L’aria degli uffici urbani è più inquinata di una strada trafficata

L’aria che esce dagli edifici adibiti a uffici nelle aree urbane potrebbe essere più inquinata di quanto si credesse. Lo rivela uno studio della Purdue University. Un team di ricerca guidato da Brandon Boor, professore associato presso la Lyles School of Civil Engineering, ha pubblicato una nuova ricerca sulla rivista Cell Reports Sustainability in cui si afferma che gli edifici moderni rilasciano continuamente composti organici volatili (VOC) nell’aria esterna e probabilmente contribuiscono in modo significativo al carico di queste sostanze dell’atmosfera urbana. Il team ha condotto misurazioni dirette dello scambio di inquinanti nell’aria esterna-interna in un edificio per uffici ad alte prestazioni, utilizzando una strumentazione all’avanguardia per la qualità dell’aria e una piattaforma avanzata di automazione degli edifici.

Tradizionalmente pensiamo di filtrare l’aria esterna che entra nei nostri edifici. Sulla base dei risultati del nostro studio, ora dobbiamo considerare la pulizia dell’aria che esce dai nostri uffici, dalle nostre case e dalle nostre scuole per ridurre le emissioni nell’ambiente esterno“, dice Boor. Lo scopo di questa ricerca, spiega lo scienziato, è quello di misurare accuratamente i composti organici volatili nell’aria che entra ed esce dagli edifici urbani.

I moderni edifici pubblici e commerciali sono in genere dotati di sistemi di riscaldamento, ventilazione e condizionamento per migliorare la qualità dell’aria interna e il comfort termico. Quando l’aria urbana viene fatta circolare meccanicamente all’interno, la sua composizione può cambiare in modo significativo. I materiali da costruzione, gli arredi, gli occupanti e le loro attività – come cucinare, pulire e usare prodotti di consumo e per la cura personale – possono rilasciare una varietà di contaminanti gassosi e particellari che possono essere scaricati direttamente nell’atmosfera urbana. La ricerca di Boor ha rilevato che le concentrazioni di composti organici volatili negli ambienti interni sono da 2 a 15 volte superiori a quelle esterne e che, per unità di superficie, le emissioni negli edifici sono paragonabili a quelle del traffico, delle industrie e delle emissioni biogeniche.

In particolare, il team ha scoperto che l’ufficio è una fonte significativa di emissioni di monoterpeni reattivi e silossani nell’ambiente esterno. I silossani sono ampiamente utilizzati in deodoranti, profumi, lozioni e prodotti per la cura dei capelli. Un recente studio ha rilevato che le routine quotidiane per la cura dei capelli rilasciano grandi quantità di silossani nell’aria esterna attraverso gli scarichi del bagno, dimostrando ulteriormente come gli edifici possano influire sull’inquinamento dell’aria esterna.

Un algoritmo per tracciare l’inquinamento dell’aria: lo strumento messo a punto da ENEA

Arriva l’algoritmo in grado di tracciare l’inquinamento dell’aria per settore ed area geografica. Si chiama ORSA ed è stato messo a punto dall’ENEA per identificare la provenienza per settore e area geografica delle emissioni inquinanti, tenendo traccia dell’origine anche durante le trasformazioni chimico-fisiche in atmosfera. Grazie al supporto del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e della società Arianet, l’algoritmo ORSA è già operativo nel sistema ENEA di monitoraggio della qualità dell’aria MINNI, che fornisce previsioni giornaliere delle principali concentrazioni di gas e particolati negli strati più bassi dell’atmosfera (a tre giorni per l’Italia e a quattro per l’Europa).

Questo strumento funziona come un vero e proprio sistema di tracciabilità che permette di ‘etichettare’ le emissioni per conoscere il ‘contributo’ specifico di ogni singola fonte alle concentrazioni di inquinanti in atmosfera”, spiega Gino Briganti del Laboratorio ENEA di Inquinamento atmosferico, primo autore dello studio pubblicato su Atmosphere insieme ai colleghi Ilaria D’Elia, Mihaela Mircea e Antonio Piersanti. “È pensato in particolare per le amministrazioni locali – prosegue Briganti – che hanno il compito di preservare la qualità dell’aria e la salute dei cittadini attraverso politiche che vadano a incidere direttamente sulle fonti più inquinanti che comprendono il traffico stradale, il riscaldamento domestico, gli allevamenti, i fertilizzanti e l’industria. Ad esempio, ARPA Piemonte lo ha utilizzato per un suo studio”.

Attualmente esistono i cosiddetti inventari delle emissioni, compilati per legge dalle agenzie ambientali, che catalogano e calcolano la quantità di massa di ogni sostanza inquinante che ha impatto su salute e ambiente (ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri, composti organici volatili, ammoniaca, metalli pesanti) emessa dalle diverse sorgenti. “Tuttavia, tale informazione non è sufficiente per capire ‘chi fa cosa e quanto’ in aria, perché lo spostamento delle masse d’aria e i processi chimici e fisici in atmosfera modificano le caratteristiche degli inquinanti a cui sono esposti l’uomo e l’ambiente”, spiega Antonio Piersanti, responsabile del Laboratorio ENEA di Inquinamento Atmosferico. Ad esempio, le polveri, trasportate e disperse dal vento, vanno incontro a deposizione sulle superfici e a risospensione successiva, a seconda delle loro dimensioni, che dipendono dal tipo di sorgente; l’ozono, un inquinante tipicamente estivo, non viene emesso direttamente da sorgenti naturali o antropiche, ma si genera in aria da reazioni chimiche che coinvolgono ossidi di azoto e composti organici volatili, cioè sostanze emesse da diverse attività antropiche e dalla vegetazione.

Il nostro algoritmo ha dimostrato di essere uno strumento adeguato per orientare la pianificazione delle politiche di qualità dell’aria, perché rileva la composizione ‘attuale’ e non ‘potenziale’ dell’atmosfera (come in altri metodi), mettendo in luce le principali sorgenti sulle quali agire; successivamente, occorrerà uno studio modellistico completo, con maggiori costi di calcolo, che vada a stimare direttamente gli effetti delle specifiche riduzioni delle emissioni considerate dalle politiche di qualità dell’aria in esame”, sottolinea Piersanti.

Una prima applicazione sperimentale su scala nazionale del metodo ORSA ha già confermato che nei mesi invernali, in Italia, le maggiori concentrazioni di PM10 sono attribuibili al riscaldamento residenziale, specialmente nei centri abitati. Nella Pianura Padana, il traffico e l’agricoltura hanno un impatto rilevante sull’inquinamento dell’aria. Inoltre, ad esempio, in alcune località rurali della Lombardia, le concentrazioni estive di ozono sono prevalentemente originate in altre regioni oppure derivano da alti strati dell’atmosfera confermando che questo inquinante, particolarmente dannoso per la salute e l’ambiente, è originato da contributi non localizzati, ma proviene dal trasporto per centinaia di chilometri e dalla trasformazione chimica di altri inquinanti.

acqua

Per rimuovere il piombo dall’acqua basta…una birra

Ogni anno i birrifici producono e scartano migliaia di tonnellate di lievito in eccesso. I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e del Georgia Tech hanno ora trovato un modo per riutilizzare quel lievito per assorbire il piombo dall’acqua contaminata. Attraverso un processo chiamato biosorbimento, il lievito può assorbire rapidamente anche tracce di piombo e altri metalli pesanti dall’acqua. I ricercatori hanno dimostrato di poter confezionare il lievito all’interno di capsule di idrogel per creare un filtro che rimuove il piombo dall’acqua. Poiché le cellule di lievito sono incapsulate, possono essere facilmente rimosse dall’acqua una volta che è pronta da bere.

“Il fatto che i lieviti stessi siano biobased, benigni e biodegradabili è un vantaggio significativo rispetto alle tecnologie tradizionali”, spiega Patricia Stathatou, ex postdoc presso il MIT Center for Bits and Atoms, ora ricercatrice presso il Georgia Tech e prossima assistente alla School of Chemical and Biomolecular Engineering del Georgia Tech.

I ricercatori prevedono che questo processo possa essere utilizzato per filtrare l’acqua potabile che esce dai rubinetti delle case, o per trattare grandi quantità di acqua negli impianti industriali.

Le capsule sono fatte di un polimero chiamato polietilenglicole (PEG), ampiamente utilizzato nelle applicazioni mediche. Quando la miscela viene illuminata dai raggi Uv, i polimeri si legano tra loro formando appunto capsule con il lievito intrappolato all’interno.

Secondo i ricercatori, questo processo consumerebbe probabilmente meno energia rispetto ai processi fisico-chimici esistenti per la rimozione di tracce di composti inorganici dall’acqua, come la precipitazione e la filtrazione a membrana. Questo approccio, radicato nei principi dell’economia circolare, potrebbe ridurre al minimo i rifiuti e l’impatto ambientale, favorendo al contempo le opportunità economiche delle comunità locali. Questo approccio potrebbe avere un impatto particolarmente significativo nelle aree a basso reddito che storicamente hanno dovuto affrontare l’inquinamento ambientale e l’accesso limitato all’acqua pulita, e che potrebbero non essere in grado di permettersi altri modi per rimediare, dicono i ricercatori.

Gli esperti stanno ora esplorando le strategie per riciclare e sostituire il lievito una volta esaurito e sperano di capire se sia possibile utilizzare materie prime derivate dalla biomassa per produrre gli idrogel, invece di polimeri basati su combustibili fossili.

“In futuro, questa è una tecnologia che può essere evoluta per colpire altri contaminanti in traccia di interesse emergente, come i Pfas o persino le microplastiche”, dicono i ricercatori.

autostrada

Gas cancerogeni nell’abitacolo delle auto: allarme degli scienziati

Il calore favorisce la circolazione nell’abitacolo delle auto di un gas tossico derivante dai ritardanti di fiamma, che si trovano, ad esempio, nella schiuma dei sedili. E’ quanto emerge da uno studio statunitense pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology. La ricerca, condotta da ricercatori della Duke University, dell’Università di Berkeley e dell’Università di Toronto mostra che uno di questi prodotti, il trifosfato (TCIPP), è presente nell’aria del 99% dei veicoli testati.
“La nostra ricerca ha scoperto che i materiali interni rilasciano sostanze chimiche dannose nell’aria dell’abitacolo delle nostre auto”, spiega l’autrice principale Rebecca Hoehn, scienziata della Duke University. “Considerando che il conducente medio trascorre circa un’ora in macchina ogni giorno, si tratta di un problema significativo per la salute pubblica. È particolarmente preoccupante per i guidatori che effettuano spostamenti più lunghi così come per i passeggeri bambini, che respirano più aria rispetto agli adulti”.

I ricercatori hanno rilevato ritardanti di fiamma all’interno degli abitacoli di 101 auto (modello 2015 o successivo) provenienti da tutti gli Stati Uniti. Il 99% delle auto conteneva tris (1-cloro-isopropil) fosfato (TCIPP), un ritardante di fiamma oggetto di indagine da parte dell’U.S. National Toxicology Programma come potenziale cancerogeno. Nella maggior parte delle auto erano presenti ritardanti di fiamma aggiuntivi a base di esteri organofosforici, tra cui tris (1,3-dicloro-2-propil) fosfato (TDCIPP) e tris (2-cloroetil) fosfato (TCEP), due agenti cancerogeni della Proposition 65 della California. Questi e altri ritardanti di fiamma sono anche collegati a danni neurologici e riproduttivi.

In condizioni normali, la concentrazione di TCIPP è simile a quella che si trova all’interno di una casa. Ma quando la temperatura sale, sia all’interno che all’esterno dell’auto, le concentrazioni di questa sostanza aumentano bruscamente. E la presenza di TCIPP nelle schiume dei sedili rafforza questo effetto. Il problema è che il TCIPP è potenzialmente cancerogeno, secondo un rapporto pubblicato nel 2023 dal Dipartimento della Salute degli Stati Uniti. Testato su ratti e topi, ha causato tumori al fegato e all’utero.

L’astronomia che inquina: scienziato americano si batte per studi sostenibili

Anche la scienza dello spazio è ‘colpevole’ di inquinamento. Le emissioni di carbonio associate ai viaggi aerei per partecipare a conferenze professionali costituiscono una frazione considerevole di quelle prodotte dai ricercatori in ambito accademico. Andrea Gokus, borsista del McDonnell Center presso il Dipartimento di Fisica delle Arti e delle Scienze della Washington University di St. Louis, da tempo si batte per una riduzione di queste emissioni. In un articolo pubblicato su PNAS Nexus, Gokus e i suoi collaboratori hanno stimato le emissioni di CO2 equivalenti per i viaggi alle conferenze per tutte le 362 riunioni aperte nel campo dell’astronomia nel 2019. Il totale è stimato in 42.500 tonnellate, ovvero circa 1 tonnellata per partecipante a ogni riunione. “Fare rete e discutere di nuovi sviluppi scientifici durante le riunioni è importante per far progredire il settore, ma si possono fare degli aggiustamenti per ridurre il loro pesante costo di carbonio“, spiega Gokus.

Grazie alle riunioni a distanza, le emissioni di CO2 equivalenti dovute ai viaggi possono essere quasi completamente eliminate. Ma queste offerte virtuali spesso non sono considerate come efficienti opportunità di networking. Gli organizzatori di riunioni dovrebbero considerare la possibilità di localizzare le conferenze il più vicino possibile alla maggior parte dei partecipanti, dice Gokus, evitando scenari in cui la maggior parte di essi viaggia in aereo a livello intercontinentale.

Io e i miei coautori siamo tutti membri dell’organizzazione di base Astronomers for Planet Earth, o A4E“, spiega l’esperto, che si è interessato per la prima volta all’astronomia sostenibile durante la riunione annuale della Società Astronomica Europea del 2020, che si è svolta durante la pandemia.

Oltre alle riunioni virtuali, Gokus e i suoi coautori propongono formati ibridi e riunioni tenute in un piccolo numero di centri fisici, che possono poi essere collegati virtualmente.
Questo approccio ha il potenziale di ridurre soprattutto i viaggi a lungo raggio (cioè intercontinentali), che contribuiscono alla maggior parte delle emissioni. Se i viaggi intercontinentali sono inevitabili, gli autori dello studio suggeriscono di massimizzare il tempo trascorso nella destinazione del viaggio: visitando gli istituti dei collaboratori nel Paese, ad esempio, e scegliendo collegamenti in treno o autobus durante le visite. Queste scelte non solo rendono le riunioni di astronomia più ecologiche, ma possono anche rendere il settore più inclusivo. I viaggi sono spesso più impegnativi per chi proviene da istituti meno ricchi, per chi è lontano dagli hub nordamericani ed europei, per chi deve gestire complesse procedure burocratiche per i visti, per i ricercatori disabili e per chi ha responsabilità di cura.

Il bello di rendere gli incontri più sostenibili è che può facilmente andare di pari passo con il rendere l’astronomia più inclusiva“, spiega Gokus. “Utilizzando la tecnologia per connettersi virtualmente, possiamo promuovere un approccio collaborativo più inclusivo, che può aiutarci a far progredire ulteriormente la nostra comprensione dell’universo. È importante lavorare insieme come comunità per raggiungere questo obiettivo, perché non esiste un pianeta B“.

Ecco come l’intelligenza artificiale ‘smaschera’ l’amianto nascosto nei tetti

Un team di ricercatori dell’Universitat Oberta de Catalunya (UOC) ha progettato e testato un nuovo sistema per individuare l’amianto non ancora rimosso dai tetti degli edifici, nonostante i requisiti normativi. Il software, sviluppato in collaborazione con DetectA, applica metodi di intelligenza artificiale, deep learning e computer vision alle fotografie aeree, utilizzando le immagini RGB, che sono le più comuni ed economiche. Questo rappresenta un vantaggio competitivo molto importante rispetto ai precedenti tentativi di creare un sistema simile, che richiedevano immagini multibanda più complesse e difficili da ottenere. Il successo di questo progetto, molto più scalabile, consentirà di monitorare in modo più sistematico ed efficace la rimozione di questo materiale da costruzione altamente tossico.

I ricercatori hanno addestrato il sistema di deep learning utilizzando migliaia di fotografie conservate dall’Istituto Cartografico e Geologico della Catalogna, insegnando allo strumento di intelligenza artificiale quali tetti contengono amianto e quali no. Sono state utilizzate 2.244 immagini (1.168 positive per l’amianto e 1.076 negative). L’80% è stato utilizzato per addestrare e validare il sistema, mentre le restanti immagini sono state riservate al test finale. Il software è ora in grado di determinare la presenza di amianto in nuove immagini valutando diversi modelli, come il colore, la consistenza e la struttura dei tetti, nonché l’area circostante gli edifici. Il progetto sarà utile nelle aree urbane, industriali, costiere e rurali. Per legge, i comuni spagnoli dovrebbero effettuare un’indagine sugli edifici contenenti amianto entro aprile 2023, ma non tutti lo hanno ancora fatto.

Le fotografie iperspettrali facilitano l’individuazione dell’amianto, perché contengono molti più strati di informazioni, ma non sono ideali per sviluppare un metodo di rilevamento efficiente, a causa della loro limitata disponibilità e dell’elevato costo per ottenerle. Il sistema sviluppato dai ricercatori dell’UOC è il primo a utilizzare le immagini RGB, che possono essere prese dagli aerei e sono comunemente utilizzate dai servizi cartografici di molti Paesi.

A più di vent’anni dalla messa al bando del suo utilizzo in edilizia, l’amianto rimane un grave problema di salute pubblica. Si stima che, nella sola Catalogna, siano ancora presenti oltre quattro milioni di tonnellate di fibrocemento di amianto. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, questa sostanza causa più di 100.000 morti all’anno a livello globale, soprattutto per cancro ai polmoni, ma anche per altre patologie come tumori pleurici e fibrosi polmonare. L’obiettivo legale per la rimozione dell’amianto dagli edifici pubblici è il 2028, mentre quello per gli edifici privati è il 2032.

Lo sviluppo di questa soluzione tecnologica contribuirà ad affrontare una delle questioni chiave nella lotta all’amianto: come le autorità possono identificare quali tetti lo contengono, in modo che possa essere rimosso da professionisti qualificati e accreditati.

Il suolo è inquinato? Te lo dice il porcellino di terra

Valutare l’inquinamento del suolo con un metodo del tutto naturale, osservando cioè il comportamento di alcuni organismi che lo popolano ovvero i porcellini di terra: è questo l’obiettivo dei ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca che hanno lanciato la campagna di crowdfunding ‘Tanti Piccoli Porcellin!‘ per sviluppare un prototipo strumentale per riconoscere un suolo sano da uno contaminato, coniugando le risposte comportamentali dei porcellini e i più sofisticati strumenti dell’intelligenza artificiale.

I porcellini di terra sono gli unici crostacei ad avere colonizzato la terraferma a partire dal Carbonifero Inferiore, fra i 359,2 e i 318,1 milioni di anni fa: questi antichissimi animali dovettero adattarsi in un ambiente nuovo compensando, prima fra tutte, la disidratazione. Come? Attraverso un particolare comportamento gregario: i porcellini di terra tendono a stare aggregati, perché questo riduce la superficie di contatto dei singoli animali con l’aria. In condizioni di stress indotto da un suolo contaminato, il gruppo invece si frammenta.

“Il primo passo per contrastare gli effetti dell’inquinamento dei suoli, è proprio quello di monitorarne lo stato di contaminazione. Per farlo abbiamo ideato un metodo rapido, economico e non invasivo, nonché rispettoso nei confronti degli animali”, spiega Lorenzo Federico, responsabile del progetto e dottorando presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università di Milano-Bicocca. “Grazie al crowdfunding svilupperemo un migliore metodo di osservazione per il comportamento gregario dei porcellini di terra quando esposti ai suoli e ne quantificheremo le risposte grazie ad algoritmi sviluppati all’interno del nostro team. In altre parole, studiando come reagiscono i porcellini potremo capire se un suolo è inquinato o meno, e a che livello”.

Nello specifico, lo stato di aggregazione verrà monitorato mediante un dispositivo che combina un detector (microtelecamera a infrarossi) e un’arena in plexiglas, all’interno della quale sarà disposto il suolo da monitorare e dieci porcellini di terra. Basteranno poche ore perché i contaminanti, se presenti, determinino alterazioni comportamentali facilmente quantificabili. “Il nostro obiettivo finale è quello di sviluppare un prototipo che utilizzi la procedura automatica di analisi già brevettata da Elisabetta Fersini, docente di Informatica del nostro ateneo, per quantificare lo stato di aggregazione dei porcellini quando esposti a suoli contaminati”, spiega Sara Villa, docente di Ecologia presso l’Università Milano-Bicocca e componente del team. “Questo auto-apprendimento sarà utile per ridurre i tempi di analisi e di elaborazione di un rapporto di qualità ambientale”.

Per sviluppare un primo prototipo sperimentale si punta a raccogliere 10.000 euro attraverso la campagna di raccolta fondi attiva su Ideaginger.it, la piattaforma di crowdfunding con il tasso di successo più alto in Italia. Il progetto ‘Tanti Piccoli Porcellin!’ – tra quelli della VI edizione di BiUniCrowd, l’iniziativa dell’Università di Milano-Bicocca che permette ai progetti della comunità universitaria di ottenere sostegno e visibilità dall’esterno – è stato selezionato da A2A, che cofinanzierà la campagna di crowdfunding.

Chi desidera fare una donazione avrà anche l’opportunità di fare analizzare il suolo del proprio orto o del proprio giardino per verificarne lo stato di salute.

Ecco come il sughero può liberare il mare dal petrolio

Le fuoriuscite di petrolio sono disastri mortali per gli ecosistemi oceanici. Possono avere un impatto duraturo sui pesci e sui mammiferi marini per decenni e creare scompiglio nelle foreste costiere, nelle barriere coralline e nel territorio circostante. Per disgregare il petrolio vengono spesso utilizzati disperdenti chimici, che però spesso aumentano la tossicità del processo. In Applied Physics Letters, pubblicato da AIP Publishing, i ricercatori della Central South University, della Huazhong University of Science and Technology e della Ben-Gurion University of the Negev hanno utilizzato il trattamento laser per trasformare del comune sughero in un potente strumento per il trattamento delle fuoriuscite di petrolio.

L’idea era quella di creare una soluzione non tossica ed efficace per la pulizia del petrolio utilizzando materiali a bassa impronta di carbonio, ma la decisione di provare il sughero è stata frutto di una scoperta sorprendente. “Abbiamo scoperto per caso che la bagnabilità del sughero lavorato con il laser cambiava in modo significativo, acquisendo proprietà superidrofobiche (che respingono l’acqua) e superoleofile (che attirano l’olio)”, riferisce l’autore Yuchun He. Ecco allora che, combinando questi risultati con i vantaggi ecologici e riciclabili del sughero “abbiamo pensato di utilizzarlo per la pulizia delle maree nere”, spiega il secondo autore Kai Yin.

Il sughero si ricava dalla corteccia delle querce da sughero, che possono vivere per centinaia di anni. Questi alberi possono essere raccolti ogni sette anni circa, rendendo il sughero un materiale rinnovabile. Quando la corteccia viene rimossa, gli alberi amplificano la loro attività biologica per sostituirla e aumentano il loro stoccaggio di carbonio, quindi la raccolta del sughero contribuisce a mitigare le emissioni.

Il sughero raccoglie l’olio senza assorbire l’acqua, per cui è possibile estrarre l’olio ed eventualmente riutilizzarlo.

inquinamento

L’esposizione all’inquinamento nei primi 2 anni di vita aumenta il rischio di deficit di attenzione

Un numero crescente di ricerche dimostra che l’esposizione all’inquinamento atmosferico, soprattutto durante la gravidanza e l’infanzia, può avere un impatto negativo sullo sviluppo cerebrale. Ora uno studio condotto dall’Istituto di Barcellona per la Salute Globale (ISGlobal), ha scoperto che l’esposizione al biossido di azoto (NO2) nei primi due anni di vita è associata a una minore capacità di attenzione nei bambini di età compresa tra i 4 e gli 8 anni, soprattutto nei maschi. L’NO2 è un inquinante che proviene principalmente dalle emissioni del traffico.

Lo studio, pubblicato su Environment International, mostra che una maggiore esposizione al biossido di azoto è associata a una peggiore funzione attentiva nei bambini di 4-6 anni, con una maggiore suscettibilità a questo inquinante osservata nel secondo anno di vita. Questa associazione persisteva a un’età compresa tra i 6 e gli 8 anni solo nei ragazzi, con un periodo di suscettibilità leggermente maggiore dalla nascita ai 2 anni di età.

I ricercatori hanno utilizzato i dati di 1.703 donne e dei loro figli provenienti dalle coorti di nascita del Progetto Inma in quattro regioni spagnole. Utilizzando l’indirizzo di casa, i ricercatori hanno stimato l’esposizione residenziale giornaliera a NO2 durante la gravidanza e i primi 6 anni di infanzia. Parallelamente, hanno valutato la funzione attentiva (la capacità di scegliere a cosa prestare attenzione e cosa ignorare) a 4-6 anni e a 6-8 anni e la memoria di lavoro (la capacità di trattenere temporaneamente le informazioni) a 6-8 anni, utilizzando test computerizzati validati. Non sono state trovate associazioni tra una maggiore esposizione a NO2 e la memoria di lavoro nei bambini di età compresa tra 6 e 8 anni.

“Questi risultati sottolineano il potenziale impatto dell’aumento dell’inquinamento atmosferico dovuto al traffico sullo sviluppo ritardato della capacità di attenzione ed evidenziano l’importanza di ulteriori ricerche sugli effetti a lungo termine dell’inquinamento atmosferico nelle fasce di età più avanzate”, spiega Anne-Claire Binter, autrice dello studio e ricercatrice post-dottorato presso ISGlobal.

La funzione attentiva è fondamentale per lo sviluppo delle funzioni esecutive del cervello, che gestiscono e controllano azioni, pensieri ed emozioni per raggiungere un obiettivo o uno scopo. “La corteccia prefrontale, una parte del cervello responsabile delle funzioni esecutive, si sviluppa lentamente e continua a maturare durante la gravidanza e l’infanzia”, aggiunge Binter. Questo la rende vulnerabile all’esposizione all’inquinamento atmosferico, che negli studi sugli animali è stato collegato all’infiammazione, allo stress ossidativo e all’alterazione del metabolismo energetico nel cervello.

“Nei ragazzi, l’associazione tra esposizione a N02 e funzione attentiva potrebbe durare più a lungo perché il loro cervello matura più lentamente, il che potrebbe renderli più vulnerabili”, sottolinea l’autrice. Per capire meglio questo aspetto, gli studi futuri dovrebbero seguire le persone nel tempo per vedere come l’età e il sesso influenzino la relazione tra inquinamento atmosferico e capacità di attenzione, soprattutto nelle fasce di età più avanzate.

In conclusione, “questo studio suggerisce che la prima infanzia, fino all’età di 2 anni, sembra essere un periodo rilevante per l’attuazione di misure preventive “, afferma Binter. “L’esposizione all’inquinamento atmosferico dovuto al traffico “è quindi un fattore determinante per la salute delle generazioni future”.

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Sul fondo dell’oceano 11 milioni di tonnellate di plastica. Ma potrebbero essere molte di più

Una nuova ricerca del Csiro, l’agenzia scientifica nazionale australiana, e dell’Università di Toronto, in Canada, stima che sul fondo dell’oceano giacciano fino a 11 milioni di tonnellate di inquinamento plastico. In sostanza è come se ogni minuto, un camion della spazzatura entrasse nell’oceano. Poiché si prevede che l’uso della plastica raddoppierà entro il 2040, capire come e dove viaggia è fondamentale per proteggere gli ecosistemi marini e la fauna selvatica.

Come spiega Denise Hardesty, ricercatrice senior del Csiro, questa è la prima stima di quanti rifiuti plastici finiscono sul fondo dell’oceano, dove si accumulano prima di essere scomposti in pezzi più piccoli e mescolati ai sedimenti. “Sappiamo che ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti plastici entrano nei nostri oceani, ma non sapevamo quanto di questo inquinamento finisse sui fondali”, dice l’esperta.

Mentre in passato sono state stimate le microplastiche presenti sui fondali marini, questa ricerca prende in esame gli oggetti più grandi, come reti, bicchieri e sacchetti. Secondo Alice Zhu, dottoranda dell’Università di Toronto che ha condotto lo studio, la stima dell’inquinamento da plastica sul fondo dell’oceano potrebbe essere fino a 100 volte superiore alla quantità di rifiuti che galleggiano sulla superficie. Il fondo sta quindi diventando un luogo di “riposo permanente”.

I risultati dello studio rivelano che la massa di plastica si concentra intorno ai continenti: circa la metà (46%) di quella prevista sul fondo oceanico globale risiede al di sopra dei 200 metri di profondità. Le profondità oceaniche, da 200 m a 11.000 m, contengono il resto della massa plastica prevista (54%).

L’articolo, ‘Plastics in the deep sea – A global estimate of the ocean floor reservoi’r, è stato pubblicato su Deep Sea Research Part I: Oceanographic Research Papers. Questa ricerca fa parte della missione Ending Plastic Waste del Csiro, che mira a cambiare il modo in cui produciamo, utilizziamo, ricicliamo e smaltiamo la plastica.