del Lupo che, solo nel 2022, nel suo bilancio di massa registra una perdita del 60% rispetto a quanto perso nell’arco di 12 anni. Il Fellaria perde in 4 anni quasi 26 metri di spessore di ghiaccio. Tra i fenomeni di collasso delle fronti spicca quello del Ghiacciaio del Ventina (Gruppo del Monte Disgrazia), che in un anno ha perso 200 metri della sua lingua. Per quanto concerne le Alpi Orientali, del grande Ghiacciaio del Careser (Val di Pejo), rimangono placche di pochissimi ettari, la sua superficie si è ridotta dell’86%. Numerosi gli arretramenti delle fronti, in gran parte dovuti alla cesura delle parti frontali, oltre un chilometro per la Vedretta de la Mare e a 600 metri per il Ghiacciaio di Lares (Gruppo dell’Adamello). E il Ghiacciaio della Marmolada tra quindici anni potrebbe scomparire del tutto, dopo che nell’ultimo secolo ha perso più del 70% in superficie e oltre il 90% in volume. In linea con gli altri due settori le perdite di spessore registrate per i ghiacciai di Malavalle e della Vedretta Pendente. Unica eccezione è il Ghiacciaio Occidentale del Montasio, piccolo ma resistente che, pur avendo subito in un secolo una perdita di volume del 75% e una riduzione di spessore pari a 40 metri, dal 2005 risulta stabilizzato, in controtendenza rispetto agli altri ghiacciai alpini.

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Caldo record in Groenlandia: sciolto 35% calotta glaciale a settembre

In Groenlandia sembra più luglio che settembre. Ed è allarme scioglimento ghiacciai. Dopo un’estate abbastanza fredda e umida, un’ondata di caldo lo scorso fine settimana ha causato un ampio scioglimento della calotta glaciale. “Il tipo di scioglimento che si vede tipicamente in piena estate” come scrive il Washington Post citando i ricercatori della zona secondo cui si tratta del più grande evento di fusione che si verifica a settembre, secondo analisi che coprono quasi quattro decenni. “Questo evento dimostra come il riscaldamento globale non solo aumenti l’intensità ma anche la durata della stagione di scioglimento dei ghiacciai“, ha affermato Maurice van Tiggelen, scienziato polare dell’Università di Utrecht nei Paesi Bassi.

Il primo giorno di settembre, in genere, segna la fine della stagione di scioglimento della Groenlandia, poiché i raggi del sole si abbassano e le temperature si raffreddano. Tuttavia, durante il fine settimana scorso, le temperature hanno iniziato a salire quando un getto d’aria calda si è spinto verso nord attraverso la baia di Baffin e la costa occidentale della Groenlandia. Di conseguenza, decine di miliardi di tonnellate di ghiaccio sono andate perse: un evento che, spiegano i ricercatori, potrebbe contribuire ad aumentare l’innalzamento del livello del mare. Tra venerdì e lunedì, diverse stazioni meteorologiche hanno registrato la temperatura massima per tutto l’anno: in alcune parti della Groenlandia occidentale si sono sfiorati i 36 gradi Fahrenheit (20°C), molto al di sopra della norma per questo periodo dell’anno. Il caldo ha quindi provocato lo scioglimento su circa il 35% della calotta glaciale, dato che si osserva di solito a luglio. In generale, a settembre si scioglie solo il 10 percento della superficie.

Con il cambiamento climatico, gli scienziati si aspettano che periodi di calore più duraturi e più forti influiscano sulla calotta glaciale, aumentando lo scioglimento generale dei ghiacciai.

(Photo credits: Kerem YUCEL / AFP)

Dal 1931 a oggi dimezzato il volume dei ghiacciai svizzeri

I ghiacciai svizzeri hanno perso metà del loro volume dal 1931 a oggi. È quanto emerge da uno studio dell’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo (ETH Zurigo) e dell’Istituto Federale per la Ricerca su Foresta, Neve e Paesaggio (WSL), che ha ricostruito la topografia dell’insieme dei ghiacciai svizzeri, che esiste dal 1931. Lo scioglimento dei ghiacciai delle Alpi – che gli esperti attribuiscono al riscaldamento globale – è stato monitorato da vicino dall’inizio degli anni 2000. Ma i ricercatori non sapevano molto della loro evoluzione nei decenni precedenti, perché allora solo pochi ghiacciai erano stati seguiti da vicino. “Sulla base di queste ricostruzioni e del confronto con i dati degli anni 2000, i ricercatori concludono che il volume del ghiacciaio è stato dimezzato tra il 1931 e il 2016“, hanno affermato ETHZ e WSL in una nota.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica La Cryosphère. I glaciologi hanno utilizzato immagini d’archivio (21.700 fotografie scattate tra il 1916 e il 1947) in grano di raffigurare l’86% della superficie glaciale svizzera e la stereofotogrammetria, una tecnica che determina la natura, la forma e la posizione di un oggetto usando le immagini. “Se conosciamo la topografia della superficie di un ghiacciaio in due momenti diversi, possiamo calcolare la differenza nel volume del ghiaccio“, spiega l’autore principale dello studio, Erik Schytt Mannerfelt.

Il ghiacciaio Fiescher, ad esempio, di cui nel 2021 erano rimaste solo alcune minuscole macchie bianche, nel 1928 sembrava un enorme mare di ghiaccio. I ghiacciai, però, non si sono ritirati continuamente nell’ultimo secolo, affermano gli scienziati. Hanno anche sperimentato episodi di crescita di massa negli anni ’20 e ’80 del 1900. Nonostante questa crescita nel breve periodo, “il confronto tra gli anni 1931 e 2016 mostra chiaramente che si è verificato un significativo ritiro glaciale“, dice uno degli autori dello studio, Daniel Farinotti, professore di glaciologia all’ETHZ e WSL. E ora i ghiacciai si stanno sciogliendo a un ritmo sempre più rapido.

Mentre hanno perso il 50% del loro volume tra il 1931 e il 2016, ci sono voluti solo sei anni – tra il 2016 e il 2022 – per perderne il 12%, secondo la rete svizzera di rilevamento dei ghiacciai GLAMOS. Per Farinotti l’evidenza è inconfutabile: “Il ritiro dei ghiacciai sta accelerando“.

(Photo credits: Fabrice COFFRINI / AFP)

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Montagne in pericolo: sempre più crolli, il caldo può essere una concausa

Scalare le vette alpine sta diventando sempre più pericoloso. Prima il crollo del seracco del ghiaccio della Marmolada che il 3 luglio scorso ha fatto 11 vittime, poi la frana sul Cervino avvenuta il 2 agosto a quota 3.715 metri, infine una frana di grandi dimensioni che si è verificata nel primo pomeriggio del 3 agosto in val Fiscalina, nelle Dolomiti di Sesto in Alto Adige.

Alla luce di questi eventi, il 14 luglio a causa delle condizioni in alta quota legate alla siccità e al connesso rischio di crolli, in via precauzionale le società Guide alpine del Cervino e di Courmayeur hanno sospeso la vendita della salita alla vetta del Cervino e del Monte Bianco, le vie per il Dente del Gigante e la Cresta di Rochefort. Ieri invece il sindaco di Saint-Gervais, in Francia, ha disposto la chiusura dei rifugi di Tete Rousse e del Gouter, lungo la via normale al Monte Bianco più frequentata. Appena qualche giorno prima aveva annunciato una cauzione da 15mila euro per eventuali spese di soccorso e sepoltura per quegli alpinisti che si arrischiavano a salire.

Anche secondo il sindacato delle Guide Alpine il caldo eccessivo e prolungato delle ultime settimane può essere il responsabile della più debole tenuta del permafrost sulle pareti delle vette più elevate. Il permafrost è il substrato costituito da rocce e ghiaccio tenuto insieme dal gelo, che caratterizza il corpo delle montagne al di sopra dei 3.300-3.500 metri.

Per Daniele Giordan, ricercatore del Cnr Irpi, raggiunto da GEA, “il perdurare dello zero termico a quote molto elevate può costituire un fattore destabilizzante aggiuntivo, ma non è la causa principale delle frane, può essere invece una concausa. Il crollo delle montagne, non solo delle Alpi, è infatti un processo naturale; questi fenomeni in estate si sono sempre verificati. La sensibilità attuale però, dopo i fatti della Marmolada, deve far aumentare l’attenzione su questi processi fisiologici. Va ricordato come in realtà il trend climatico attuale ed estremamente evidente, costituisca un elemento di disturbo aggiuntivo, soprattutto a quote più alte. Esistono zone con permafrost, il ghiaccio contenuto nelle fratture della massa rocciosa che fa da collante, che possono venire sottoposte a stress. Ma l’elemento su cui ragionare è che queste condizioni stanno facendo aumentare la quantità di rischi aggiuntivi. Le montagne non sono zone a rischio zero, tanto è vero che nei giorni precedenti al crollo sul Cervino, le guide alpine avevano smesso di utilizzare la via principale per la salita in vetta. Allo stato attuate delle cose dunque vanno prese in considerazione cautele aggiuntive. In queste condizioni è necessario valutare con estrema attenzione gli itinerari da seguire e le vette che si vogliono scalare, quindi è fondamentale affidarsi ai consigli e all’accompagnamento di guide esperte“.

Quindi, cosa porta le montagne a frammentarsi?

Gli esperti spiegano che le catene montuose non sono elementi statici, ma corpi vivi. Ma la destabilizzazione delle pareti rocciose non è un fenomeno che si verifica all’improvviso; a un occhio inesperto potrà sembrare così, perché si valuta solo il momento della frana, ma l’evento ‘cedimento’ è invece il risultato di un lungo processo che può durare diverse migliaia di anni. A seconda della struttura delle rocce e della topografia i processi di erosione possono agire in modo più lento o più veloce. In alta montagna assumono poi un ruolo importante anche i ghiacciai e il permafrost. Diversi fattori possono portare alla formazione e all’apertura di fessurazioni, tra questi le variazioni di temperatura nell’alternanza delle stagioni, la pressione del ghiaccio nelle fessurazioni (pressione criostatica), l’erosione ad opera dei ghiacciai, i cambiamenti dei livelli dei ghiacciai e le intense precipitazioni.

Secondo l’istituto svizzero per lo studio della neve e delle valanghe (Slf), il riscaldamento climatico accelera alcuni processi: “In molti luoghi – spiega infatti la dottoressa Marcia Phillipssi osserva un aumento della temperatura del permafrost roccioso, come evidenziato dalle misurazioni dell’Slf e della rete di rilevamento Permos presso diverse località delle Alpi svizzere. Questo avviene all’incirca nella stessa misura in cui si innalza anche la temperatura dell’aria. Quando il ghiaccio si riscalda, la sua azione stabilizzante sulle fessurazioni perde efficacia. Poco sotto gli 0° la sua stabilità diminuisce rapidamente. In questo modo i versanti montuosi ripidi possono diventare instabili, con un conseguente aumento dei crolli di rocce nelle regioni caratterizzate dal permafrost. I ghiacciai possono fornire un supporto meccanico alle pareti rocciose. Lo scioglimento dei ghiacci in seguito al riscaldamento globale fa venir meno tale sostegno, per cui la roccia già fragile può in alcuni casi crollare“.